sabato 22 ottobre 2011

Oswald Spengler: L' Uomo e la Tecnica.

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Titolo: L' uomo e la tecnica. Ascesa e declino della civiltà delle macchine
Autore: Oswald Spengler
Editore: Piano B - Edizioni della Meridiana
Collana: La mala parte
Traduttore: A. Treves
Prezzo: € 11,00
Dati: pag. 112, brossura

Che la riflessione circa la tecnica e i suoi rapporti con forme politiche, sociali e storico-filosofiche rappresenti un topic particolarmente di moda del nostro tempo, è cosa nota. Tuttavia, l'analisi raramente raggiunge la profondità che l'ambito richiede, risolvendosi spesso nella mera ripetizione o riformulazione delle tesi di quegli autori che batterono per primi questi sentieri. Proprio nell'Evo del compimento del tecnocratismo planetario, possono autori quali Heidegger, Junger, Spengler (per citare solo alcuni di quelli che potremmo definire dei “classici” di questo ordine di riflessioni), indicarci una via per comprendere il luogo in cui ci troviamo, per decriptare il moto uniformemente accelerato che caratterizza i nostri tempi, al fine di decifrarne i geroglifici? Riteniamo che la riedizione di Der Mensch und die Technik. Beitrag zu einer Philosophie des Lebens di Oswald Spengler possa mostrare come il profetismo dell'autore in questione non abbia ancora cessato di concernerci. Trattasi di una delle opere meno considerate dell'autore, la cui recezione italiana, che ha il suo incipit nel 1931, è legata al nome di Angelo Treves (viene proposta, in questa nuova edizione, proprio la sua traduzione), ex massone, ex militante di sinistra, vicino alla figura di Filippo Turati, nonché traduttore del Mein Kampf, su commissione diretta di Mussolini il quale, parimenti, favorì la diffusione de L'uomo e la Tecnica, nonché di Anni Decisivi, dello stesso Autore. Una personalità singolarmente eclettica: crediamo sia l'unico traduttore ebreo di Adolf Hitler. L'opera, un classico del pensiero sulla tecnica, intesa quale chiave di volta della comprensione del percorso spirituale della Modernità, viene pubblicata ora come L' Uomo e la Tecnica. Ascesa e Declino della Civiltà delle Macchine da Piano B, casa editrice di Prato, con una prefazione di Emmanuel Mattiato, il quale ci propone, tra l'altro, un proficuo confronto tra l'Autore e Ernst Junger, circa la dimensione immanente e peculiarmente umana della guerra, della lotta. Der Kampf als inneres Erlebnis, celebre formulazione jungeriana, pone guerra e vita nella medesima costellazione, esattamente come il Nostro stabilisce una netta correlazione costitutiva tra aggressione predatrice, tecnica e umanità. La conflittualità manifestata, esteriore, trova le sue radici nell'essere dell'uomo; essa altro non è che proseguo diretto di quello scontro perenne che tuona nelle profondità del Wachsein, dello spengleriano essere-desto. Come sostenne Hoffman, Alle Existenz ist Kampf. Un pensiero che non ha mai abbandonato l'Occidente, da Omero a De Maistre, e che rende questi Autori un luogo privilegiato, tappa obbligata, nell'indagine di ciò che siamo. Veniamo ora, propriamente, alla via intrapresa nel testo che esaminiamo. Scopo del cammino è l'indicare il nesso strettissimo tra umanità e tecnica, legame che si palesa nello stesso sorgere dell'uomo in quanto tale, nonchè trait d'union direttamente costitutivo di quest'ultimo. Binomio archetipico, la cui ultima propaggine è riscontrabile nella sinergia che coinvolge le polarità faustiane di Weltzivilisation e tecnica moderna. Si indaga, soprattutto, la continuità tra questi momenti della storia dell'uomo, in un organicista “procedere a ritroso”, o “retrocedere avanzando”, attraverso i momenti salienti della vita della Kultur euro-occidentale, presentata in quanto totalità vivente e non come semplice frammentazione. In senso stretto, dunque, la dicotomia rilevante-saliente\irrilevante-secondario è insensata, in quanto in ogni parte traspare quella luce che avvolge la totalità. Ciò, propriamente,tramite una lettura di tipo morfologico- genealogico del divenire storico, in vista di tutta una serie di previsioni, che costituiscono l'ultima sezione dell'indagine. Ed è proprio la declinazione del metodo storico-morfologico elaborato ne Il Tramonto dell'Occidente e nella tale opera applicato allo studio del “gruppo delle civiltà superiori”1 ciò che muove la ricerca spengleriana rivolta, ora, all'origine dell'uomo e del suo essere al mondo, nonché, della tecnica, in quanto propria modalità costitutiva. E' bene, prima di continuare, spendere qualche parola a proposito di questa metodologia. Rinunciando a costruire una storia di tipo progressivo e lineare, costruita a posteriori ed interessantesi di meri eventi passati, di forme morte, sprovviste della propria aura, come direbbe Benjamin, Spengler sottolinea in vece l'incomunicabilità irriducibile delle differenti civiltà, delle diverse Kulturen, in quanto provviste di una serie di strutture fondamentali che non possono esser nemmeno comprese a posteriori, una volta estratte, astratte, dalla concretezza del loro in-essere. “Non esiste la civiltà ma le civiltà”, è bene ricordare questa massima del Nostro2. Le Kulturen figurano come organismi, ognuno provvisto di una nascita, di una vita e di un tramonto, come monadi chiuse in sé e non di certo accomunabili in un ordine mondiale di tipo storiografico. Dove la storiografia crea comunanze, riducendo i tempi e annullando distanze, al fine di costruire un divenire unico del tempo del cosmo, Spengler insiste sull'irriducibilità delle Civiltà ad un unico sistema, insistendo sull'analogia simbolica tra di esse, in vece che sul loro concatenarsi causale. Dove l'occhio dello specialista cerca somiglianze, superfici comuni da sottoporre al vaglio della comparazione scientista e obiettiva, volta a costruire un cosmo attorno all'uomo moderno tramite la sistematizzazione del suo passato, l'occhio morfologico rinuncia a tale creazione per indagare analogie strutturali, la presenza del medesimo atto poietico in organismi differenti e ben lungi, quand'anche prossimi. Il positivismo livellante non fa che trapiantare all'interno di organismi- civiltà ben lungi, fondamenti propri a sé medesimo, inventando un passato costruito ad hoc e proiettando questo passare nel futuro, al fine di renderlo abitabile. In poche parole: i metodi diagnosticati come mistificanti dal Nostro trovano il loro fulcro nell'ideologia progressista. Se l'Occidente ordina destini diversi in una lunga catena omogeneizzante, lo fa per porre sé stesso come ultimo anello. Ogni teleologia agisce sugli scarti qualitativi ridotte a informe quantità. La morfologia si muove in direzione contraria. Proprio l'ideologia del Progresso, fucina livellante e riducente, deve essere, di conseguenza, abbandonata. La storia non è un continuum qualitativamente omogeneo ma discontinuità, scarto, differenza, in una parola: organicità. Al collezionismo enciclopedico, già denunciato da Nietzsche, risulta preclusa ogni comprensione del divenire formale. Lo ribadiamo: l'analogia è da rimarcarsi dove insiste l'incomunicabilità, la differenza qualitativa tra forme. La mera somiglianza, in vece, non investe oggetti d'esperienza ma forme morte, enti mobilitati dalla mano violentatrice dei laboratori e dei musei, la quale ordina e colleziona la realtà in vista di quel mero enciclopedismo caratterizzante la specializzazione delle scienze europee, per dirla con Husserl. Se la somiglianza investe mere quantità, l'analogia è qualitativa, organica, totale3. Diventa necessario uscire dai musei, templi di forme morte, luoghi di culto dello storiografismo imperante, per acquisire quel “tatto fisiognomico”, quello “sguardo di Goethe” che, “sorvolando i tempi, scopre il significato profondo di ciascun fatto particolare”4. Trattasi di una storia che abbraccia tutti i domini dell'esistenza, non solo quelli accumulabili e ordinabili dai posteri. Trattasi delle esistenze, singole e ieratiche, delle Kulturen. A partire da queste considerazioni è possibile pensare le insufficienze, denunciate da Spengler, di quegli approcci idealistici, volti a privilegiare, nelle ricostruzioni, “singoli fatti abbelliti” lasciando all'oblio intere porzioni di passato che “scorrono via in un grigio e ininterrotto flusso”5, nonché delle diagnosi materialistiche, che trasformano distanze e interi processi, accomunati, ridotti e livellati sotto l'obelisco del pragmatismo, l'ultima religiosità occidentale possibile, che estende totalitariamente i suoi domini al passato. Nella prospettiva di tipo “vitalistico” spengleriana, la questione della tecnica entra in una costellazione in cui diviene co-legata direttamente alle aurore, ai meriggi e ai tramonti delle Civiltà, non occupando un ruolo marginale, parziale, come negli ideologismi appena citati. In un quadro concettuale di questo tipo, sono due gli errori da evitare, fraintendimenti derivanti entrambi dalla considerazione della tecnica come mero orpello umano, di cui ci si può facilmente e spensieratamente sbarazzare. Dove l'uomo viene considerato in quanto somma di parti “anatomicamente” indipendenti tra loro, la tecnica può apparire come un semplice mezzo, come medium: tale è la rappresentazione analitica dell'uomo, propria dei positivismi di ieri e oggi, che la morfologia intende scalzare, passando a considerarlo in modo olistico, come forma viva in vece che somma di parti inorganiche. Non dobbiamo, anzi tutto, considerare le macchine, i dispositivi tecnici che ci si presentano quotidianamente innanzi allo sguardo, come gli scopi della tecnica in quanto essa risulta essere molto più antica. Potremmo dire, piuttosto, che i macchinari che costellano la nostra puntiforme esistenza sono solo modi della tecnica, suoi gradi di oggettivazione, né i primi né gli ultimi apparsi su “questo nostro piccolo pianeta che in un tratto dello spazio infinito traccia per breve tempo la sua traiettoria”6. In secondo luogo, la tecnica non va pensata a partire dalla produzione di strumenti, in quanto semplice mezzo volto alla realizzazione di un fine estrinseco ad essa, essendo essa congenita all'esserci dell'uomo (trattasi della “posizione strumentale-antropologica” criticata da Heidegger in Die Frage nach der Technik). Possiamo anzi affermare, con Spengler, che è proprio la tecnica a creare quelle lacune che intende colmare, quelle finalità verso le quali, sincronicamente, tenderebbe. Non si danno finalità “esterne”.
La posizione di limiti in vista del loro superamento, ad infinitum, è il proprio caratterizzante l'animo di quella civiltà che ha fatto della tecnica la sua chiave di volta. Trattasi di quell'uomo “faustiano”, figura magistralmente tratteggiata nell'opera principale di Spengler, la cui tensione asintotica verso l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo eclissa colonne d'Ercole, hybris e nemesis, elementi propri del tipo di umanità “apollinea”, caratterizzante le Kulturen nel loro nascere. Solamente uno sguardo morfologico permette di sorpassare il limite imposto da tali fallacie. Proprio dall'animo umano è necessario, secondo il Nostro, muovere per orientarsi in nebulose di tal guisa, non di certo da concezioni finalistiche o meramente strumentali. Come sostiene Mattiato, nell'Introduzione, “il rischio, nell'età moderna, consiste dunque nello scindere tradizione e tecnica, cioè nel trasporre la nozione metafisica di assoluto nella tecnica, cioè in uno strumento. Si giunge allora alla creazione di nuovi miti, tra cui quello della religione della tecnica”7. Solo lo sguardo morfologico, in poche parole, che detronizza l'uomo dal ruolo di possessore dello tecnica, liquidandone la centralità planetaria, permette di indagare la reciproche contaminazioni tra mano, strumento e pensiero; in somma, il loro sinergico co-istituirsi. L'applicazione del procedere morfologico alla storia degli albori dell'umanità rivela un nuovo volto degli eventi. Se metodi quali anatomia e biologia indagano scale gerarchiche interne alle singole forme di vita, scomposte e ricomposte nei laboratori8, un approccio di tipo morfologico rivela una gerarchia macrocosmica, che vede, in ordine ascendente, minerali, vegetali, erbivori e predatori. L'uomo è situato al vertice, in quanto già predatore ma soprattutto essendo “libero dalla coercizione della specie”9, dalla cieca necessità della natura. Il prometeico sorgere dell'uomo, individuato a partire dalla sinergia tra l'occhio che scruta, la mano che agisce e l'arma fabbricata per l'attacco, lo pone inevitabilmente contro la natura, il cui ordine viene sorpassato, in vista della costituzione di una selezione propriamente “umana”, ossia, anti-naturale. L'uomo, sorgendo, si figura costitutivamente come un ribelle (l'espressione è di Spengler), che combatte incessantemente contro il suo Umwelt. Destinato a soccombere, procede in ogni caso sino alla fine. Il carattere tracotante dell'uomo e della tecnica, in fondo due modi di dire il medesimo nucleo pulsante, caratterizzano così quella contrapposizione congenita tra uomo e natura, che sfocia in un titanismo il cui esito apocalittico, come vedremo,è incarnato al meglio dal mantenimento delle posizioni ormai perdute del soldato di Pompei, ultimo paradigma eroico del Moderno. Di fatto, l'operare spengleriano non si riduce ad una semplice “rilettura” del passato, del non-più, ma trascina con sé la possibilità dell'augure di decifrare i caratteri del presentificare in vista di una previsione dell'avvenire. Solo un'adeguata lettura del proprio tempo permette quell'anticipazione, marca fondamentale, a detta del Nostro, di ogni pensiero di rango superiore. Giungiamo di necessità al lato prognostico dell'opera spengleriana: la decadenza della tecnocrazia occidentale ha le sue premesse nel suo stesso divenire: la stanchezza causata dalla tecnica, il ritorno a forme di vita più semplici come fuga innanzi all'onnipotenza del meccanismo, le “seconde religiosità”, le rivisitazioni, la dispersione delle tecniche di produzione e la rivalsa dei “popoli di colore” nei confronti della Weltzivilisation faustiana, che ora non ha più il monopolio delle tecniche. Tali sono gli esiti di quel cammino che investe il nostro esser qui e ora, il quale, se adeguatamente interrogato, rivela l'apocalisse congenita all'apparire del tipo faustiano, dispiegamento ultimo dell'originaria frattura prometeica, della lacerazione emancipatrice che relega l'uomo ad essere “misura di tutte le cose”. Le quali cose non son altro dall'uomo bensì enti disposti dall'intelletto calcolante, innanzi al divenire materiale, considerato come mero Bestand, come “fondo da magazzino”, secondo la celebre formula heideggeriana. Sottomessa, la natura si vendica nei confronti del suo figliol prodigo: le delimitazioni, semiosi originarie, volte alla soppressione del fondo predatore umano, non fanno che risvegliare ciò che intendono occultare: la volontà di potenza dell'uomo tende a dissolvere il limite in quanto tale; all'interno delle singole organizzazioni, la delimitazione dei dirigenti innanzi agli esecutori trasforma l'odio predatore, che presuppone comunque il rispetto dell'avversario, in disprezzo e invidia, impulsi rivelanti la ineguaglianza costitutiva delle due classi. A livello macroscopico, nella civilizzazione faustiana ora divenuta globale, si verifica il medesimo procedere: il rispetto dell'avversario, ancora presente a livello giuridico nel 1800, viene meno e le azioni belliche si trasformano in missioni di polizia. Non si dà più differenza tra il criminale, il brigante e l'avversario. La criminalizzazione è diretta conseguenza del disporsi planetario della tecnica, di cui i frutti sono eventi talmente catastrofici da risultare concepibili solo tramite paragoni con elementi naturali, come ci ricorda Junger in Foglie e Pietre. Invero, tale criminalizzazione è richiesta dalla tecnica in vista del suo dispiegarsi totalizzante. Come sosteneva Carl Schmitt, “il potenziamento dei mezzi tecnici di annientamento spalanca l'abisso di una discriminazione giuridica e morale altrettanto distruttiva”10: ossia, “questi mezzi distruttivi assoluti richiedono un nemico assoluto se non vogliono apparire disumani”11; è la tecnica, nel suo compiersi, che abbisogna di un nemico assoluto da attaccare con qualsiasi mezzo, senza esclusione di colpi. La catastrofe è già presente nella filigrana di tali eventi. A tale proposito, riportiamo gli ultimi passaggi dell'opera, in quanto decisamente incisivi: “Di fronte a questo destino (…), meglio una vita breve ma densa di fatti e di gloria che una vita lunga e vuota (…); il tempo non si può fermare: non vi sono saggi ritorni né prudenti rinunce. Soltanto i sognatori sperano nelle vie di salvezza. L'ottimismo è viltà. (…) Non abbiamo alternative. Il nostro dovere è di tener fermo sulle posizioni perdute, anche se non c'è più speranza né salvezza. Tener fermo, come quel soldato romano le cui ossa furono trovate a Pompei davanti a una porta: egli morì perché al momento dell'eruzione del Vesuvio si dimenticarono di scioglierlo dalla consegna. Questa è grandezza, questo significa aver razza. Una fine onorevole è l'unica cosa che non si può togliere all'uomo”12 (12). Se Spengler viene riconosciuto come uno degli esponenti del cosiddetto Kulturpessimismus, è anche da notarsi come tale atteggiamento scaturisca da una profonda presa di coscienza circa la realtà circostante. Il pessimismo spengleriano indaga, senza alcuna demonizzazione, ciò che intende prognosticare, a differenza di altri che poco conoscono di ciò che conducono al patibolo. E' da una profonda adesione a quel meccanismo parricida che coniuga lavoro, tecnica, massificazione ed economia (da notarsi: tutte grandezze inorganiche) che può scaturire qualsivoglia analisi e profezia, non certamente da fughe ultraterrene. L'atteggiamento del singolo rispetto alla fase discendente del ciclo euro-occidentale non può assolutamente prescindere da tali considerazioni. Non si tratta, qui, di riconoscere o meno un crepuscolarismo che non ha di certo una connotazione negativa, essendo un momento tanto necessario quanto quello dell'aurora delle civiltà, come ben riconobbe Julius Evola nei suoi scritti dedicati a Spengler13. L'atteggiamento non oscilla più tra essere e dover-essere, bensì tra dover-essere oppure non essere affatto. Se il destino della nostra Zivilisation è già stato scritto, il rifiuto di questa destinalità altro non è che una palese ammissione di impotenza rispetto al corso degli eventi. Il paradosso che denuncia il Nostro è quello, mutuato dal filosofo di Basilea, secondo il quale è realmente pessimista e nichilista un pensiero che rifugge il divenire per orientarsi verso paradisi perduti. Tale disposizione altro non fa che rivelare l'ultrapotenza di una realtà che non si riesce a comprendere , concettualizzare. Idealismi e materialismi sono ammissioni di questo tipo. Risulta necessario riconoscere tale realtà e contribuire al suo compimento, come attestano le pagine de “Il Tramonto dell'Occidente” nelle quali si invitano filosofi e metafisici a intraprendere vie quali l'ingegneria. Una terza opzione è esclusa. In un'ottica organicista, nessuna parte può opporsi al suo essere. Essere totalmente e morfologicamente oppure non essere affatto. Il resto è inattualità.


1. O. Spengler, L'Uomo e la Tecnica. Ascesa e Declino della Civiltà delle Macchine, Piano B, 29.
2. Si veda a tal proposito, O. Spengler, Il Tramonto dell' Occidente, Guanda, specialmente la sezione prima, Forme e Realtà.
3. Su analogia e somiglianza come approcci antitetici allo studio delle forme della realtà, si veda anche: René Guènon, Simboli dell'Analogia, in Simboli della Scienza Sacra, Adelphi, 275-8.
4. O. Spengler, L'Uomo e la Tecnica. Ascesa e Declino della Civiltà delle Macchine, Piano B, 36.
5. F. Nietzsche, Sull'Utilità e il Danno della Storia per la Vita, Adelphi, 21.
6. O. Spengler, L'Uomo e la Tecnica. Ascesa e Declino della Civiltà delle Macchine, Piano B, 41. Si noti come queste parole siano accostabili alla favola cosmologica elaborata da Nietzsche in Su Verità e Menzogna in Senso Extra Morale, ora in: F. Nietzsche, La Filosofia nell'Epoca Tragica dei Greci, Adelphi. La ridicolizzazione dell'antropocentrismo operata da entrambi gli Autori non potrebbe esser espressa in termini migliori.
7. Ivi, pag. 18
8. Una pungente satira di queste composizioni, scomposizioni e dissezioni è presentata da Renè Daumal in La Gran Bevuta, Adelphi
9. O. Spengler, L'Uomo e la Tecnica. Ascesa e Declino della Civiltà delle Macchine, Piano B, 57
10. C. Schmitt, Il Nomos della Terra, Adelphi, a cura di Franco Volpi, 430
11. C. Schmitt, Teoria del Partigiano. Integrazione al Concetto del Politico, 130
12. O. Spengler, L'Uomo e la Tecnica. Ascesa e Declino della Civiltà delle Macchine, Piano B, 108
13. Si veda, in particolare, J. Evola, Spengler e il Tramonto dell'Occidente, Fondazione Julius Evola

Iniziazione e controiniziazione in Cuore di tenebra

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http://www.secretum-online.it/default.php?idnodo=1217 (parte II)
http://www.secretum-online.it/default.php?idnodo=1224 (parte III)


“La verità interiore è nascosta:
per fortuna, per fortuna”[1].

“Non scendi spesso da noi
qui al Pireo, Socrate”[2].


            Parrà forse strano ai lettori riscontrare un titolo di questo tipo relativo ad un breve scritto la cui intenzione è l'indagine dei domini della Modernità da un punto di vista soggiacente altrove rispetto ad essa. Singolare, dunque, potrà sembrare l'accostamento del celebre romanzo di Joseph Conrad a tematiche di tipo iniziatico. Epperò ogni teorizzazione, è bene rammentarlo, non può prescindere da un'attenta analisi dei fenomeni contemporanei, in quanto “segni dei tempi”, segnali di quel mutamento che contraddistingue il divenire dell'uomo e del suo ambiente culturale e spirituale. Ogni evento, laddove questionato nel suo senso epocale e destinale – e non come se fosse una mera emergenza contingente ed occasionale – rivela una direzione, un riflusso spirituale diretto ad un traguardo, seppur nella maggior parte dei casi asintotico ed ideale, ossia mai conseguibile nella sua totalità.
            In questa sede analizziamo l'opera di Conrad Cuore di Tenebra, una delle più lucide testimonianze delle scelte spirituali dei tempi che corrono. E' bene precisare che qui non intraprenderemo né critiche né elogi, limitandoci a segnalare nelle pagine in questione l'emergere o meno – e la misura di tale insorgenza – dei motivi dominanti del nostro tempo. Questo nella persuasione, è bene anticiparlo, che, nonostante le innumerevoli critiche che muoveremo, il romanzo qui trattato sia uno dei più rilevanti contributi per chi voglia figurarsi la fisionomia del Mondo Moderno. Non intendiamo certamente, in siffatte minime riflessioni, delineare i tratti di un tale dominio, altri autori avendo già brillantemente provveduto a puntualizzazioni di questo tipo. Ricorderemo esclusivamente due peculiarità della regione metafisica appena accennata, due aspetti – o meglio due rifrazioni della medesima trasformazione – che si rincorrono fino alla nausea nelle pagine poste sotto osservazione. Caratteristiche che eleggiamo dunque a pietra di prova per valutare la collocazione morfologica di questo masterpiece.
            Poiché si tratta, in effetti, di due sfaccettature complementari della medesima questione: alla progressiva e crescente materializzazione delle condizioni esistenziali – avente riscontro nelle dimensioni tanto sociali quanto individuali, tanto religiose quanto lavorative, per citare solo alcune di esse – segue una ricerca di elementi originari e significativi nelle zone più infere dell'esistenza – ricerca essente, a tutti gli effetti, Leitmotiv di irrazionalismi, esotismi, “ritorni alla natura” e psicologismi[3]. E' bene chiarire meglio queste considerazioni.
            Il termine materializzazione vuole indicare la preminenza della dimensione inferiore del divenire contestualmente al conferimento di valore: il principio di individuazione, ciò che autenticamente dà senso alle scelte dell'uomo, non viene più ricercato presso gli dei che abitano gli interstizi tra i mondi ma nella cieca istintualità, nelle sfere pre-reali e pre-razionali. Questa, brevemente, la diagnosi. La dimensione planetaria della tecnica moderna non è che una delle manifestazioni di questo mutamento. La misura del reale diviene inorganica: i criteri di quantificazione fisico-materiale vengono applicati alla dimensione antropologica. E' la vendetta della macchina, com'ebbe a definirla Spengler[4], la rivalsa della materia. L'uomo perde il suo primato – condizione preferenziale posta in essere dalla stessa Modernità, peraltro – per giungere ad essere non solo equiparato ad una macchinario inorganico ma anche a doversi uniformare ad esso, per “stare a passo coi tempi”. I criteri di valutazione dello Spirito e delle sue produzioni si misurano in “prestazioni” e “forza-lavoro”. Segni dei tempi, si diceva, indici di un mutamento inaudito, mai verificatosi in precedenza – la cui portata intercontinentale non può che causare nuovi allarmismi. Un solo cenno alla distopia biologica cartesiana è sufficiente a tratteggiare questa Weltanschauung.
            Il primato metafisico dell'uomo in quanto copula mundi, punto mediano tra influenze sovra e sub-individuali, compare in tutte le Tradizioni superiori. Solo il Mondo Moderno, inaugurato dal gesto antropocentrico di Protagora, intese questa centralità in maniera teoretica ed astratta. Il nuovo “Io”, chimerico ed artificioso, non durò poi così tanto – e il diffondersi di irrazionalismi e filosofie della vita ne è autentica testimonianza. Ciò che preme sottolineare in questa sede è che irrazionalismi, psicologismi e Lebensphilosophien non nacquero per scardinare altro che una concezione già falsata di un Io il quale, escluso irrimediabilmente dall'eterno gioco degli archetipi, dichiarò la facoltà razionale – una sola fra le sue tante, è bene ricordarlo – come “centro di tutte le cose”[5]. L'identificazione di uomo in sé e facoltà raziocinante, razionalità e culto della razionalità, intesa quale fondo ultimo di tutte le cose è un gesto piuttosto eloquente, com'ebbe a notare lo stesso Jünger, nel suo indiscusso capolavoro di filosofia e morfologia della storia[6]. Intellettuali come Ernst Cassirer non si esprimettero in maniera molto differente. Non sembra nemmeno inutile rammentare la coerenza tra siffatta riduzione e il carattere eminentemente pragmatico delle scienze teoriche odierne. Il criterio discriminante di una teoria, nel suo senso moderno – originariamente, come theia orao, essa si riferì all'abilità degli auguri di interpretare i disegni divini delle costellazioni, distillando da queste ultime il volere degli dei – è la sua mera applicabilità contingente ed immediata. Ebbene, ricorderemo come la condizione necessaria di questo modo di procedere sia proprio la considerazione esclusivamente materialistica del divenire, del mondo fisico. Ancor di più: diremo che l'attenzione della tecnica moderna, il cui valore risiede nella manipolazione e mobilitazione della materia, intesa come fluida, pura ed elementare – situazione, questa ultima, che persino un Aristotele ebbe a considerare come mero caso limite, inaccessibile alla comprensione stessa – esige che la realtà intera si esaurisca nella sola materia. Solo così essa può garantire a se medesima la sua efficacia. Senza la riduzione della totalità vivente a ciò che è uno solo dei suoi innumerevoli stati, nozioni quali storia e progresso perderebbero immediatamente senso.
            Conseguente a questa caduta di livello è il secondo aspetto della questione qui considerata. Laddove la realtà, umana ed extra-umana venga ridotta al suo stato materiale ed esteriore, proprio in quest'ultima sfera andranno ricercate tanto le origini quanto la fonte di significazione della realtà esperibile – e, non in ultimo, dell'uomo. Da qui, l'eleggere istinti, nature, create sempre a posteriori, e irrazionalità a nuovi criteri di giudizio dell'intera realtà. Come conseguenza, può annoverarsi una sorta di dionisismo regressivo che spinge la ricerca antropologica, in senso lato, nelle zone più oscure dell'esistente – in quelle zone, appunto, consegnate ed abbandonate al giogo della prote hyle, alla sua cecità ed insensatezza. Nel caso presente, osserveremo la misura nella quale, negli ambiti psicoanalisti – le cui tematiche influenzano tutto il percorso conradiano in Cuore di Tenebra – l'ordinamento dell'Io nella sua totalità vada a riscontrarsi negli abissi dell'inconscio, nel cieco ribollire di un'istanza brutale e inintellegibile, in quanto pre-razionale. Non v'è produzione dello Spirito, secondo questi orientamenti teorici, che non abbia scaturigine all'interno del dominio dionisiaco del senza-nome, dell'Es. Qualsiasi stato della realtà viene ora fuso agli altri, secondo i dettami livellatori della quantità: la sua genesi ha da riscontrarsi nel non-ancora, nella materia non ancora formata che, per qualche oscuro motivo – beninteso, nessuno dei pensatori da noi evocati ha mai chiarito come dalla materia unica possano in seguito sorgere le produzioni molteplici; nessuno di essi si è mai curato di indagare come, all'interno di una considerazione monista della realtà possa darsi un mutamento, inconcepibile senza concorso di cause – si sublima tanto negli abiti quotidiani, nelle risposte comuni quanto nelle filosofie, nelle scienze, persino nelle spiritualità. Da qui le mitologie del progresso, dell'evoluzione, da qui tutti i materialismi storici e i pragmatismi, secondo i quali ogni produzione legata all'uomo va inscindibilmente indagata a partire dai mutamenti fisico-ambientali che coinvolgono l'umanità. La totalità dell'esperibile viene ridotto alla natura, all'informe che attende d'essere formato da un principio attivo che ha ancora da manifestarsi.
            Venendo propriamente all'argomento del presente scritto, l'appartenere del magnifico lavoro di Conrad all'orizzonte appena evocato si palesa già a partire dal suo sinistro titolo, il quale allude al territorio africano, allora semisconosciuto, misterioso e “pagano” e, al contempo, allo stadio spirituale raggiunto da Mr Kurtz, nonché al fondo ultimo di tutte le cose: un “cuore di tenebra”, appunto. Una ricerca che voglia dirsi integrale, secondo quest'ordine di considerazioni, giungerebbe a scontrarsi inevitabilmente con le tenebre delle origini. Ogni onesto ricercatore, sinceramente intenzionato a indagare la totalità degli ambiti antropologici giungerebbe, secondo le macchinazioni dell'irrazionalismo, ad incontrare siffatto fondo materiale quale principio ultimo di tutte le cose. Questo, in sintesi, è il messaggio di Mr Kurtz.
            Vi è chi ha parlato del viaggio tratteggiato nel romanzo come di un cammino “iniziatico”, attraverso il quale il protagonista giungerebbe, seguendo le tracce del suo predecessore, attraverso il tenebroso fiume Congo, dalle vertigini degli spazi aperti e luminosi dell'Oceano Atlantico sino agli interstizi claustrofobici delle foreste pluviali. Interpretazione siffatta condurrebbe a delineare una gerarchia all'interno del romanzo, la quale, articolata in base alla consapevolezza crescente dell'orrore – evocato da Mr Kurtz alla fine della sua vita – da parte dei personaggi e in relazione alla loro collocazione topologica, sarebbe così articolata:

1. Mr Kurtz: colui che ha sperimentato direttamente la tenebra interiore. Apice iniziatico.
Collocato nella foresta, dominio del buio irreversibile.

2. Marlow: chi ha esperienza indiretta del “cuore di tenebra”. Grado intermedio: medium.
Percorrenza del fiume, dominio della penombra.

3. La fidanzata di Mr Kurtz: totale incapacità di comprendere la “verità”. Pre-iniziazione.
Permanenza in Europa, dominio della luce e della superficie.

            Ed è proprio questa sfaccettatura della questione che verrà trattata nel presente scritto. Secondo siffatto filtro teorico, il rango metafisico di ogni personaggio del romanzo – potremmo dire, in realtà, di ogni uomo – andrebbe a dipendere dalla sua esperienza dello stato primigenio anzidetto. La familiarità con i demoni della materia, in somma, determinerebbe la posizione specifica dell'umanità in genere, all'interno di un sistema gerarchico che vede l'elementare quale principio supremo.
            Anzitutto è bene notare la significativa presenza dell'elemento fluviale, inteso come parte integrante in tutto il dramma, così fondamentale da venir caratterizzato come un personaggio tra gli altri. Il corso d'acqua diviene, in Cuore di Tenebra, medium, ponte, modalità di transito da una realtà manifesta, fenomenica – e, secondo le parole di Marlow, apparente – ad una dimensione più autentica dell'Essere, alla regione inferiore e tenebrosa del crudele primitivismo che ha catturato Kurtz, il singolare pontifex del delirante mondo dell'oscurità interiore. Ebbene, proprio in questo utilizzo notiamo una prima alterazione del cammino iniziatico, propriamente detto. Se la navigazione venne tradizionalmente intesa come strumento catartico, sovente legato ad un processo di ascesi[7], se l'affrontare l'elemento passivo delle acque, venendo da esse risparmiati, venne inteso alla stregua di quella prova del fuoco che va a dividere, alla fine dei cicli, i chiamati dagli eletti, nel caso qui indagato l'elemento acqueo assume connotazioni demoniache e luciferine. Il navigare di Conrad non conduce ad ek-stasi alcuna, in senso superiore, ma alla notte interiore, al caos dionisiaco, al primitivo scatenarsi delle potenze elementari – il viaggio di Kurtz, come vedremo, è irreversibile. L'Argonauta di Conrad non si  muove alla volta di alcunché di trascendente, di superiore: la sua ricerca mira a conseguire l'inconscio, l'irrazionale, la materia pura. Nella distopia conradiana, i Titani usurpano l'Olimpo, al sinistro grido del “questo sei tu”. Il caotico mette in questione il cosmico, fa vacillare le possibilità di quella assenza di moto interiore raggiungibile, tradizionalmente, “andando per mare”. Vivere non è necessario, navigare è necessario, recitava il motto spirituale degli Argonauti. Navigare è necessario a non vivere: con questa sinistra parafrasi potremmo delineare la dimensione metafisica di Mr Kurtz.
            Il viaggio, in questa occasione, diviene caduta qualitativa di livello, trasmutazione bestiale, regresso dionisiaco: “risalire quel fiume era come viaggiare a ritroso verso i più remoti primordi del mondo, quando la vegetazione invadeva la terra e i grandi alberi ne erano sovrani. Un corso d'acqua deserto, un silenzio profondo, una foresta impenetrabile. L'aria era calda, spessa, greve, ferma. Nella luce del sole non brillava gioia alcuna. Lunghi tratti d'acqua correvano, deserti, nel buio di lontananze ombrose […]. Nei punti più ampi, le acque scorrevano tra una quantità di isolotti boscosi; su quel fiume ci si poteva smarrire come in un deserto, si sbatteva per giornate intere nelle secche alla ricerca di un canale navigabile finché non si aveva la sensazione di essere vittime di un incantesimo e tagliati fuori da tutto quel che era noto un tempo – chissà dove – lontano – forse in un'altra vita”[8]. Il lasciare le rive verso l'ignoto non porta ad un trascendimento – in senso letterale, ossia, ascendente – ma ad una crescente contaminazione materiale. Il concetto-limite aristotelico – la materia intesa come polo dell'assoluta passività, contrapposto alla pura attività del principio ordinatore che deve, appunto, in-formare adeguatamente l'assoluta indeterminazione e negatività della prima – diviene ora obiettivo da conseguire. Come l'attività psicanalitica trascina la genesi dell'uomo nel magma ribollente dell'Es, così il conato conoscitivo di quel moderno Ulisse dantesco che è Marlow[9] non conduce quest'ultimo che alla follia palpitante del tenebroso cuore di Kurtz.
            Beninteso, tratti di questo tipo non appartengono esclusivamente agli ambiti letterari qui trattati, essendo mere sfaccettature della riduzione materialistica anzidetta. Di conseguenza, il lavoro di Conrad può a tutti gli effetti dirsi masterpiece, descrivendo magistralmente una caduta a cui il Mondo Moderno è sottoposto in ogni momento. Kurtz, diciamolo per inciso, sussurra continuamente il suo messaggio di morte dal cuore di tenebra dell'uomo moderno in quanto tale. Di là da ogni giudizio morale sull'opera, misuriamo questa ultima in base al suo incarnare, in misura maggiore o minore, splendori o decadenze, grandezze o declini, in base al suo collocarsi topologico, in senso superiore. Secondo quest'ordine di considerazioni non è dunque un azzardo, a partire dalla considerazione delle innumerevoli somiglianze accomunanti Mr Kurtz e il divenire della Modernità intera, proporre una sorta di identità analogica tra ambedue le oscurità.
            E' bene, tuttavia, procedere per gradi, mostrando tutte le fasi di quella discesa che coinvolge i protagonisti del romanzo nelle foreste africane, lontano dalle certezze, dalle illusioni e, in certa misura, dai controlli che vanno a denotare invece il mondo europeo.
            In primo luogo, notiamo quanto il precipitare di Kurtz assuma come oggetto da obliterare l'individuo in se medesimo, ossia, in ultima istanza, un Io cartesiano rivelantesi alla stregua di una precaria patina al di sotto della quale i riflussi dell'inconscio intonano sinistre melodie. Ora, la mera consapevolezza di ciò conduce ad una prima rottura del piano discorsivo-razionale[10] – rottura, a tutti gli effetti, conforme ad un incedere di tipo iniziatico. Dalle crepe aperte nell'Io a causa del suo approssimarsi al “cuore di tenebra”, i personaggi intravedono quel quid che, non avendo nome, è l'origine di tutti i nomi, l'informe che dà vita alle forme particolari e specifiche. La narrazione di Marlow raggiunge così il felice paradosso – antinomia propria ad ogni narrazione di tipologia iniziatica – di dover esprimere a parole un contenuto latente il quale, per sussistere, non necessita di comunicazione alcuna. Il narratore può solo sperare in una fugace intuizione da parte dei suoi uditori – comprensione superiore che, di fatto non si realizza – di un alcunchè di comprensibile unicamente tramite strumenti extra-ordinari, extra-linguistici. Tale impossibilità, tale corto circuito, come ben sostenne Zolla[11], è il presupposto di ogni verità di tipo iniziatico, ossia extra-umana, extra-dialogica ed extra-logica. Contenuti del genere, idee senza parole, come ebbe a definirli Oswald Spengler[12] – ed, evidentemente, non peculiarità di quella “cultura di Destra” denunciata da Furio Jesi[13] - si riducono al silenzio laddove provocati dalle parole ordinarie. Il linguaggio rivela qui la sua insufficienza. Secondo queste osservazioni, dunque, il fiume Congo potrebbe considerarsi analogo all'epoché necessaria all'elevazione iniziatica, alla tabula rasa che, mettendo al bando l'eredità logico-materiale del Neofita, permette a questo ultimo di accogliere una nuova Verità, metafisicamente superiore ed a-linguistica, extra-linguistica. Nel presente caso, tuttavia a questa frattura fa seguito alcunché di differente da ciò che in via “normale” può dirsi iniziatico – in quest'ultimo caso la materia venendo dapprima assunta (tesi – radicamento), in seguito sussunta e trascesa (antitesi - negazione affermatrice) ed infine riconquistata ed elevata qualitativamente (sintesi - uomo trascendentale). Solo l'iniziato, in poche parole, è conscio dell'identità metafisica che coinvolge nirvana e samsara, essere e divenire: egli ha assunto su di sé questa eguaglianza, ponendosi inizialmente come soggetto per poi morire nella materia, nella natura, ascendendo successivamente all'empireo e tornando infine tra gli enti particolari in modo inedito, come “portatore di luce” o “luce sulla terra”. Egli è come il marinaio che torna dalle acque tempestose, come l'alpinista che ritorna in pianura dopo l'esperienza dell'eterno ritorno delle cime innevate sull'orizzonte, colui che, avendo conosciuto l'Uno nella sua unità e purità, ora non può che vederlo in ogni dove. Queste, sinteticamente, le esperienza iniziatiche di rottura e ritorno alla materia.
            Per mostrare come il percorso di Kurtz sia ben lungi da quanto appena accennato, lasciamo parlare direttamente il protagonista. Questi si trova, innanzitutto, nell'imbarazzo di non riuscire a catalogare il “fenomeno Kurtz” come un semplice caso di alienazione mentale. Nel pieno del suo delirio esistenziale, lo strano personaggio è lucidissimo. Egli è immobile, attonito al centro del maelmstrom siderale della sua anima. La sua è una fermezza ieratica ma perfettamente cosciente: “Mi crediate o no, la sua intelligenza era perfettamente lucida – concentrato, è vero, su se stesso con orribile intensità, eppure lucida […]. Ma la sua anima era folle. Sola in quella terra selvaggia s'era guardata dentro e, per Dio!, vi dico che era impazzita. Dovevo – a causa dei miei peccati, suppongo – affrontare il cimento di guardarle dentro a mia volta”[14]. Egli – una figura di pietra consunta da una fiamma interna implacabile – è la parodia degli asceti che popolano i dipinti di Nicholai Roerich, assisi sulle vette scoscese e contesi dalla luce del mezzogiorno e dalla foschia delle vallate. La sua discesa nella materia non lo conduce verso una sintesi superiore, in grado di assumere il dominio della passività in una costellazione nuova e superiore. Il suo viaggio è senza ritorno: risvegliando i demoni della realtà elementare – e non possedendo affatto i mezzi per gestirne la presenza – questi finisce inevitabilmente per caderne sotto il giogo. Mai più quell'anima impazzita vedrà le stelle: “quella terra selvaggia […], credo che gli avesse bisbigliato tante cose di lui che egli non sapeva, cose che non aveva neppure immaginato prima di consultare la grande solitudine – e quel bisbiglio si era dimostrato irresistibilmente affascinante. Risuonava clamoroso dentro di lui perché nel profondo egli era vuoto...”[15]
            La fusione panica e dionisiaca di Kurtz viene illustrata dall'abilità narrativa di Conrad attraverso le descrizioni, le quali, nel romanzo, assumono un'importanza capitale. Per trasmettere al meglio la natura ottenebrata del sinistro personaggio, l'autore utilizza in modo cospicuo ampie descrizioni degli ambienti naturali nei quali si svolge il dramma sub-umano di Kurtz. Il cuore di tenebra africano fa da contrappunto sensibile agli incubi del commerciante – e viceversa. La magistrale tecnica di Conrad si articola in questo modo. Mentre la foresta buia e sussurrante, le sinistre anse del fiume Congo e gli altri luoghi naturali vengono descritti come se fossero desti e coscienti, come se disponessero di una intelligenza ben lucida – la natura dipinta dall'autore attende, nel cuore della selva, che i tributi ad essa riservati vengano pagati – al contempo, la fisionomia di Kurtz si lega inscindibilmente ai cicli naturali, al flusso e al riflusso del fiume, al sorgere e al tramontare della luna. Ed è appunto tramite questo artificio descrittivo – l'antropomorfismo della foresta e la naturalizzazione dell'uomo – che si giunge qui a realizzare pienamente questa fusione panica che vede Mr Kurtz entrare in un'intima compenetrazione con la foresta. Al fine di diminuire le distanze tra i due termini della terribile analogia, ognuno di  essi mutua le sue caratteristiche dall'altro. Questo sia detto, peraltro, per mostrare quanto nel presente romanzo non si dia una scissione tra orpello stilistico e contenuto – frattura che, a parere di chi scrive, permea ampie parti della pessima letteratura odierna – la modalità di espressione di Conrad essendo strettamente legata ai simboli che permeano il suo straordinario contributo.
            Kurtz, dicevamo, non è propriamente pazzo. La sua fisima è da cercarsi altrove. Se in relazione all'osservatore egli può dirsi immobile al centro del ciclone, nel mozzo della ruota, quasi che ciò che accade in lui e intorno a lui non lo riguardasse affatto, non appena il baricentro viene traslato, il vortice della sfrenata follia delle foreste pluviali si riproduce nella sua stessa carne, l'incubo che lo circonda penetra nella sua anima: “lottava anche contro se stesso. Lo vidi – lo udii. Vidi l'inconcepibile mistero di un'anima che non conosceva ritegno, né fede né paura, e che tuttavia lottava ciecamente contro se stessa”[16]. Nulla da spartire, dunque, con quella calma iniziatica, così bene tratteggiata da Plotino, che segue alla devastazione del principium individuationiis e alla conseguente visione della pura Realtà. La rottura della propria individualità conduce Kurtz ad un naufragio nell'elemento elementare e demoniaco, dal quale è impossibile fuggire –  egli non è pazzo, dunque, quanto piuttosto indemoniato, posseduto da una istanza dalla quale non ha più gli strumenti per liberarsi. Nella sua voce risuonano – e risuoneranno, fino alla sua morte – i sinistri fruscii della foresta, il silenzioso fluire e rifluire del fiume Congo, la sorgente del quale si riversa direttamente nel suo cuore ottenebrato: “la terra selvaggia […] aveva consumato la sua carne e sigillato la sua anima alla propria attraverso gli inimmaginabili cerimoniali di qualche iniziazione diabolica”[17]. Per questo stesso motivo, come vedremo, laddove condotto lontano dalla natura selvaggia, una volta infranta la sua simbiosi con essa, Kurtz si spegnerà misteriosamente, il suo baricentro spirituale essendo stato catturato dalle fronde dei millenari alberi africani.
            Indemoniato, dunque. E' bene ora spendere qualche parola intorno a queste considerazioni. Propria dei demoni è la medianità, l'incompiutezza, la divisione, la dia-bolicità. Dacciò, la funzione propriamente ermetica ed ermeneutica del demone stesso – il pensiero greco conobbe la virtù dell'eudaimonia, dell'avere un buon demone come guida. Quanto va ora sottolineato in questa sede è che, tenendo ferma questa concezione del demone, la funzione di quest'ultimo non può che essere temporanea ed, in certa maniera, contingente. Espletata la funzione di traghettatori, di media, a siffatte entità non resta che scomparire, lasciando spazio allo stato grazie ad esse conseguito[18]. In quanto mero strumento, allorché raggiunto il salto qualitativo richiesto, la pericolosa instabilità congenita del demone deperisce in favore di una nuova coerenza organica e metafisica. Continuare ad utilizzare strumenti del genere, anche dopo essere approdati allo stadio richiesto, con l'ausilio di essi raggiunto, sarebbe come il non voler abbandonare una canoa, utilizzata per attraversare un corso d'acqua, caricandosela sulle spalle. Essa risulterebbe, ovviamente, di impiccio. Occorre, dunque, essere disposti ad abbandonare siffatti strumenti e prepararsi, invece, ad assumere nuove disposizioni, conformi al nuovo stadio metafisico, ancora ignoto. Lo stesso dicasi a proposito di istanze medianiche del genere. Una volta espletato il compito ad esse preposto, se non abbandonate, non si avrà che una nuova caduta, ad un livello spirituale ancora più basso di quello da cui la ricerca partì. Siffatte entità, dunque, se non sottoposte all'egemonia di una istanza più alta, conducono chi ne trae giovamento nel luogo ad esse naturale, alla schiavitù del dominio elementare. In questo modo venne inteso il demone, così il pensiero antico – da Platone a Lao-Tse – conobbe il demonismo e se ne servì. Qualsiasi altra utilizzazione delle forze appena tirate in causa è indice di regressione. Abbandoniamo ora questo ambito, riservandoci di trattarlo compiutamente in altra sede. Questi pochi cenni sono sufficienti, ai fini del presente scritto.
            Cosa accade, tuttavia, nel caso in cui il demone non svolga questa sua funzione al meglio, permanendo anche dopo aver causato quella frattura necessaria all'ascesi? Questo è, propriamente, il caso di Kurtz il quale, entrato in contatto con le divinità ancestrali della terra e delle foreste, rimane fatalmente intrappolato nei domini di queste ultime. Non si verifica, in questo caso, conseguimento alcuno: il posseduto è condannato ad una ricerca continua, frenetica ed ossessiva – e ciò, in piena conformità alla sostanza che lo “possiede”. Vi è tutta una frenesia di una continua ricerca che non conduce a nulla, se non alla sua circolarità ossessiva. Ogni nuova conquista scalza le altre, non avendo in sé alcuna ragion d'essere, senza soluzione di continuità: l'uomo, come un atomo impazzito, giunge a stadi qualitativamente sempre più infimi – la liberazione da questo circolo è semplicemente una chimera. Le due vie di Michelstaedter trovano compimento proprio in questo ambito.
            E' bene ricordare che Guénon, in uno dei suoi studi critici più noti[19], ebbe a criticare la filosofia speculativa moderna per ragioni analoghe: da metodo di ricerca, secondo l'etimo stesso della disciplina – nata per conseguire uno stato ad essa estrinseco e superiore, la sophia, questa giunse in seguito a proporsi come medesimo risultato da raggiungere, realizzando forse, quello che è il paralogismo più celebre dell'Occidente stesso: la conoscenza filosofica viene intesa quale obbiettivo ultimo da acquisire e questo raggiungimento non può avvenire che tramite la filosofia stessa. Sorto con finalità, secondo quanto detto prima, temporanee ed ultramondane – il congiungimento con gli dei tramite la hybris della condivisione della loro sophia – il demone filosofico si pose successivamente come uno stadio stabile, giungendo ad affermare la presenza della verità all'interno della ricerca, in quanto tale. Se, inizialmente, la ricerca filosofica dovette condurre ad alcunché di extra-filosofico – quest'ultimo aspetto, dunque, una volta conseguito, avrebbe messo fine alla ricerca – in seguito, il conseguimento di questa scintilla divina passò in secondo piano, sino a scomparire. Da qui la proclamazione della coincidenza tra verità e ricerca della verità – della quale il passo successivo è costituito dalla negazione dello stesso oggetto della ricerca, della verità stessa. 
            Citiamo queste corrispondenze, null'affatto esteriori, per mostrare quanto una certa corrente metafisica intese la pericolosità di demonismi di siffatto tipo. Allo stesso modo Platone, dopo aver enfatizzato il ruolo del daimon nell'acquisizione della conoscenza filosofica – giungendo, peraltro, ad identificare questa ultima ad una mania – avvertì le capacità ambivalenti di istanze di questo ultimo tipo, ponendole, ne La Repubblica, sotto il severo controllo del principio razionale – intendendo siffatta sorveglianza, volta ad impedire la rivalsa e il predominare della cieca istintualità, tanto valida per i caratteri “piccoli” quanto per quelli “più grandi”, ossia tanto a livello individuale quanto sociale, la struttura dei due gradi essendo la stessa, secondo le migliori leggi dell'analogia simbolica. L'egemonikon, la signoria interiore degli Stoici assunse una funzione analoga. Conrad fu ben conscio della necessità di un siffatto ordinamento – necessità che, come si vedrà, lo spinse parimenti a diagnosticare ottimamente le chimere del consueto monitoraggio borghese, a condannarne tanto la falsità e ipocrisia quanto la parentela, seppur ben celata, con gli oscuri domini di Kurtz. Ecco quanto l'autore scrive in proposito: “Come potreste immaginare quella particolare regione dell'era primordiale in cui la solitudine – una solitudine totale, senza un poliziotto – e il silenzio – un silenzio totale, senza la voce ammonitrice di un cortese vicino che sussurri la pubblica opinione – conducono i passi di un uomo libero da ostacoli?”[20]. Chi si trovi in una situazione di questo tipo, senza controllo alcuno – e ciò, in questo caso, a prescindere dal valore di verità e di legittimità di chi o cosa controlla – non fa che immergersi in “tutta la vita misteriosa e selvatica che si agita nella foresta, nella giungla, nel cuore di uomini primitivi. Non c'è iniziazione a questi misteri. Deve vivere in mezzo all'incomprensibile, che è pure detestabile. E ha anche un fascino che a poco a poco agisce su di lui. Il fascino dell'abominio – sapete”[21]. Una realtà di questo tipo giunge efficacemente a mettere quanto meno sotto osservazione gli ordinamenti consueti della stanca borghesia occidentale – che conserva in se medesima i germi del suo rovesciamento – la quale, lungi dall'essere distante da un Kurtz esiliato, reietto dal giudizio morale, proprio in questo modo manifesta quanta prossimità vi sia tra il mondo morale della decenza e dell'obbedienza e quello del comando spietato, delle foreste pagane e dell'omicidio.
            Il demone come conato, come Streben, essendo un mezzo particolarmente efficace per giungere sino ai confini dell'Io razionale, cosciente e superficiale, al contempo incarna un principio nefasto laddove non sussunto ad un disegno superiore. Come ebbe a scrivere Evola[22], le sorti di un Nietzsche o di un Michelstaedter invitano a riflettere: le parole composte dai due “iniziati allo stato selvaggio” non fecero altro che nuocere ad essi stessi, non disponendo questi ultimi di strutture metafisiche adeguate a gestire i loro stessi demoni. Quasi loro malgrado, i due pensatori giunsero ad intendere delle forze di tipo superiore: le loro illuminazioni, tuttavia, non procedendo da un'accurata ricerca e preparazione, non poterono che risultare fatali, conducendo l'uno alla pazzia e l'altro al suicidio, questo loro destino essendo, in relazione a quanto detto, la più alta garanzia di autenticità del loro pensiero. Così, i cavalli che nel Fedro platonico conducono la biga alata possono condurre tanto ai domini eterni delle idee quanto al trauma della nascita, alla catarsi dell'esistenza terrena. Allo stesso modo, il dodicesimo apostolo può essere tanto Paolo di Tarso quanto Giuda Iscariota.
            Come si diceva, dunque, alla rottura di un'individualità che esibisce spontaneamente le sue stesse crepe può seguire tanto una ascesi, una risalita, quanto un depotenziamento, una caduta di livello. Come è noto, un trascendimento può essere tanto ascendente quanto discendente: solo nel primo caso si può parlare di iniziazione, in senso proprio[23]. L'ultima situazione, invece, altro non rappresenta se non il crollo regressivo che coinvolge la Modernità intera e che Conrad è ben riuscito a far incarnare dal tenebroso personaggio di Kurtz. E' bene ricordare che qui risiede, secondo chi scrive, la grandiosa portata metafisica del romanzo in questione. La contro-iniziazione di Cuore di Tenebra è l'ultimo trascendimento possibile nei domini inorganici e agnostici del Mondo Moderno. La fedeltà alla materia, propria ai materialismi storici e scientifici dei tempi che corrono, la fuga nell'esotismo, in una natura – che, diciamolo per inciso, in quanto creata a posteriori non si dà se non unicamente nell'immaginario dei moderni – intesa come dimora naturale dell'uomo, la perdita di ogni dimensione superiore al puro divenire irrazionale e la conseguente riduzione di tutti i domini dell'essere a quest'ultimo stato: questi segni del nostro tempo sono magnificamente tratteggiati nel protagonista del romanzo di Conrad.
            Ci si permetta una breve parentesi, ma l'importanza della questione è capitale. Si tratta di delineare quale tipologia d'uomo – secondo le questioni iniziatiche qui trattate – possa affrontare i demoni della materia senza venirne fatalmente travolto. Riteniamo che l'analisi del presente simbolo – riscontrantesi nelle più svariate tradizioni[24] – possa indicare la collocazione esistenziale richiesta:

            In esso si trovano compendiate tutte le osservazioni svolte in questo breve lavoro. I significati analogici propri agli elementi che lo compongono sono innumerevoli e richiederebbero una trattazione più particolareggiata. Ci limiteremo a segnalare che esso offre una precisa indicazione della collocazione metafisica del cosiddetto “uomo trascendentale” – colui il quale, realizzata a livello iniziatico la totalità delle possibilità connesse al suo stato, trascende il possibilizzarsi stesso dell'ente molteplice. Costui si trova nel luogo, designato dal punto O, generato dalla congiunzione dell'asse verticale dell'essere b – nel quale sono, per così dire, incastonati i diversi stati dell'essere, di cui quello materiale non è che uno tra i tanti – con il piano designato sovente come superficie delle acque, qui indicato da c – le cui corrispondenze, a livello tradizionale, sono notevoli[25]. Questo piano vede un reintegrarsi del principio attivo, solare, maschile e fiammeggiante – designato da triangolo ABC – con quello passivo, lunare, femminile e ctonio – rappresentato dal “calice” DEF. La contrapposizione tra i due, è bene ricordarlo, essendo valida solo all'interno di un particolare stato dell'Essere, viene a dileguarsi non appena abbandonato questo ultimo – vediamo, nel presente simbolo, ad esempio, come questa insolubile opposizione scompaia nello stato O, quello nel quale ha dimora appunto l'iniziato. La circonferenza a che circoscrive il simbolo non rappresenta altro che lo stato di continuità proprio a ogni determinato stato dell'Essere. Solo colui che si situa al centro – permettendo alla sua più intima essenza di inscriversi in quel luogo metafisico immobile eppure fonte primaria del movimento nella sua totalità – può percorrere, ascendendo e discendendo – sebbene per la natura di quest'ultimo i termini posseggano lo stesso significato, analogo, peraltro, alla quiete stessa – gli assi, senza rimanere intrappolato nei domini della prote hyle. Solo un'iniziazione integrale permette di affrontare le asperità di queste regioni, per poi trasportarne l'impeto fatale ad un livello superiore – ad Eleusi, la sfrenatezza dei rituali concludevasi con l'épopteia, la visione del sacro; non diversamente accadeva in certe forme dello stesso culto dionisiaco – risolvendole, infine, nella calma assoluta del Sé che, conquistando i suoi stati materiali, si appropria al contempo della materia nella sua totalità. Ma, ancora una volta, questo non è di certo il caso di Mr Kurtz.
            Si noti, inoltre, che lo stadio rappresentato in O, in relazione alle presenti riflessioni, non è il luogo assunto come punto di partenza nell'ambito di alcunché di iniziatico. Sebbene l'uomo si trovi da sempre nella presente posizione, il più delle volte ciò accade in maniera inconsapevole, una consapevolezza di ciò, d'altra parte, essendo il prodotto del medesimo cammino ascendente del quale questo stato vorrebbe dirsi punto di partenza. Apice di ogni qualsivoglia iniziazione è appunto questo: che l'uomo riconquisti la sua posizione di centro del mondo[26]copula mundi – tra attività e passività, tra bestie e dei, sino ad una comunione, di certo panica, ma in senso superiore. Se l'uomo è da sempre situato in O, solo il conseguimento attivo di tale stato permette all'Io cartesiano di riconquistare la posizione di cardine del mondo che, proprio con l'avvento della Modernità, andò irrimediabilmente perduta. Solo un tipo umano del genere può auspicare una immersione nel fuoco del divenire puro, riemergendone illeso – anzi, rafforzato. In caso contrario, quanto destato e chiamato in causa dal buio senza spiragli del divenire puro mai abbandonerà lo sventurato avventuriero. Questo, per inciso, è il caso di Mr Kurtz.
            Dopo queste brevi considerazioni, rimane ora da chiarire un'ultima sfaccettatura del romanzo, ossia la differenza concernente la dimensione del ritorno alla superficie, dopo il pellegrinaggio nel chasma ribollente del puro elemento. Che il cammino iniziatico comporti una momentanea alienazione dalle regioni della materia, è opinione ampiamente condivisa. Che, tuttavia, questo estraniamento sia da conseguire come stadio supremo – quasi che non vi fosse altro a cui mirare – rimane un pregiudizio dei Moderni, i quali tendono sempre a concepire l'iniziato come un infelice che, in preda ad un risentimento nei confronti del mondo usuale, cerca rifugio in una seconda esistenza ultraterrena – come ben sostenne Nietzsche, uno dei fondamenti di errori di tale sorta fu il “mondo dietro al mondo” di fattura socratico-cristiana. Ebbene, per mostrare quanto questo pregiudizio sia esteriore, basti accennare alle riflessioni di Tomatis il quale, nel suo studio sulla ascesa alpi-mistica[27], ricorda come la trascendenza propria al camminare in montagna non costringa l'alpinista a permanere tra le vette ma quanto, al contrario, la scalata si concluda propriamente con il ritorno alla valle, alla pianura. Scopo dell'ascendere è il discendere, il ritornare al punto di partenza alla luce della consapevolezza che quest'ultimo non è l'unica realtà sussistente di per se stessa. Non si dà antitesi metafisica tra il grado della cima e quello della pianura; come ben sostenne, tra gli altri, Arturo Reghini, “la verità dell'uno non porta la falsità dell'altro; l'esistenza dell'uno non esclude la coesistenza dell'altro. Illusorio ed arbitrario è credere che non vi sia, e non vi debba essere, che un solo modo di sentire la realtà”[28]. Perché allora salire, perché abbandonare il piano della contingenza materiale per scorgere dietro ad esso una nuova luce, che conferisce verità ed esistenza al caduco, all'effimero, al transeunte – perché affrontare i pericoli dell'ascesi se il ridiscendere tra gli enti molteplici prima messi tra parentesi si presenta come necessaria conclusione del percorso? Perché, in breve l'iniziazione? Ricordiamo le riflessioni di René Daumal, la cui chiarezza è inequivocabile: “l'alto conosce il basso, il basso non conosce l'alto. Si sale, si vede. Si ridiscende, non si vede più; ma si è visto. Esiste un'arte di dirigersi nelle regioni basse per mezzo del ricordo di quello che si è visto, quando si era più in alto. Quando non è più possibile vedere, almeno è possibile sapere[29]. L'obbiettivo finale del cammino iniziatico – sebbene il processo tratteggiato da Daumal s'approssimi maggiormente alla cosiddetta Via della Mano Sinistra – altro non è che lo stesso luogo dal quale la ricerca ha avuto inizio, ora non assunto passivamente e inconsciamente ma conseguito volontariamente, attivamente, nella sua armonia principiale – equilibrio che solo dopo l'ascesa/ascesi appare in quanto tale. Così, oltre il nirvana, oltre l'apice iniziatico, altro non vi è che la verità ultima: la compenetrazione reciproca di essere e divenire, di Unità e Molteplicità. Dal chiasso del molteplice, il transito nel silenzio siderale conduce al riconoscimento del rifrangersi della parola Unica nel molteplice stesso. Innanzi a Iddio, tutte le parole divengono sinonimi di quel nulla stesso che Dio serba in sé, proprio il nulla essendo il termine umano più appropriato per comprendere siffatta intima compenetrazione, la Gottheit di Meister Eckhart. Ad un livello simile, le dicotomie proprie al Mondo Moderno si riducono al silenzio. Se dunque, in una prima fase, la mondanità viene trascesa, oltrepassata, questo abbandono serve a preparare il ritorno dell'iniziato nei domini prima considerati profani – ora immersi in quella musica delle sfere udibile e tollerabile solo dagli orecchi di chi sa. Sinfonia cosmica che incontra il suo proprio contrappunto nella differenza qualitativa che separa ogni essere – o meglio, ogni stato dell'essere – dagli altri magnificandolo nella sua assolutezza.
            Cerchiamo, ora, dopo questo breve excursus, dei cenni relativi ad un ipotetico ritorno di Mr Kurtz al suo stadio di partenza – ossia l'Europa, stando alla tripartizione che abbiamo messo in discussione, in principio. Chi torna alla luce, alla superficie delle cose e con quali occhi? Di certo Marlow, il mero contatto del quale con l'orrore di Kurtz non fa che rivelargli il lato demonico e materialista di ogni evento legato all'umano, secondo la riduzione già trattata – riduzione irreversibile, fantasmagoria di chi anche solo si limitò ad avvertire, senza preparazione alcuna, il primitivismo delle origini. Non torna invece Kurtz, il quale spira allorquando allontanato dal torrido “cuore di tenebra” africano. Il misterioso – ma quanto mai familiare ai Moderni, come nota Marlow al suo ritorno nel continente europeo – personaggio non farà più ritorno al mondo noto. La sua pseudo-iniziazione, principiata nel dominio europeo e protrattasi, attraverso un fiume che mai più potrà percorrere al contrario[30], nella notte interiore delle foreste pluviali, non lo condurrà ad alcun ritorno.
            Kurtz, ormai sfigurato dalla fusione panico-dionisiaca subita, ormai ridotto ad un mero fantasma elementare, si spegne fatalmente, laddove rotto il suo legame simbiotico con l'elemento naturale. La discesa del fiume Congo e l'allontanamento dalle zone selvagge procedono parallelamente al progressivo indebolimento, al crescente divenire passivo di Kurtz: “La corrente bruna scendeva rapidamente dal cuore della tenebra, portandoci verso il mare a una velocità doppia di quella con cui l'avevamo risalita; e anche la vita di Kurtz correva rapidamente, rifluendo dal suo cuore nel mare del tempo inesorabile”[31]. Allo stremo delle forze, in un ultimo conato di lucidità, al quale fa seguito solo la morte corporale, altre parole non riesce a sussurrare, se non “Che orrore! Che orrore!”[32]. Questo, forse, è l'unico ritorno, in senso proprio, a cui Kurtz è sottoposto – alla tenebra interiore, fa seguito un brusco risveglio, un trauma che non potrà che condurlo a morte certa. Le ultime parole di Kurtz altro non sono se non la conformazione crepuscolare e moderna del “questo sei tu”, ossia la vittoria della voragine materiale che fa da sfondo alle correnti ultimissime dei tempi che corrono. Unicamente da questo punto di vista Kurtz può dirsi iniziato, sebbene iniziato all'orrore del mondo moderno – dunque, in fondo, contro-iniziato. Unicamente in relazione a questo suo ultimo risveglio può avere senso la tripartizione accennata in precedenza. Egli è colui che abita il cuore della notte che tutto accomuna e livella, l'antagonista del circonfuso di luce nietzschiano, del mezzodì che annulla l'ombra delle cose[33]. La tenebra del fiume Congo, prendendo commiato da Mr Kurtz, o da quanto ne rimane, lascia a questo ultimo il dono più terribile che questi potesse da essa attendere: il dono di una lucidità pura. Solo attraverso questo terribile dono, a parere di che scrive, Kurtz raggiunge, per la prima volta, quello stadio d'insanità mentale che Marlow tentava, invano, di scorgere. Due parole e niente altro. Il ciclo si chiude.
            La follia di Kurtz – analogamente a quella di Nietzsche, come altri ebbero ad osservare[34] – è in sostanza l'epilogo della modernità stessa la quale, dopo aver mobilitato le forze infere dell'elemento – a tal proposito, il già citato libro di Ernst Jünger risulta cardinale[35] – ne cade inevitabilmente sotto il giogo sfrenato. La materia, destata e mobilitata, assume ora signoria incondizionata: conformemente a ciò, come già accennato, altra origine dell'uomo non avrà da ricercarsi se non nella materia, altra significazione non avrà da riscontrarsi se non nel ceco ribollire elementare. Infine, altro obbiettivo da conseguire non sarà che il dionisismo, che molti descrissero come fenomeno regressivo e crepuscolare[36] di civiltà aventi già condannato a morte se medesime.
            Il capolavoro di Conrad può dirsi, dunque, l'ottima testimonianza di un siffatto cammino discendente. Da questo punto di vista – che, nel presente scritto abbiamo assunto come criterio di valutazione e discernimento – l'interesse del romanzo in questione è enorme: di certo, secondo questa angolatura, esso può dirsi “iniziatico”, nel senso che illustra le ultime possibilità iniziatiche dei moderni. Esso è volto a individuare quale curvatura possa assumere un ipotetico cammino trascendente realizzato con gli scarni mezzi a disposizione dell'umanità odierna – ossia, un imbarbarimento naturalistico che, lungi dal conferire una successiva stabilità, conduce alla tirannia di movimenti schizoidi e disordinati. Gli stessi movimenti che, come ben osserva successivamente Marlow, giacciono latenti nella stanca borghesia delle metropoli continentali, immersa nella beata illusione di una distanza dai regni elementari – Marlow, iniziato all'orrore di Kurtz, sente tuttavia risuonare le sue ultime e terribili parole negli occhi bassi dei passanti, nei cieli metropolitani e – persino in misura maggiore – nella lugubre sala in penombra dove la fidanzata di Kurtz piange il defunto. L'orrore. Oggi, quel Kurtz sognante tra i tronchi millenari delle torride foreste africane si riscontra nelle metropoli, nelle masse informi, nelle fucine delle industrie e sotto il fitto fuoco della jüngeriana battaglia dei materiali. Manipolazioni non precedute da preparazione alcuna non conducono ad altro. E' destinale. E, ancora una volta, ribadiamo che, affinché questo corto circuito esistenziale possa perpetuarsi, occorre un'epoché, una tabula rasa di tutti gli elementi extra-materiali appartenenti all'uomo. L'operatività materialista, intesa come criterio discriminante di ogni produzione umana, richiede, esige che l'uomo si esaurisca nella sua mera dimensione materiale, che quest'ultimo venga considerato tale solo in quanto mero elemento tra gli altri. Ogni facoltà estrinseca alla mera materialità non sarà altro che una filiazione di questa ultima – ciò che un tempo necessitò di una giustificazione “dall'alto” nel regno della quantità viene deputato a scandire proprio quelle realtà che, tradizionalmente, conferirono invece senso alla lacuna morfologica della natura elementare. Tale rovesciamento appare ormai realizzato in tutte le sfaccettature della vita modera.
            Tale la materializzazione anzidetta. Materialismo quale stadio ultimo di quella contro-iniziazione che decretò tanto l'oscuramento di Kurtz quanto la nascita dei tempi moderni. Contro-iniziazione volta ad edulcorare il “cuore di tenebra”, in una euforia da naufraghi, come ebbe a definire Evola[37] quella noncuranza disinvolta che caratterizza così accuratamente l'umanità costretta tra le maglie delle metropoli delle Abendlandes, libera dal giogo di una divinità chimerica inventata ad hoc – e, stranamente, contenente i medesimi valori propri a chi vorrebbe “emanciparsi” da essa. Su ogni vanto e dignità della Modernità possa dunque risuonare il sinistro memoriale di Conrad, che chiude, secondo chi scrive, uno dei capolavori più autentici del nostro tempo: “Il mare aperto era sbarrato da un banco di nubi nere, e il quieto corso d'acqua che portava ai confini estremi della terra scorreva cupo sotto un cielo offuscato – pareva condurre nel cuore di una tenebra immensa”[38]. Un ciclo si chiude.


[1]    J. Conrad, Cuore di Tenebra, traduzione di R. Bernascone, introduzione di R. Hampson, con un saggio di V. S. Naipaul, Mondadori, Milano, 2000, pag. 105.
[2]    Platone, La Repubblica, a cura di G. Lozza, Mondadori, Milano, 1990, pag. 7.
[3]    In relazione a queste tematiche, si veda, essenzialmente, R. Guénon, Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, a cura di T. Masera e P. Nutrizio, Adelphi, Milano, 1982. Il presente studio è da considerarsi come fondamentale, anche relativamente a quanto si dirà successivamente.
[4]    O. Spengler, L'Uomo e la Tecnica, a cura di S. Zecchi, Guanda, Parma, 1992.
[5]    Dacciò, l'equivalenza metafisica di razionalismo ed irrazionalismo, l'errore nel considerare l'Io tradizionale come fondo razionale di tutte le cose essendo il medesimo. Bastino, a tale riguardo, le parole di Evola: “l'irrazionalismo partecipa dello stesso errore del razionalismo […] sia la «ragione» con le varie forme della coscienza intellettualistica moderna, sia la sua controparte irrazionale non rappresentano nulla di originario, sono i prodotti di una dissociazione, prodotti solidali epperò privi di realtà propria. La loro opposizione è vera solamente da un certo punto di vista e nel presupposto, appunto, della dissociazione di un'unità superiore e anteriore all'uno e all'altro dei due termini. Questa unità è il vero centro dell'essere umano nel suo stato normale – normale in senso superiore”. J. Evola, Il Mito e l'Errore dell'Irrazionalismo, in L'Arco e la Clava, Scheiwiller, Milano, 1971, pag. 56.
[6]    Il combattere anche la semplice presenza di elementi non conformi al dominio razionale altro non è, per Jünger, che “ l'avversione che nasce contro il tentativo di aggredire non propriamente la ragione, ma piuttosto il culto della ragione […]. Infatti, uno dei colpi maestri del pensiero borghese vorrebbe essere quello di smascherare l'attacco sferrato contro il culto della ragione e di palesare la sua natura di attacco vero e proprio contro la ragione, liquidandolo così come un atto irrazionale.” E. Jünger, Il Lavoratore, Forma e Dominio, a cura di Q. Principe, Guanda, Parma, 1999, pag. 46.
[7]    In relazione a questo snodo concettuale, si veda J. Evola, Il Navigare come Simbolo Eroico, in Simboli della Tradizione Occidentale, a cura di R. del Ponte, Arthos, Carmagnola, 1977. Ricordiamo, inoltre, che una distorsione del simbolo della navigazione, molto simile a quella tratteggiata in Cuore di Tenebra, si riscontra nel romanzo di L. F. Céline Viaggio al Termine della Notte. Qui, la vicinanza del continente africano conduce l'equipaggio intero dell'imbarcazione dove risiede il protagonista a dar voce a tutte quelle istanze sessuali e violente usualmente sottoposte a censura dalla cultura medio-borghese alla quale tutti i membri appartengono.
[8]    J. Conrad, Cuore di Tenebra, op. cit., pag. 103.
[9]    Ecco quanto Conrad fa dire al protagonista: “Quando ero bambino avevo una passione per le carte geografiche. Stavo ore a guardare il Sud America, l'Africa o l'Australia, e mi perdevo nelle glorie dell'esplorazione. Allora c'erano parecchi spazi vuoti sulla terra, e quando ne trovavo uno che sembrava particolarmente interessante sulla carta (ma lo sembravano tutti) ci mettevo il dito sopra e dicevo: «Quando sarò grande andrò là»”. Ivi, pag. 17.
[10]  Proprio quest'ultimo aspetto viene ben sottolineato e indicato quale chiave di volta dell'intero romanzo di Conrad nello studio di M. Rizzardini Segreti di Carta. Letture e riscritture di Heart of Darkness, in D. Bigalli, M. Rizzarini (a cura di), Mondi di Carta. Il Lavoro della Fantasia nella Letteratura di Viaggi e nel Romanzo, Lupetti, Milano, 2007.
[11]  Cfr. E. Zolla, Che cos'è la Tradizione, Adelphi, 1998.
[12]  Si veda, a tal proposito, O. Spengler, Anni della Decisione, Edizioni di Ar, Padova, 1994.
[13]  Cfr. F. Jesi, Cultura di Destra, Garzanti, 1993.
[14]  Ivi, pag. 213.
[15]  Ivi, pag. 185.
[16]  Ibidem.
[17]  Ivi, pagg. 153-155.
[18]  Tutte le considerazioni qui svolte si trovano ottimamente raccolte e sunteggiate in E. Trismegisto, Corpo Ermetico e Asclepio, a cura di B. M. Tordini Portogalli, SE, Milano, 2006, in particolare pagg. 100-103.
[19]  Cfr. R. Guénon, La Crisi del Mondo Moderno, traduzione e introduzione di J. Evola, Mediterranee, Roma, 1972.
[20]  J. Conrad, Cuore di Tenebra, op. cit., pagg. 155-157.
[21]  Ivi, pag. 13.
[22]  Cfr. J. Evola, Il Cammino del Cinabro, Scheiwiller, Milano, 1972.
[23]  Cfr., ad esempio, J. Evola, L'Iniziazione nel Mondo Moderno, in G. de Turris (a cura di), Testimonianze su Evola, seconda edizione riveduta e ampliata, Mediterranee, Roma, 1985.
[24]  Sulla provenienza e significazione del presente simbolo, si veda R. Guénon, Simboli della Scienza Sacra, a cura di F. Zambon, Adelphi, Milano, 1990 e R. Guénon, Il Simbolismo della Croce, a cura di P. Nutrizio, Luni, 2006.
[25]  Ricordiamo che esso designò parimenti tanto lo stato di chiusura, di autosufficienza metafisica dell'Omphalos dei Greci, il cosiddetto Uovo del Mondo, quanto l'unione delle due lettere sacre sanscrite Nûn e Na. Nell'Antico Testamento, sulla superficie della acque galleggiò tanto il Verbo nella Genesi, quanto l'Arca di Noè – quest'ultimo vide congiungersi, nell'Arca e nell'Arcobaleno, simbolo della fine della catarsi del diluvio, un'immagine analoga a quelle appena citate. Si veda, a tal proposito, R. Guénon, I Misteri della Lettera Nûn e La Caverna e l'Uovo del Mondo, in Simboli della Scienza Sacra, op. cit.
[26]  Cfr. E. Zolla, Postfazione a M. Schneider, Pietre che Cantano, SE, 2005.
[27]  F. Tomatis, Filosofia della Montagna, Bompiani, Milano, 2005.
[28]  P. Negri (ma Arturo Reghini), Sub Specie Interioritatis, in Gruppo di Ur (a cura del), Introduzione alla Magia, Mediterranee, Roma, 1971.
[29]  R. Daumal, Il Monte Analogo. Romanzo d'Avventure Alpine non Euclidee e Simbolicamente Autentiche, a cura di C. Rugafiori, Adelphi, Milano, 1986, pagg. 136-137.
[30]  Non riteniamo inutile ricordare che, poco prima di giungere alla stazione commerciale di Kurtz, Marlow viene informato di un fatto piuttosto curioso a proposito di questo. Giorni prima, il commerciante, insieme ad una piccola flotta di canoe, aveva tentato di ridiscendere il fiume per vendere dell'avorio alla Compagnia presso la quale era impiegato. Misteriosamente, riferirono a Marlow, quell'“uomo notevole” non riuscì a proseguire oltre. Sequestrata una canoa, accompagnato da un paio di quegli indigeni che lo veneravano come una divinità, fece marcia indietro, tornando ad immergersi nel cuore della selva. In innumerevoli altre occasioni, Kurtz manifestò il desiderio di non tornare affatto dalla sua fidanzata in Europa – decisione che allarmò l'equipaggio intero dell'imbarcazione di Marlow, incapace di comprendere perché costui, dopo una straordinaria carriera coloniale, non volesse godersi la sua fama in Europa. E' ovvio che questa reticenza ad abbandonare il “cuore di tenebra” altro non è che un ennesimo segnale della totale assenza delle possibilità di un qualsiasi ritorno. La foresta aveva già incatenato l'anima di Kurtz.
[31]  J. Conrad, Cuore di Tenebra, op. cit., pag. 217.
[32]  Ivi, pag. 223.
[33]  Cfr. F. Nietzsche, Così Parlò Zarathustra, a cura di G. Pasqualotto, Bur, Milano, 2000, pagg. 183-184.
[34]  Cfr. M. Heidegger, Il Nichilismo Europeo, in Nietzsche, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano, 1994.
[35]  Se Jünger, ne Il Lavoratore, giudicò la vicinanza e la padronanza dell'elemento naturale come i criteri per determinare il tipo d'uomo nuovo, l'“eroe realista”, forgiatosi attraverso il carattere totale del lavoro, è parimenti da notare che, successivamente, egli stesso avvertì le possibilità demoniache connesse ai domini elementari. Nel romanzo distopico Le Scogliere di Marmo, la singolare figura del “forestaro” assume tutti i connotati appartenenti a Mr Kurtz, sino ad apparire a quest'ultimo equivalente.
[36]  Cfr. J. Evola, Rivolta contro il Mondo Moderno, ed. Mediterranee, Roma, 2008, pagg. 255, 266, 368.
[37]  Cfr. J. Evola, Cavalcare la Tigre, Scheiwiller, Milano, 1962.
[38]  J. Conrad, Cuore di Tenebra, op. cit., pag. 249.