sabato 22 ottobre 2011

Destino, daimon e vocazione

Destino, daimon e vocazione nell'opera di James Hillman. Per una psicologia della responsabilità contro la tirannia della causa-effetto
di Andrea Scarabelli

Psicologia e teologia hanno bisogno di mantenere il
loro inerente nesso reciproco, altrimenti la teologia
perde anima e la psicologia dimentica gli Dei”1

I. Introduzione

Nei testi di James Hillman che presentiamo in questo breve saggio, ossia Il codice dell'anima (Adelphi, Milano, 1997), Puer aeternus (Adelphi, Milano, 1999) e La vana fuga dagli dei (Adelphi, Milano, 1991), emergono con forza tutta una serie di elementi che costellarono ampie parti della cultura della seconda metà del secolo appena conclusosi e che, nel caso dell'autore qui sottoposto ad esame, vanno ad intersecarsi a quelle tematiche di storia della psicologia che – sebbene egli non sia uno psicologo molto ortodosso, come avremo occasione di riscontrare – permeano ampiamente i suoi scritti. Gli studi di Hillman acquisiscono particolare interesse, almeno, a parere di chi scrive, in quanto declinazioni, esercizi di un pensiero che permeò interi decenni di filosofia e cultura continentali, nell'ambito di storia della psicologia – acquisendo, spesso, nel caso di Hillman, tonalità decisamente stravaganti ed eterodosse.
Nel presente scritto, che non vuole di certo essere una esegesi completa del pensiero dello psicologo junghiano, metteremo a fuoco certe linee direttrici che si rincorrono nella sua sterminata produzione, per poi, in sede conclusiva, proporre una chiave di lettura in grado di abbracciare la multiformità delle sue riflessioni.
È evidente che, in qualche maniera, scrivendo queste righe, assumiamo il ruolo, per così dire, di “avvocati del diavolo”, in quanto la stretta osservanza junghiana di Hillman lo condusse a tutta una serie di critiche aspre e violente dirette a psicologi e psicopatologi tradizionali – primo fra tutti, proprio Freud.
Per evitare di parteggiare per alcuno dei contendenti in campo, affronteremo il pensiero di Hillman limitandoci ad elaborare una armatura concettuale che permetta di collegare i suoi differenti dominî di interesse, mostrando come vi siano dei punti fermi che incontrano declinazioni assai variegate nei suoi scritti.

II. Il duplice verso dell'indagine psicologica: infanzia, daimon e destino

Potremmo sunteggiare i topoi fondamentali della dottrina psicologica di Hillman dicendo che le sue ricerche mirano ad invertire totalmente, in fase diagnostica, il senso temporale, la direzione di ricerca per tratteggiare la storia clinica dell'uomo. Dove la psicologia ordinaria, in particolare, la psicanalisi, percorre a ritroso la vita del paziente per scoprire, nei primi anni, quei fatti traumatici che andranno, poi, a determinarne la normalità o l'anormalità dei comportamenti adulti, Hillman si muove in direzione contraria, affermando che le intemperie vissute nei primi anni di vita sono da considerarsi come propedeutiche allo sviluppo successivo. La differenza teorica è sottile ma la portata immensa: in luogo dell'anamnesi, la quale si muove dalla foce alla volta della sorgente, per identificarvi, al suo interno, un momento di rottura traumatica, secondo Hillman lo sguardo che occorre porre in esercizio è di altra natura.
La sua dottrina mira ad identificare i traumi come momenti necessari allo sviluppo del daimon – entità di ascendenza platonica che accompagna la crescita di ogni individuo sin dalla primissima infanzia – momenti che quest'ultimo, per così dire, sceglie e determina attivamente, per superarsi progressivamente e sviluppare le sue possibilità latenti. Se, continua l'autore, la psicanalisi ragiona per causa-effetto, deputando gli eventi infantili a cause di comportamenti ed atteggiamenti emergenti successivamente, la sua teoria mira, invece, a trovare quella immagine originale – il paradeigma, la Gestallt – che, presente sin dai primordi, si sviluppa attraverso quegli stessi momenti di crisi, proiettandosi in una realizzazione futura. Se la psicologia tradizionale guarda indietro, alla ricerca di eventi traumatici, la teoria del daimon proietta quegli stessi traumi in realizzazioni a venire. Questo, in sintesi, l'abisso metodologico che separa i due approcci.
Tuttavia, argomenta Hillman, “l'immagine innata non si potrà trovare, finché non disporremo di una teoria psicologica che attribuisca realtà psichica primaria alla chiamata del destino”2. L'unico evento traumatico, suggerisce l'autore, è semmai lo sguardo che gettiamo usualmente sulla nostra infanzia – la polemica con la modalità operativa della psicanalisi si fa, in queste righe, assai acuta. Occorre, ora, procedere di fondamento in fondamento, per districare la complessità di siffatte assunzioni.
Hillman, come appena ricordato, è alla ricerca di una immagine unica, primaria, che, a suo avviso, espliciti progressivamente le proprie possibilità, determinando, in questo modo, la vita stessa dell'individuo. Questa immagine viene identificata con il daimon – termine che egli mutua dal pensiero greco, in particolare dal mito di Er, riportato da Platone del decimo libro de La Repubblica – entità che segue dappresso gli sviluppi individuali. Potremmo, anzi, dire che la vita di ogni uomo non si risolve che nell'espletamento e realizzazione delle istanze daimoniche. Ogni uomo dispone del suo daimon personale, scelto, secondo quanto tramandatoci da Platone nel mito sopracitato, addirittura prima della stessa nascita – il mondo greco riconobbe la centralità assoluta di siffatta istanza, dalla quale fece dipendere ogni sviluppo della personalità; i Greci, peraltro, definirono, in merito a quest'ordine di idee, la felicità individuale come eudaimonia, come il disporre di un buon daimon3. Inutile ricordare l'incidenza del daimon socratico nelle vicende che condussero il filosofo a quell'intransigenza morale che lo portò al processo ed alla cicuta.
Ed è proprio questa tipologia di daimon che Hillman utilizza come fondamento delle sue teorie; si tratta di un'entità invisibile, che segue ogni uomo sin dalla sua infanzia, spronandolo a realizzare i propri obbiettivi – in relazione a questo conseguimento, al quale Hillman conferisce il nome di vocazione, ogni difficoltà viene scelta dal daimon stesso al fine di rafforzare l'individualità medesima. Così, il metodo di indagine di Hillman, lungi dal cercare nessi tra psicosi e traumi dei primi anni di nascita, viene definito “un modo completamente nuovo di guardare ai disturbi infantili, considerandoli dal punto di vista non tanto delle cause quanto delle vocazioni, non tanto delle influenze passate, quanto delle rivelazioni di un futuro intuìto”4.
La linea del tempo che collega infanzia ed età adulta viene percorsa, come si diceva, in senso contrario.
Non è, insomma, l'infanzia a determinare le successive fasi dello sviluppo umano; al contrario, nelle difficoltà legate ai primi anni di vita è da vedersi un primo intervento, una prima invasione individuata del destino, il quale, attraverso il daimon specifico di ogni uomo singolo, imprime un carattere che è, al contempo, vocazione da realizzare. Questo è il legame che intercorre tra i concetti fondamentali – invero, assai poco ortodossi da un punto di vista tradizionale – dello psicologo americano. Concetti fondamentali che sembrano ripercorrere le traiettorie tratteggiate, agli inizi del secolo, da Carl Gustav Jung – non a caso, uno dei punti di riferimento spirituali e metodologici più importanti di Hillman – le parole del quale citiamo abbondantemente in quanto ricalcanti appieno le tesi enucleate ne Il codice dell'anima: “In psicologia è molto importante che il medico non voglia guarire a tutti i costi. Dobbiamo essere estremamente attenti a non imporre al paziente la nostra volontà e le nostre convinzioni. Dobbiamo lasciargli un certo margine di libertà. Non si può strappare la gente al proprio destino, così come in medicina non si può guarire un malato se la natura vuole farlo morire. Talvolta è veramente problematico se sia lecito salvare un uomo dal destino che deve affrontare, perché possa svilupparsi ulteriormente. Non si può impedire a certe persone di commettere terribili assurdità perché fa parte della loro natura. Se io mi intrometto, loro non hanno alcun merito. Il nostro sviluppo psicologico può veramente progredire soltanto se ci accettiamo quali siamo e se viviamo con il necessario impegno la vita che ci è stata affidata. I nostri peccati, errori e colpe sono necessari, altrimenti saremmo privati dei più preziosi incentivi allo sviluppo. Se, dopo aver sentito qualcosa che avrebbe potuto cambiare il suo punto di vista, un uomo se ne va e non ne tiene alcun conto, io non lo richiamo indietro. Potrete accusarmi di non comportarmi cristianamente, ma non mi importa. Io sto dalla parte della natura. L'antico libro di saggezza cinese dice: «Il Maestro ha parlato una sola volta». Egli non corre dietro alle persone, non serve a nulla. Coloro che devono capire – perché è questo il loro destino – capiranno, e gli altri non capiranno.”5
In relazione alla sua disposizione daimonica, specifica e qualitativamente differenziata, ogni individuo risponde alla chiamata del destino in modo particolare; gli esempi forniti da Hillman, circa l'immensa gamma di risposte possibili, sono infiniti e persuasivi e si coagulano intorno a diverse risposte tipiche: da una inattesa annunciazione del daimon che lascia sconcertato chi ne riceve il messaggio a un'inibizione da parte del bambino che lo induce a ritrarsi; dal desiderio ossessivo infantile di possedere gli strumenti per realizzare la chiamata al riconoscimento, da parte di quest'ultimo, della enorme discrepanza che lo separa dal suo daimon e la sua conseguente frustrazione6. Ogni reazione è specifica e dipende, per così dire, da un'equazione personale determinata dallo scambio dinamico che accade tra ogni uomo e il suo daimon. Proprio questa individualità interdirebbe, secondo Hillman, la possibilità di vagliare una risposta ideale, valida per tutti. Nonostante questa impossibilità, il ricorso ad una dimensione archetipica che raccolga, in un modo o nell'altro, la varietà delle risposte, viene tentato dal nostro autore.
Trent'anni prima di comporre queste parole, in un intervento presso Eranos che analizzeremo compiutamente nei prossimi paragrafi, Hillman attribuiva le caratteristiche appena citate all'archetipo junghiano del Puer, il quale “personifica questa scintilla umida all'interno di qualsiasi complesso o atteggiamento che è l'originario seme dinamico dello spirito. È la vocazione delle cose a raggiungere la propria perfezione, la vocazione delle persone verso il Sé, a essere fedeli a se stesse, a mantenere il contatto con il proprio eidos che è creazione divina. Il Puer offre un contatto diretto con lo spirito”7.
È bene ricordare, in questa sede, che l'equazione coinvolgente e daimon fu assai cara, peraltro, al già citato Jung. Così Marie-Louise von Franz descriveva questa intima parentela tra siffatti concetti, entrambi chiamanti in causa il centro nucleare dell'attività psichica dell'uomo: “Jung chiama tale centro «sé», e lo descrive come costituente la totalità della vita psichica […]. Nel corso delle varie epoche, gli uomini hanno avuto una conoscenza intuitiva dell'esistenza di tale centro interiore. I Greci lo chiamavano l'intimo daimon dell'uomo […], i Romani lo veneravano come il genius8 innato in ogni individuo […]. Il sé può essere definito un principio interiore di guida, distinto dalla personalità conscia […]. I sogni dimostrano che esso è il centro regolatore che determina la maturazione e l'espansione costante della personalità.”9
Muovendo dalle intuizioni junghiane, che spostano il baricentro della crescita individuale in un ambiente condiviso ed, in qualche maniera, estrinseco a sé, Hillman affida al suo daimon la facoltà di strappare gli eventi – tanto individuali quanto, come vedremo nei prossimi paragrafi, storici – alla tirannia della causa-effetto, per poi consegnarli ad uno sviluppo superiore e destinale. Se la logica causa-effetto richiede uno sguardo retrospettivo, volto a riscontrare le cause di un presente da correggere, la logica destinale, ci dice Hillman, interpreta il presente come un disordine necessario allo sviluppo di possibilità future. L'una è orientata verso il passato, l'altra verso il futuro. Il compito della psicologia a venire, che nell'antichità venne deputato al mito, secondo il nostro autore, sarà “prestare particolare attenzione all'infanzia, per cogliere i primi segni del daimon all'opera, per afferrare le sue intenzioni e non bloccargli la strada […], riconoscere la vocazione come un dato fondamentale dell'esistenza umana […], capire che gli accidenti della vita, compresi il mal di cuore e i contraccolpi naturali che la carne porta con sé, fanno parte del disegno dell'immagine, sono necessari a esso e contribuiscono a realizzarlo”10.

III. La superstizione parentale e la superstizione archetipica

Come detto poco fa, Hillman sposta il baricentro della ricerca dalla zona delle cause passate, che determinarono un dato evento psicologico, al compimento futuro di un certo disegno destinale individuale. Le osservazioni riportate nel presente paragrafo non sono che semplici declinazioni di queste intuizioni alla importanza, quanto mai esagerata, secondo Hillman, delle figure dei genitori contestualmente allo sviluppo infantile. La cosiddetta superstizione parentale – ossia, secondo l'autore, l'attribuzione di una smisurata importanza all'influenza da parte dei genitori – dipende in larga misura, appunto da una siffatta “fantasia di una causalità verticale, a senso unico, dal grande al piccolo, dal vecchio al giovane, dal maturo all'immaturo”11. Una simile idea, diretta filiazione della tirannia delle cause e degli effetti, ci “distoglie dalla nostra ghianda riportandoci da Mamma e Papà […]. Ma allora io stesso sono soltanto un effetto, un effetto della loro causa”12. La generazione fisica, in questo ordine di considerazioni, va a imporre la sua logica parimenti sulla generazione psichica, nonché sullo sviluppo infantile e adulto: “L'anima individuale continua a essere immaginata biologicamente come un frutto dell'albero genealogico. La nostra psiche nasce da quella dei nostri genitori, così come la nostra carne nasce dai loro corpi”13.
In un'ottica come quella di Hillman, invece, è il daimon individuale a scegliere tanto le condizioni di esistenza nel quale il suo “protetto” si troverà a espletarsi e dispiegarsi quanto gli stessi ostacoli e le difficoltà e, infine, gli stessi genitori. La teoria del nostro autore “propone una soluzione antica: è stato il mio daimon a scegliere sia l'ovulo sia lo spermatozoo, così come aveva scelto i portatori, detti «genitori»”14. Ancora una volta, Hillman rifiuta di concedere alle cause materiali della genesi di un individuo più importanza di quanta ne abbiano effettivamente – scontrandosi, attraverso queste considerazioni, con le riflessioni psicanalitiche, accusate, nel presente studio, di aver conferito eccessiva importanza alle interferenze dei genitori – meri supporti daimonici e nulla di più – nella vita infantile.
E questo in quanto, a detta di Hillman, siffatto atteggiamento condurrebbe l'Io ad una sorta di passività nei confronti degli elementi presenti nel mondo circostante – l'attribuzione a fonti esterne delle cause di ostacoli interni porterebbe l'individualità, insomma, a sollevarsi dalla propria responsabilità personale. Il solo riconoscimento dell'altro quale evento determinante condurrebbe, ci dice Hillman, ad una prima forma di passività nei suoi confronti.
È bene ricordare che, sin dal già citato intervento dedicato all'archetipo del Puer, Hillman aveva chiaramente in mente l'esagerata attribuzione di meriti alla madre, intesa indiscriminatamente quale fonte di ogni esperienza infantile. Le sue parole, in proposito, sono inequivocabili: “Soprattutto in relazione al «problema puer», diventa importante ricordare come l'energia psichica, se non può fluire attraverso i consueti canali esterni della tradizione, rifluisca all'interno, attivando l'inconscio. E allora l'inconscio sentito come «madre» fa sembrare che tutte le contestazioni e i disadattamenti dei giovani siano riferibili al loro personale complesso materno”15.
La teoria del daimon – o della ghianda, che contiene in se stessa non solo l'embrione ma lo sviluppo, nella sua interezza, della quercia che costituirà – si muove invece in direzione opposta, affermando che ogni condizione, tanto intrinseca quanto estrinseca all'Io stesso, è da questo determinata e profondamente voluta, al fine del suo sviluppo a venire. Sarebbe stato, nella prospettiva analitica di Hillman, lo stesso daimon a scegliersi i propri genitori, al fine di portare a compimento le proprie potenzialità: “Il daimon prenota in anticipo, per così dire, la madre, forse addirittura la predetermina, o almeno così sostiene la teoria della ghianda”16. Seguendo la metafora hillmaniana della ghianda, quest'ultima avrebbe scelto, persino prima della nascita, l'humus nel quale affondare le proprie radici, per giungere a maturità in seno ad esso – e ciò, in netta opposizione a quelle che l'autore ebbe a definire, in modo assai polemico, “le rozze spiegazioni materialistiche che ci diamo, le ottuse semplificazioni che riducono tutto a pulsione sessuale e fame di latte, che ingurgitano tutto quanto indiscriminatamente”17.
È bene sottolineare due sfaccettature della questione, per chiarire siffatto nodo teorico. Nelle sue pagine polemiche, anzitutto, Hillman non critica la funzione dei padri o delle madri tout court: egli si limita a porre in correlazione il prevalere eccessivo dei genitori e la perdita di responsabilità personale che coinvolge l'Io, allorché si senta in balia di cause esterne che ne determinarono univocamente la genesi. Questa è, forse, la chiave di lettura più felice per penetrare nell'universo concettuale di questo autore: il considerare le sue affermazioni – seppur vaghe, allusive e spesso decisamente stravaganti da un punto di vista psicologico in senso tradizionale – come un appello alla responsabilità individuale da parte dell'Io, a partire dalla sua fedeltà al proprio Streben, al proprio daimon. Ma di ciò, in sede conclusiva.
Il secondo frangente della questione che, a parere di chi scrive, è bene porre ora sotto analisi, è la collocazione archetipica della problematica parentale diagnosticata, derivata dall'opera di Carl Gustav Jung, del quale Hillman fu attento lettore e discepolo. L'impostazione junghiana del rapporto tra realtà archetipiche e fenomeni percepiti viene riproposta come sfondo teorico della superstizione parentale: non devesi accordare troppo peso alle figure specifiche dei propri genitori, contestualmente al proprio sviluppo, laddove questo non sia inteso in senso biologico ma daimonico, in quanto essi non sono che incarnazioni temporanee di archetipi – nostri reali luoghi genetici. Sebbene noi si sia nati da una madre ben precisa, detentrice, dunque, di ampie porzioni della nostra esperienza infantile, non dobbiamo dimenticare, suggerisce Hillman, che “dietro ogni donna che partorisce, dietro ogni donna che accudisce un bambino, sta assisa la Grande Madre, a reggere quel sistema di credenze che ho chiamato la superstizione parentale e che ci tiene vincolati a lei”18. Dietro un monopolio materno che parrebbe escludere qualsiasi altra relazione, contestualmente alla formazione del bambino, non ha da intendersi, secondo l'autore che interroghiamo, che “la voce archetipica della Grande Madre”19, che altro non è se non “il mito archetipico della madre avvolgente che isola da ogni altra influenza”20.
È propriamente siffatta auctoritas archetipica a permettere lo stesso complesso della superstizione parentale, ossia il fatto che ad una madre dalla esistenza contingente e delimitata venga attribuito un fardello così pesante: “Sia che il soggetto delle loro biografie abbia ricevuto sostegno dalla madre (Casals, Wright, Roosevelt), sia che abbia avuto divergenze con la madre (Lukàcs, Arbus, Stravinskij), oppure sia stato trascurato dalla madre (McClintock, Millay, Turner), i biografi tendono a proiettare sulla Madre una grandezza mitica, confondendo il potere della sua immagine archetipica con la forza della [sua] ghianda individuale”21.

IV. Dal daimon individuale al Geschichte

Il passaggio appena citato ci permette di sfiorare un'altra questione capitale del sistema concettuale di Hillman, ossia il rapporto che l'uomo intrattiene con la realtà archetipica junghiana. E, a questo proposito, è bene dire anzitutto che il daimon, nell'ottica hillmaniana, altro non è se non una realtà archetipica, che ama, dunque, albergare presso i suoi simili. In relazione alla problematica appena accennata, venerando i genitori quali fonte di ogni influenza infantile, l'uomo non mostrerebbe, ancora una volta, che il suo attaccamento originario agli archetipi che costellano e conferiscono senso alla sua esistenza terrena. Progenitrice dell'uomo non è la madre ma la Grande Madre archetipica – attribuendo un'importanza smodata alla prima, è alla seconda che il daimon archetipico tenderebbe.
Queste asserzioni, ovviamente, rimandano all'importanza che l'archetipo riveste tanto nella vita individuale quanto nell'interezza della storia. Per fornire dei lineamenti relativi all'interpretazione di Hillman di questo aspetto, abbandoneremo, per un istante, il testo appena esaminato per rivolgerci a Puer aeternus, un altro contributo hillmaniano, dedicato appunto al momento problematico dell'intersezione archetipo-daimon-storia.
E, diciamolo immediatamente, in apparenza, le istanze contenute in questo contributo sembrano contraddire pienamente quanto poco fa riportato. La prospettiva di indagine si stacca ora dal singolo individuo per giungere ad abbracciare interi cicli storici, la cui scansione accade sotto il segno dell'avvicendarsi degli archetipi. Nella conclusione di questo paragrafo, utilizzeremo il punto di vista di Jung per cercare di unificare in un unico segno le presenti discordanze.
In una conferenza tenuta ad Eranos nel 1967, apparsa in lingua italiana come Senex e Puer. Un aspetto del presente storico e psicologico22, le analisi di Hillman trascendono il loro aspetto individuale per declinarsi all'interno di una più vasta prospettiva di tipo storico. Sebbene, evidentemente, questo intervento preceda di più di trent'anni lo studio sino ad ora chiamato in causa, composto negli anni Novanta, vediamo, in esso, affiorare le medesime tematiche presenti in quest'ultimo, le quali, da un punto di vista microcosmico e individuale, assumono connotazioni macrocosmiche, andando a denotare la scansione di intere ciclicità storiche.
E ciò a partire dalle stesse premesse. Nell'intervento appena citato, il nostro autore afferma, provocatoriamente, chiamando in causa lo storico delle religioni Mircea Eliade, che i fatti storici che percepiamo non sono gli elementi primari della Storia: “gli eventi storici, accumulazione di tempo irreversibile, non sono i dati primari dell'esistenza. I fatti storici sono secondari […], vogliono un prima e un dopo, conseguenze storiche costruite su antecedenti storici, e in quanto tali, ove non segnalino un significato interno centrale, soltanto accumulazioni di sofferenze e di peccati privi di senso”23. Ritorna, in queste pagine, la critica già incontrata alla modalità di indagine psicologica legata al rapporto causa-effetto, o antecedente-conseguente. Se, nell'analisi dell'infanzia, siffatto modus operandi non rivela che la passività del bambino in relazione al suo ambiente circostante, nell'ambito storico accade il medesimo: laddove depauperati gli eventi storici del loro significato interno centrale, questi si vendicano, esibendo una lunga serie di catastrofi. Dove riscontrare, dunque, il significato interno centrale appena evocato? È quanto ora si tratta di discutere e chiarire.
Lo sviluppo della argomentazione hillmaniana segue, ancora una volta, lo schema tratteggiato ne Il codice dell'anima, nel quale il daimon archetipico è indicato come l'unica entità in grado di sottrarre le esperienze individuali alla mera logica dell'avvicendarsi di cause ed effetti. Nel presente intervento, è la dottrina destinale degli archetipi, elaborata da Carl Gustav Jung, a conferire senso al divenire storico: Geschichte als Sinngebung des Sinnlose, afferma Hillman, ricordando le parole di Lessing24. La Bottini, traducendo queste parole in lingua italiana, pone Geschichte come “storia”. La traduzione è corretta ma null'affatto esaustiva. Geschichte è, piuttosto, una delle due forme – insieme a Schicksal, la quale pone tuttavia l'accento sul carattere fatalistico proprio alle destinalità – che designa l'irrompere del destino nella vita dell'uomo e del cosmo. La traduzione letterale di Geschichte sarebbe, in vece, “il collettivo essere indirizzato dell'ente e dell'uomo”.
Ebbene, è proprio in relazione a questo significato che acquisisce senso l'analogia tra sviluppo individuale e divenire storico. Geschichte e daimon divengono analogici, o meglio anagogici – sotto il loro segno, tanto la vita del singolo quanto quella della collettività vengono strappate alla passività del dominio della causa-effetto per giungere al cuore degli eventi. Resta ora da domandarsi che linguaggio parli il nucleo pulsante degli eventi storici. Proprio in questo nodo l'influenza di Jung emerge iperbolicamente. La quintessenza di ogni evento storico, il dato primario della sua apparizione fenomenica, è di natura archetipica: “I «fatti» storici potrebbero essere soltanto fantasie cresciute intorno e sopra nuclei centrali archetipici e da questi generate. Sotto e dietro l'oscuro e ingarbugliato disegno degli eventi stanno le esperienze, realtà psicologiche di travolgente importanza, un substrato mitologico che conferisce all'anima un senso di destino, la sensazione escatologica che ciò che accade è importante”25. Parrebbe, a detta di Hillman, che le onde e le correnti avverse dell'oceano della storia scontrantisi, si muovano intorno a scogli che permangono immobili nel cuore dei fenomeni – questi scogli, secondo quanto appena citato, altro non sarebbero che dominî archetipici sempiterni. Come scrisse, d'altra parte, Jung, “gli archetipi sono le grandi forze decisive: sono loro a scatenare gli eventi reali e non il nostro discernimento personale e il nostro intelletto pratico”26.
E proprio il fondo nucleare archetipico degli eventi è in grado di strappare i fatti storici alla loro datità sensibile e causata – esattamente come il daimon, non a caso un archetipo, scioglie l'esperienza individuale dalle catene di un'esistenza meramente entificata, tra le altre. Il riconoscimento del fondo archetipico quale fondo essenziale degli eventi storici diviene morfologico eroismo, esso è volto a “riscattare gli eventi dalla cecità del mero fatto”27 per consegnarli a una dimensione mitica ed archetipica, nella quale gli dei frequentano ancora l'agorà.
Prima di chiudere con queste riflessioni, gettiamo uno sguardo ad un ultima tematica che percorre le riflessioni hillmaniane, che sintetizza, in qualche maniera, l'idea di daimon, relativa allo sviluppo individuale, e quella di destinalità archetipica, legata ai corsi e ricorsi storici. In sintesi, possiamo affermare che, nell'ottica hillmaniana, i due termini vengono saldati – oltre, naturalmente, dalla comune matrice archetipica – dalla duplice constatazione che un daimon educato non potrà che disporre di contenuti storici e che il divenire storico non potrà, laddove interrogato adeguatamente, esibire che Musterbild, immagini fondamentali, psicologiche.
La correlazione, secondo il nostro autore, è essenziale ed originaria. Essa travalica qualsiasi teorizzazione e indagine analitica in proposito. Se, da un punto di vista individuale, “senza un senso dell'anima, non abbiamo il senso della Storia”28, da una prospettiva storica e, per così dire, macrocosmica, “i mutamenti psicologici (degli atteggiamenti, della personalità), decisivi bagni lustrali dell'anima, sono anche atti di rigenerazione della storia”29. Così vengono riunite le tesi, in apparenza opponentesi, di Puer aeternus e de Il codice dell'anima. Nella costellazione archetipica, evento e senso si ricongiungono felicemente: “l'archetipo fornisce la base per ricongiungere fatto e significato, in sé incommensurabili. I fatti storici esterni sono archetipicamente ordinati in modo da svelare significati psicologici essenziali”30.
Prospettiva non aliena, come preannunciato, dal maestro di Hillman, Jung, che analizzava gli eventi storici dei primi anni Venti e Trenta alla stregua di momenti vissuti dagli stessi individui che, attoniti, ne osservavano gli sviluppi: “In questi eventi collettivi31 vediamo, come attraverso una lente di ingrandimento, quel che può accadere anche nell'individuo […]. Tutti quegli elementi personali come le tendenze incestuose e le altre storielle infantili non sono che la superficie; quel che realmente racchiude l'inconscio sono i grandi eventi collettivi del tempo. La storia si forma proprio nell'inconscio collettivo dell'individuo, e quando gli archetipi vengono attivati ed emergono in un gran numero di individui, ci troviamo nel cuore della storia, come ora. L'immagine archetipica evocata dal momento storico prende vita, e tutti ne sono posseduti.”32
In questo modo, l'archetipo ricongiunge i termini di una dicotomia assai peculiare di tutta la cultura occidentale. Attraverso la riscoperta della dimensione archetipica, l'individuo ed il cosmo che ne ospita il supporto corporeo si ricongiungono, sotto lo stesso segno. Apparato concettuale, quest'ultimo, che segnerà, peraltro, il definitivo distacco di Carl Gustav Jung dal suo maestro Freud: “Per Freud l'inconscio è soprattutto il ricettacolo di tutto ciò che viene rimosso, ed egli l'osserva dall'angolino della nursery. Per me è un vasto serbatoio storico. Devo confessare che anch'io ho una nursery, ma è piccola in confronto con i vasti spazi della storia che, fin dall'infanzia, mi hanno interessato più della stanza dei bambini.”33
Secondo Hillman, le cui tesi sono la prosecuzione di quelle junghiane intorno alla duplice valenza – microcosmica e macrocosmica – del valore archetipico, il transito degli archetipi accade tanto nel palcoscenico individuale quanto nel panorama storico, nella sua interezza. Nonostante ciò avvenga tramite figure diverse, compito dell'analista diviene, anzitutto, il riconoscimento di siffatta somiglianza. Declinato al momento che stiamo vivendo, questo avvicendarsi vede la contesa di Senex e Puer quale evento discriminante del nostro periodo storico: ebbene, questo passaggio di testimone, “questo momento unico ed irripetibile di transito della storia del mondo, diventa una transizione dentro il microcosmo, dentro l'uomo, dentro ciascuno di noi individualmente, mentre tentiamo di districare i nessi tra vecchio e nuovo che sono poi quelli espressi archetipicamente nella polarità Senex-Puer”34.

V. L'autobiografia come momento di emergenza del Doppelgänger daimonico

Torniamo ora al testo che abbiamo assunto come principale punto di riferimento per questa breve disanima, considerando un altro ambito nel quale Hillman declina praticamente le sue intuizioni daimoniche. Esse emergono, con piena forza, nell'analisi di un gran numero di autobiografie, considerate a partire dalla commistione, presente in ciascuna di esse, di un certo numero di dati realmente accaduti e di una gran quantità di testimonianze contraddette dalle prime fonti. Secondo Hillman, diciamolo subito, questa compresenza denoterebbe la condivisione dello stesso corpo da parte di due entità, l'una propriamente individuale, conscia – quella che narra gli eventi per come accaddero “realmente” – e l'altra sovraindividuale, daimonica; l'una legata alla dimensione terrestre, materiale e causale, secondo il peso già chiarito di questi termini, e l'altra legata ad una sfera destinale ed archetipica.
Questa condivisione del medesimo Io da parte di due entità di ordine metafisico e psicologico qualitativamente differente, condurrebbe, insomma, il soggetto a determinare una delle due entità – solitamente quella ideale e daimonica – con la qualifica di Doppelgänger, quel termine tanto caro ad Hoffmann, le cui novelle vennero lette, in gran quantità, dallo stesso Freud. Ebbene, esattamente come quest'ultimo interpretò le figure di Hoffmann come l'emergenza di un perturbante (das Unheimliche) in realtà assai familiare in quanto oggetto di precedente rimozione, allo stesso modo l'autore de Il codice dell'anima vede nell'ambiguità nel conferire veridicità ai fatti narrati nelle autobiografie il segno dell'irruzione, all'interno della narrazione, di un'altra istanza assai familiare al biografo.
La dialettica verità-menzogna acquisisce, nella prospettiva che intende l'uomo in relazione alla sua risposta al proprio daimon, una nuova conformazione. Non si tratta più di pesare gli eventi narrati, discernendo quelli veri da quelli falsi e “immaginari” ma riconoscere, piuttosto, che “la doppiezza […] è dell'autobiografia in quanto tale, perché i suoi due elementi – «auto» e «bio» – rappresentano due racconti distinti, quello della ghianda e quello della vita”35.
Anche in questo caso, la polemica con l'ortodossia psicanalitica si fa inevitabile. Lungi dal relegare il Doppelgänger daimonico nell'ambito della fabula, escludendolo, in questo modo, dall'analisi sistematica – se non, addirittura, collocandolo tra i meccanismi di rimozione – e confinandolo tra le produzioni infantili di una mente diseducata al pensare rigoroso, secondo Hillman, la psicologia dovrebbe, piuttosto, “pensare la «personalità Numero due», come la chiamava Jung, o il daimon, come diceva Socrate, alla stregua di un'immagine distinta, la quale, avendo una propria vita, deve anche avere un proprio nome”36.
Quanto rilevato da Hillman, in sintesi, è ciò che segue: gli autori delle biografie non solo inventerebbero palesemente alcuni degli eventi riportati nelle loro autobiografie, il che permetterebbe, ad un primo esame, di soppesare gli eventi, componendo nuove narrazioni, per così dire, più “attendibili”. Non limitandosi a ciò, essi riempirebbero vuoti di memoria e carenze con narrazioni artefatte, per poi – e questo è fondamentale, nell'ottica hillmaniana – non essere più in grado di distinguere quegli eventi che accaddero realmente da quelli “ri-creati” in sede di narrazione. A questo punto, argomenta Hillman, il limite tra fabula e racconto oggettivo si fa assai labile. La situazione si aggrava ulteriormente allorché molti degli autori questionati dichiarano di non essere, in maniera univoca ed apodittica, gli autori delle loro stesse parole. È come, spiega Hillman, se questi volessero dirci: “Oltretutto, io non dico bugie, non invento niente: la fabulazione è un fenomeno spontaneo. Non mi si può accusare di mentire, perché le storie che mi vengono fuori su me stesso non sono propriamente verbo mio”37.
È evidente che non è sufficiente, per spiegare questa curiosa ma abissale intromissione, asserire la presenza di alcunché di estrinseco all'Io – e, purtuttavia, albergante nell'Io stesso – che colmi le lacune dovute alla memoria o quant'altro con fabulazioni ed invenzioni. Occorre chiarire il motivo, nell'ottica hillmaniana, di tale riempimento. In merito a ciò, la proposta del nostro autore è la seguente: il daimon, il doppio che accompagna le nostre gesta sin dalla prima infanzia – se non, addirittura, come riportato da Er, da epoche precedenti la nostra nascita – si ribellerebbe alla sua trascrizione in termini meramente materiali, riempiendo gli spazi lasciati da questi ultimi con aspirazioni, desideri o frustrazioni.
Per comprendere questa posizione in tutta la sua portata, occorre ritornare a quanto affermato nel primo paragrafo di questo scritto, per tratteggiare i due cammini percorsi dall'Io e dal suo daimon. Ricorderemo che, mentre, secondo Hillman, l'Io compone la sua biografia percorrendo a ritroso le tappe che lo condussero al luogo donde questi guarda indietro, il suo daimon si muove in direzione opposta, rivolgendosi, da un presente semplicemente potenziale, alle sue future realizzazioni. Se l'Io guarda indietro, ricercando le cause che lo determinarono successivamente, il daimon abbisogna di un futuro nel quale proiettare la realizzazione delle sue possibilità. La direzione dell'uno è archeologica, il movimento dell'altro è escatologico. In ambito auto-bio-grafico, l'uno segue il bio, l'altro l'auto – il conflitto tra le due istanze accade nel grafema, nell'atto di ricomporre l'origine. Atto mitopoietico, come vedremo più avanti, che muta radicalmente laddove sia l'Io o il suo daimon a compierlo. Nell'un caso, non potremo che incontrare una rimozione, nell'altro, una reintegrazione.
Se, dunque, siffatte istanze sono abissalmente disgiunte e persino opponentesi – solo, è bene notarlo, laddove si contendano l'origine – il daimon, per così dire, si vendica sull'esattezza e sul rigore dell'Io scrivente, riempendo la sua narrazione di eventi a quest'ultimo estrinseci. Così, accade che i primi anni di vita siano costellati di eventi legati, invece, all'età adulta: musicisti che dichiarano di essersi interessati, sin da giovani, alla musica, letterati che affermarono di aver letto, sin dalla tenera età, poderosi volumi, e altro. Hillman annovera tra questi casi un gran numero di persone poi affermatesi come musicisti, letterati e via dicendo. E questo per mostrare che non furono essi stessi ad inserire tracce della loro vocazione futura nelle autobiografie ma il loro daimon che, retroattivamente, proiettò nel loro passato figure incarnate solo successivamente, al fine di conferire una sua linea di continuità – svincolata definitivamente tanto alle leggi della correlazione causale ed effettuale quanto ai dogmi di un'esposizione lineare, rigorosa ed oggettiva. Caratteri, quelli appena citati, propri alla narrazione autobiografica.
Alla stessa stregua dei casi precedenti, Hillman annovera la riluttanza a comporre una biografia come una testimonianza di un daimon il quale, intrappolato nel rapporto di causa-effetto richiesto dalla narrazione lineare, si ribella, esigendo che la sua dimensione ultrasensibile non venga sottomessa ad una ricostruzione esatta degli eventi. Alla luce della teoria della ghianda, della vocazione e del destino daimonico, ci dice il nostro autore, “tutti questi sotterfugi autobiografici diventano comprensibili. C'è un qualcosa in noi che non vuole esporre, nero su bianco, i fatti, per timore che li si prendano per la verità, per la sola verità. Qualcosa in noi non vuole che i biografi spiino troppo da vicino, arrivino a cogliere l'ispirazione dell'opera di tutta una vita. E nascono le leggende a stendere un velo”38. Qualcosa, dunque, parrebbe ritrarsi ad un tentativo di ricostruzione che non veda che l'Io quale punto di riferimento essenziale, in modo talmente radicale da adombrare tutto il resto. Qualcosa, dunque, parrebbe celarsi. Continua Hillman: “Che cos'è questo «qualcosa»? È la ghianda, naturalmente. La ghianda, che non vuole essere ridotta a rapporti umani, a influenze, a eventi fortuiti, o al dominio del tempo, al «Prima è accaduto questo, poi quest'altro», come se la vita potesse essere abbracciata dalla formula «Da una cosa ne discende un'altra»”39.
Con queste parole, è bene sottolinearlo, Hillman non nega una metodologia d'indagine che si fondi su una concezione lineare – con il suo corollario di cause ed effetti – dello sviluppo individuale. Tuttavia, il nostro autore afferma che quest'ultima non possa abbracciare l'Io nella sua totalità, ossia, insieme al suo corredo daimonico. Daimon ed Io; ossia finzione ed esattezza, progetto e causa-effetto: in siffatti momenti, Hillman non vede una reciproca volontà di prevalsa o opposizione. Entrambi coesistono, ad entrambi va riconosciuta una legittimità. Per questo motivo, conclude Hillman, i confini tracciati tra le loro produzioni non possono che dirsi evanescenti e astratti: “Le «falsificazioni» biografiche [prodotte dal daimon – momento dell'auto] fanno parte dei fatti narrati [momento del grafema] tanto quanto i fatti in sé [prodotti dall'Io – momento del bio]”40.
Solo nel gesto del grafema, della narrazione della propria origine, tanto mitopoietica quanto poetica, come vedremo più avanti, emerge l'osmosi che caratterizza il rapporto tra Io e daimon. Solo nel volgersi a ritroso, ricostruendo la propria origine, in comunione archetipica, e proiettando daimonicamente in un futuro da abitare questa medesima figura, emerge la co-implicazione originaria di un individuo che costruisce il suo passato in maniera analitica, esatta e causale e un daimon che fa sentire la sua presenza rompendo la narrazione lineare, per porre in atto un processo retroattivo e circolare, che colloca nell'infanzia le aspettative di eventi realizzati solo successivamente. Questo, essenzialmente, il motivo per il quale Hillman dedica un'ampia sezione del suo studio all'ambiguità delle autobiografie, in quanto momenti di emergenza di entrambe le anime che abitano l'uomo, Giano bifronte sospeso tra sovramateriale ed inframateriale.
Questa proiezione all'indietro non rappresenta, infine, un mero atto archivistico o passatista o la scoperta di un più vero inizio. Assegnandosi un'origine, suggerisce Hillman l'Io/daimon crea e ricrea, di volta in volta, il suo essere al mondo – secondo questa modalità, “l'esegesi diventa allora non già un disvelamento del significato nascosto, bensì piuttosto una poiesis, un'elaborazione poetica [e poietica, aggiungiamo noi] del dato, condotta nel piacere di un incessante immaginare”41.

VI. Il Mito e l'emergenza degli Invisibili

Prima di chiudere questo breve scritto, ci preme sottolineare ed evidenziare un ultimo nodo problematico che fa da sfondo alla prospettiva hillmaniana – del quale questi è d'altra parte assai conscio. Consapevolezza che emerge laddove, ad esempio, egli si trova a prevedere lo scetticismo di ampie porzioni dei suoi lettori: “A farci arricciare il naso di fronte alla teoria della ghianda non può essere la resistenza ai miti, visto che ci beviamo senza fiatare il mito della Madre42. No, la ragione della nostra resistenza nei confronti del mito del daimon, secondo me, è che esso si presenta nudo e crudo. Senza camuffarsi da dato empirico. Esso si dichiara apertamente un mito.”43
La problematica sollevata da Hillman concerne direttamente tanto la funzione del mito presso gli Antichi quanto la sua delineazione dell'immagine della modernità, potremmo dire, ex negativo, come un'era svuotata – solo apparentemente – da contenuti mitografici. In effetti, è quanto emerge dalle righe appena citate: è decisamente erroneo, secondo il nostro autore, affermare che la contemporaneità sia totalmente de-mitizzata. La nostra epoca, come ogni altra, dispone di suoi miti peculiari – la sua unicità, singolarità e assoluta novità, tuttavia, consiste nel disprezzare il mito in quanto tale.
Questi brevi cenni sono essenziali in quanto la prospettiva hillmaniana assume il mito come una delle sue componenti fondamentali – il plesso mitografico in quanto tale costituisce il trait d'union, insieme alle note di uno spartito musicale e le equazioni matematiche, tra visibile ed invisibile: “queste tre modalità traspongono il mistero dell'invisibile in procedure visibili con le quali è possibile operare”44. Ma guai a scambiare i media tra visibile ed invisibile per l'invisibile stesso! Le mitografie, nell'ottica di Hillman, assumono la funzione di segnavia, indicano cioè, una direzione da percorrere e non il suo punto d'arrivo. Lo stesso dicasi per matematica e musica.
Il mito, continua Hillman, non si coglie con l'esattezza delle scienze positive – laddove un simile sguardo inizi ad interrogarne le figure, esso si ritrae, non esibendo che il suo aspetto di mera narrazione fantastica e favolistica. È l'intuizione l'unica facoltà in grado di cogliere tanto la portata psicologica del mito quanto, d'altra parte, il daimon che guida ogni esistenza individuata: “La modalità tradizionale per percepire l'invisibile, e dunque per percepire la ghianda, è l'intuizione. L'intuizione comprende anche quella che ho chiamato sensibilità mitica, perché quando un mito ci colpisce, esso sembra la verità e di colpo ci fa vedere le cose da dentro”45. Non all'intelletto discorsivo – e, ancora una volta, dominato dalla causa-effetto – occorre affidarsi per giungere ad intendere la forza e l'eternità del mito ma ad una visione folgorante, istantanea, che percepisca un tutto, ed immediatamente: “L'intuizione è chiara, fulminea, completa. Come una rivelazione, essa arriva tutta in una volta, istantaneamente”46. La provenienza aliena dell'intuizione si fa rivelazione; la sua alterità diviene marchio di una trascendenza che investe l'individuo: “L'alterità dell'idea – non è mia, non l'ho pensata io – che colpisce come una forza senza preavviso; l'annuncio del totaliter aliter come «evento intellegibile che rende intellegibili tutti gli altri eventi» [operando, cioè, una ridistribuzione dinamica del campo esperienziale]: è la definizione che Niebuhr dà di rivelazione”47. Questa la forza deputata da Hillman all'intuizione – “Il suo terreno, estraneo al mio sentire, alla tradizione e alla ragione, è totalmente altro, è il totalmente altro, è il terreno di Dio, numinoso e non suscettibile di correzione”48.
Intuitiva è, ad esempio, l'esperienza immediata delle persone: essa non le coglie che come integralità, non ancora date in pasto al trinomio ragione/volontà/sentimento, autentica ossessione dello spirito occidentale. Lungi dall'effettuare divisioni preventive, l'intuizione affonda le sue radici nel precategoriale: in questa regione, “tutti i dati si offrono istantaneamente, come una Gestalt globale”49. Non si tratta, dunque, di cogliere differenti piani dell'esistente per poi unificarli – esattamente come, secondo quanto già accennato, non si danno dei momenti di solo daimon e di solo Io – attraverso categorizzazioni a posteriori: “L'intuizione percepisce l'immagine, il paradeigma, una Gestalt50. Solo ad un siffatto sguardo interrogante, il mito si disporrà in tutta la sua potenza metastorica e metafisica.
È giunto il momento di considerare l'ultimo dei saggi di Hillman posti in questione in questo breve saggio, all'interno del quale si discute proprio dell'importanza non solo gnoseologica ma anche terapeutica dei plessi mitografici. Il mito, secondo Hillman, funge da tramite tra il mondo manifesto dell'Io e quello degli Invisibili, ossia la realtà archetipica – alla quale appartiene anche il daimon. Proprio nella prossimità del mito alle strutture archetipiche che forniscono orientamenti alla nostra esistenza risiede la sua caratura fondamentale. Tutta l'opera di Hillman si articola tra analisi di plessi mitografici, i quali sono in grado di esibire strutture archetipiche con una limpidezza esemplare51. La centralità di siffatti motivi nell'opera hillmaniana è sottolineata ampiamente dall'autore stesso, in passi che citiamo abbondantemente, in quanto in essi si rincorrono tutte le tematiche trattate nello scritto che ci accingiamo a concludere: “Su questo punto noi prendiamo ispirazione dalle parole di Jung: «Gli Dei sono diventati malattie». Jung ci sta indicando che la causa formale dei nostri malesseri e delle nostre anormalità sono delle persone mitiche; le nostre malattie psichiche non sono immaginarie, bensì immaginari (Corbin). Sono anzi malattie della fantasia, sofferenze delle fantasie, di realtà mitiche, l'incarnazione di eventi archetipici. Seguire Jung lungo questa via è il compito principale della terapia archetipica […]. In esempi assai diversi tra loro, abbiamo visto come il patologico sia inerente al mitico, così come è inerente all'alchimia e all'arte della memoria. Il nostro intento più profondo è stato di far compiere alla psicopatologia, fondamento del nostro campo, il passaggio da una sistematizzazione ottocentesca, positivistica, della mente e dei suoi disturbi, a una psicopatologia degli archetipi, non agnostica e mitopoietica.”52
Hillman, come si diceva, muove proprio dagli archetipi di Jung per tentare di fornire una spiegazione agli scompensi psicologici individuali. Ed il mito, in quest'ordine di considerazioni, svolge una funzione essenziale come modello archetipico incarnato in una narrazione specifica. Esso accade, al contempo, nel cosmo e nell'individuo stesso. Nelle eventualità che accadono fisicamente non occorre riscontrare, ricercare “principî esplicativi […]: per il punto di vista psicologico essi sono anche eventi mitici, che hanno luogo anche e sempre nell'anima, e sono pertanto archai fondamentali della condizione umana. A questi principî radicali si possono ricollegare i pathé (i moti) dell'anima”53. In fondo, quanto appena letto non è che l'ennesima declinazione dell'approccio accennato precedentemente, secondo il quale il concetto di destino va ad accomunare, archetipicamente, tanto il daimon individuale quanto il Geschichte storico. Ogni plesso mitografico, secondo Hillman, va a fluidificare i confini eretti dall'Io per proteggersi dalle influenze di un mondo esterno, legato invece, inscindibilmente – sotto il segno del daimon, come già ampiamente mostrato – al primo.
Così, a titolo esemplificativo, per dissolvere i confini pattuiti dalla psicopatologia ordinaria tra normalità ed anormalità – e ciò, seguendo “l'ipotesi che ciascuna delle due strutture archetipiche si immagini un cosmo di cui fa parte integrante il suo modello di eventi patologizzanti”54 – Hillman fa riferimento ad Atena, la quale incarna una modalità archetipica ben precisa, quella che, propriamente, viene accostata oggi ad una cartella clinica “normale”. La presenza di “anormalità nella normalizzazione”55 viene mostrata, appunto, attraverso il ricorso mitografico alla Dea, della quale “l'essere preparata a ogni evenienza, propria della sua pronoia, è insieme lo stato di difesa armata della paranoia56. Il modello di controllo continuo che ci tiene desti e pronti all'immediata risposta innanzi ad ogni evenienza esterna – rappresentato da Atena armata – ci tiene, al contempo, “imprigionati nella nostra armatura corporea, nelle posture difensive archetipicamente necessarie alla normalità civilizzata”57. Si prenda questa analisi come esemplificazione delle modalità con le quali il nostro autore utilizza il mito, al fine, cioè, di diagnosticare tanto uno stato d'animo individuale quanto uno sociale. Questi, in breve, secondo la prospettiva hillmaniana, i vantaggi che offre il mito e il ricorso agli Dei, dai quali ogni fuga è vana, diciamo, parafrasando il titolo della raccolta dei contributi appena analizzati, ad una psicopatologia che sappia porsi in ascolto di essi.
Tuttavia, ci ricorda Hillman facendo riferimento ai casi clinici di Anton Boisen, John Perceval e Daniel Paul Schreber, è bene non approcciarsi a verità di quest'ordine senza un adeguato senso dell'ironia – in senso socratico ovviamente – oppure gli Dei cessano di essere malattie, secondo la definizione junghiana già citata, per divenirlo effettivamente. In misura più o meno maggiore, i casi sopracitati interpretarono letteralmente i contenuti dei loro deliri a sfondo religioso, i quali giunsero, così, a possederli totalmente – come risoluzione a questa eventualità, Hillman fornisce l'armamentario inconscio junghiano, che opera mediando siffatte istanze archetipiche. Esso viene definito anima di Mercurio, istanza ermeneutica la quale, moderando e, per così dire, dialettizzando il messaggio archetipico, lo rende tollerabile dall'intendimento umano: “L'anima mercurialis fornisce l'orecchio capace di distogliere la mente dall'udire il vero significato. Senza Ermes il Messaggero, le allusioni e i gesti divini diventano ingiunzioni letterali e l'istinto religioso diventa malato, paranoide”58. Lo stesso accade, d'altra parte, nel caso degli archetipi, la cui duplicità, generata al loro contatto con la sfera egoica e per nulla originale, richiede la dialettica come elemento costitutivo. La via della dialettica si serve di paradossi, antinomie, strumenti che, pur tentando di trascendere la duplicità egoica del simbolo, ne mantengono la dialettica tra le parti in continua tensione originaria: “Esiste anche una via dell'ambivalenza che può abbracciare l'archetipo nella sua totalità […]. Paradosso e simbolo esprimono la coesistenza dei due poli all'interno dell'archetipo […]. L'ambivalenza è la reazione adeguata della psiche integra a queste verità integrali”59. È, infine, l'anima stessa a mantenere siffatta tensione, l'unica in grado di garantire un corretto sviluppo, senza che una parte prevalga su tutte le altre. Il problema si pone – ed è la questione che tanto costella l'umanità a noi contemporanea – laddove viene a mancare questa istanza mercuriale animica, che media, stempera e dialettizza le differenti sfaccettature archetipiche, così felicemente incarnate dalla fabula mitopoietica: “Dalla lira di Eraclito al continuum di Jung, l'anima mantiene in armonia le polarità. L'anima è la funzione di connessione della psiche. Ma adesso l'Io, dopo aver sostituito l'anima come centro della personalità conscia, è incapace di reggere alla tensione. Con il suo razionalismo disgiuntivo, l'Io crea divisioni dove l'anima offre connessioni con il sentimento e unità con il mito”60.
Dove l'Io rompe i suoi legami con l'origine ed il suo racconto mitografico, attraverso la messa al bando dell'Invisibile, ossia dell'anima, in nome di una logica che non intende che la pellicola materiale e visibile degli enti quale radice ultima del divenire – tanto individuale quanto storico – il daimon irrompe tragicamente, vendicandosi, per così dire, contro quella logica materialista e positivista che tentò di metterlo fuori uso, confinandolo nell'ambito della favola e del primitivismo. Escluso il daimon dall'oggetto della psicologia “ufficiale”, questo risorge, come fenomeno carsico, trasformandosi nel “cattivo seme”, al quale Hillman fa tributo di un intero capitolo, dedicato al caso esemplare di Adolf Hitler. Qui non ci occuperemo delle analisi relative al dittatore. L'ultimo paragrafo, concernente la proposta metodologica hillmaniana, nella sua forma compiuta, muoverà dalla domanda che chiude il capitolo dedicato al “cattivo seme”, ossia se sia possibile, in un modo o nell'altro, prevenire la nascita futura di “cattivi semi”. Muoveremo da questa domanda, in quanto il modus operandi hillmaniano va ad inserirsi proprio nella frattura inaugurata dal presente interrogativo.

VII. Conclusione: prospettive daimoniche per una nuova psicologia

Come prevenire siffatta vendetta daimonica – o meglio, secondo il presente caso, autenticamente demoniaca? Una adeguata prevenzione non dovrebbe, secondo il nostro autore, mettere al bando il daimon, anche dopo la sua resurrezione tragica, quanto piuttosto “ripristinare un equilibrio tra la debolezza della psiche e la potenza del daimon, tra la chiamata trascendente e la personalità”61. Il daimon, argomenta Hillman, non ama starsene rinchiuso nell'oscurità ma, al contrario, anela di uscire allo scoperto, manifestandosi attraverso lo sviluppo di ogni individuo. Siffatta istanza non apparirebbe, dunque, in momenti isolati dello sviluppo – sia esso individuale o collettivo, ossia storico – quanto piuttosto permeerebbe ogni istante della crescita individua – manifestandosi, al massimo delle potenzialità, proprio nell'infanzia – determinandola, per così dire, da dietro le quinte. Laddove l'umanità non conferisca giusti tributi alle istanze daimoniche, conclude Hillman, il daimon riemerge violentemente, preannunciando catastrofi – tanto nei regimi totalitari degli anni Trenta e Quaranta quanto ai giorni nostri, nei quali individui uccidono solo per acquisire notorietà sullo schermo televisivo62. Messa al bando da una scienza che relega gli Invisibili all'ambito della mera fantasia, l'istanza daimonica assume il pieno controllo degli eventi, rivelando la faccia oscura dell'archetipo, che conduce agli orrori ai quali assistette il secolo appena conclusosi. Pertanto, il primo passo per prevenire l'emergenza della sfaccettatura notturna dell'archetipo daimonico non può che essere l'elaborazione di “una teoria che gli dia pieno riconoscimento”63, una teoria, insomma, che agisca come Atena, che seppe trovare una collocazione, presso Atene, alle Erinni.
Occorre, dunque, elaborare una dottrina che agisca in maniera rituale, incorporante, cioè, il cattivo seme all'interno dell'ordine costituito. Tanto la società quanto il singolo individuo devono, secondo la prospettiva tracciata ne Il codice dell'anima, di certo “disporre di riti esorcizzanti per proteggersi dal Cattivo Seme”64, ma anche e soprattutto dotarsi di “riti di riconoscimento, che assegnino al demoniaco il suo spazio, diverso dal carcere”65. Solo scorgendo il daimon nel demoniaco si potrà – e questa è, propriamente, la risposta hillmaniana alla questione dell'emergenza dell'errore all'interno di quella che potrebbe sembrare una proposta meramente monistica – prevenire la sua resurrezione. Altrimenti, nella migliore delle ipotesi, i cosiddetti “buoni” non saranno che il braccio armato del Cattivo Seme.
Tuttavia, ancora una volta, preliminarmente a ciò, occorre una teoria che sappia assegnare al daimon la sua giusta collocazione, senza considerarlo una mera fantasia infantile né un'istanza demoniaca. E, ovviamente, questo ruolo viene assegnato da Hillman alla sua proposta psicologica – il titolo del primo capitolo è, in merito a questa essenziale necessità integrativa, assai eloquente: La teoria della ghianda e la redenzione della psicologia. Solo assegnando la giusta collocazione agli archetipi dentro le mura della cittadella interiore potrà impedirsi che essi la assedino e la conducano a quello scacco che, secondo Hillman, genera le patologie. Solo cavalcando la tigre, diciamo, citando un vecchio adagio cinese, potrà impedirsi che questa ci divori.
Prima di chiudere queste nostre riflessioni, ci preme sottolineare la presenza di un ultimo frangente, nella produzione hillmaniana – aspetto che abbiamo sottolineato, nel titolo, quale via interpretativa di queste nostre parole, ossia la psicologia daimonica intesa quale responsabilizzazione individuale. La dottrina di Hillman conduce l'individuo alla propria responsabilità, la quale accade proprio nell'intersezione tra daimon e vocazione, tra l'idea di un disegno innato da realizzare e le disposizioni terrene per portarlo a compimento – e ciò, a prescindere da difficoltà esterne all'individuo stesso, l'eccessivo riconoscimento delle quali non condurrebbe l'Io che ad una passività, ad una impotenza innanzi all'inesorabilità delle catene di cause ed effetti che gli diedero i natali. Questa impostazione, come abbiamo visto in queste poche righe, non viene confutata, ma nemmeno assolutizzata: essa non è che una chiave di lettura tra le altre. Lo sviluppo dell'Io può venire, tuttavia, indagato, all'interno di ben altre costellazioni: quella del daimon ne è un esempio. Il rifiutarsi di affidare eccessiva importanza a cause esterne conduce Hillman a riporre le chiavi dei successi come quelle degli insuccessi tra le mani dell'individuo guidato dal suo daimon. Solo in questo senso una piena responsabilizzazione di quest'ultimo acquisisce una possibilità concreta.
Così, il nostro autore commenta siffatta intersezione teoretica, la cui portata giunge, infine alla responsabilità preveggente sulla propria morte, prevenendo, peraltro, le obiezioni che, effettivamente, incontrerà: “Più ti mantieni fedele al tuo daimon, più sei vicino alla morte che appartiene al tuo destino66 […]. Essere o non essere la mia vocazione: sempre e ogni volta, questa è la domanda. Forse è appunto questa intimità fra vocazione e destino la ragione per cui evitiamo il daimon e la teoria che ne sostiene l'importanza. Preferiamo inventare teorie che ci leghino strettamente ai poteri dei genitori, che ci appesantiscano di condizionamenti sociali e di determinanti genetiche; in tal modo possiamo eludere il dato di fatto che queste profonde influenze sul destino sono niente di fronte al potere della morte. La morte è l'unica necessità assoluta, la Necessità archetipica che governa il disegno creato dal filo della vita che essa, insieme alle sue figlie, le Parche, volge sul fuso. La lunghezza del filo e l'irreversibilità del suo moto sono parte di un unico e medesimo disegno; e non potrebbe essere altrimenti.”67
Una teoria, dunque, che conduce l'individuo, nudo, spogliato di ogni attribuzione sociale o parentale al suo daimon individuale, alla sua vocazione e al suo destino. In ciò consiste l'invito di Hillman alla responsabilità: che ognuno abbia da realizzare la propria missione, contenuta in una piccola ghianda, affidatagli dagli Dei, personificazioni immediate dell'Archetipo. In ciò consiste la realizzazione individuale. In ciò è da vedersi il contributo dell'autore che abbiamo interrogato, in questo breve scritto.

NOTE
1J. Hillman, Sulla paranoia, ne La vana fuga dagli Dei, traduzione di A. Bottini, Adelphi, Milano, 1991, p. 64.
2J. Hillman, Il codice dell'anima. Carattere, vocazione, destino, traduzione di A. Bottini, Adelphi, Milano, p. 20.
3L'autore, peraltro, utilizza siffatto concetto anche in fase pedagogica, mostrando come il disporre di un buon daimon sia condizione necessaria per prendersi cura di quello altrui, e ciò tanto nei rapporti interpersonali quanto nell'educazione paterna: “Può che è infelice produrre felicità? Poiché la felicità alla sua antica fonte era eudaimonia, cioè un daimon contento, soltanto un daimon che riceve ciò che gli spetta può trasmettere un effetto di felicità all'anima di un bambino”. Ivi, p. 112.
4Ivi, p. 29.
5Conferenza tenuta il 3 novembre 1935 alla Tavistock Clinic di Londra, ora in C. G. Jung, Introduzione alla psicologia analitica. Cinque conferenze, traduzione di S. Stefani, con un saggio introduttivo di A. Romano, Bollati Boringhieri, Torino, 2004, p. 148. Corsivo nostro.
6Il codice dell'anima, cit., pp. 31-40.
7J. Hillman, Senex e Puer, in Puer aeternus, traduzione di A. Bottini, Adelphi, Milano, 1999, p. 103. Corsivo nostro.
8È da notarsi che, anche secondo Hillman, daimon e genius sono praticamente sinonimi.
9M. L. von Franz, Il processo di individuazione, in C. G. Jung, L'uomo e i suoi simboli, coordinato da J. Freeman, traduzione di R. Tettucci, Tea, Milano, 1991, pp. 146-147.
10Il codice dell'anima, cit., p. 23.
11Ivi, p. 102.
12Ivi, p. 105.
13Ivi, p. 88.
14Ivi, p. 90.
15Senex e Puer, cit., pp. 70-71.
16Il codice dell'anima, cit., p. 97.
17Conferenza tenuta il 2 ottobre 1964 presso la Guild of Pastoral Psychology di Londra, apparsa in lingua italiana con il titolo di Il tradimento, in J. Hillman, Puer aeternus, traduzione di A. Bottini, Adelphi, Milano, 1999, p. 33.
18Il codice dell'anima, cit., p. 95.
19Ivi, p. 105.
20Ivi, p. 107.
21Ivi, pp. 101-102.
22Originariamente uscita in Eranos Jarbuch, 36, 1967, ora in J. Hillman, Puer aeternus, cit.
23Senex e Puer, cit., p. 59.
24Ivi, p. 60.
25Ibidem.
26Conferenza tenuta il 4 novembre 1935 alla Tavistock Clinic di Londra, ora in C. G. Jung, Introduzione alla psicologia analitica. Cinque conferenze, traduzione di S. Stefani, con un saggio introduttivo di A. Romano, Bollati Boringhieri, Torino, 2004, p. 180.
27Senex e Puer, cit., p. 62.
28Ivi, p. 60.
29Ivi, p. 64.
30Ivi, p. 61. Secondo lo stesso ordine di considerazioni, l'incarnazione di singoli archetipi conduce, secondo Hillman, a modalità di interpretazione del divenire storico decisamente peculiari e differenziate. Osservare i fatti storici secondo l'angolatura ermeneutica dell'archetipo Senex muta il significato stesso della Storia, laddove, invece, sia l'archetipo Puer ad abitarne le figure interpretative: “Le nostre polarità, Senex e Puer, forniscono l'archetipo per la fondazione psicologica del problema della storia […]. La storia, intesa come problema che mi irretisce, che mi fa soffrire e da cui anelo riscattarmi, è data da questa medesima coppia, espressa come Padre Tempo e Puer aeternus, l'eternamene giovane, temporalità ed eternità, con gli sconcertanti paradossi del loro legame. L'avere a che fare con queste figure è un essere trascinati dalla storia. L'identificarsi con l'una o con l'altra è un essere dominati da un preciso atteggiamento verso la storia: dal Puer che la trascende e sguscia fuori dal tempo astorico o antistorico nelle sue proteste e nelle sue rivolte; o dal Senex, che è un'immagine della storia stessa e della verità permanente che attraverso la storia si disvela.” Ivi, p. 65.
31Jung fa qui riferimento ai regimi hitleriano e mussoliniano, in relazione alla riattivazione dell'archetipo, sopito, del “Salvatore”.
32C. G. Jung, Introduzione alla psicologia analitica, cit., pp. 178-179.
33Ivi, p. 144.
34Ivi, p. 56. Nella stessa pagina, più avanti, per rafforzare questa implicazione analogica, può leggersi: “La dicotomia polare tra Senex e Puer è presente ovunque intorno a noi, fuori di noi, nel campo della storia”.
35Il codice dell'anima, cit., p. 225.
36Ivi, p. 229.
37Ivi, p. 227.
38Ivi, p. 223.
39Ibidem.
40Ivi, p. 224.
41Sulla paranoia, cit., p. 72.
42Contestualmente alla già citata superstizione parentale.
43Il codice dell'anima, cit., p. 94.
44Ivi, p. 126.
45Ivi, p. 129.
46Ivi, p. 131
47Sulla paranoia, cit., p. 39.
48Ibidem.
49Il codice dell'anima, cit., p. 130.
50Ibidem.
51Il mito, nella prospettiva hillmaniana, acquisisce un rango superiore, in virtù di questa diretta incarnazione archetipica, rispetto alle altre scienze e pratiche antropologiche. Il caso dell'astrologia è, in relazione a queste osservazioni, decisamente degno di nota: “L'astrologia è una metafora per dire che coloro che governano la personalità sono potenze archetipiche al di là della nostra personale portata e tuttavia necessariamente coinvolte in tutte le nostre vicende. Tali potenze sono persone mitiche, Dei e Dee, e i loro moti non sono descritti nelle formule matematiche, bensì nei miti”. J. Hillman, Ananke e Atena. La necessità della psicologia anormale, ne La vana fuga dagli Dei, cit., p. 172.
52Sulla paranoia, cit., pp. 93-94.
53Ananke e Atena, cit., p. 116.
54Ivi, p. 129. Per “evento patologizzante”, Hillman intende la possibilità che ogni organismo vivente sviluppi da sé, senza alcun intervento esterno, una forma patologica.
55Ivi, p. 144.
56Ibidem.
57Ibidem.
58Sulla paranoia, cit., p. 66.
59Senex e Puer, cit., pp. 78-79.
60Ivi, p. 76.
61Il codice dell'anima, cit., p. 301.
62Queste, propriamente, le sue parole, in proposito: “La televisione offre al daimon la luce, la celebrità che cerca. Ammesso che si possa attribuirle una responsabilità per la criminalità dilagante, questo non dipende tanto da ciò che la televisione mostra, quanto dal fatto stesso che essa mette in mostra, consentendo istantaneo riconoscimento in tutto il mondo, piena esposizione. Ma il seme, che desidera entrare nel mondo, rimane pur sempre prigioniero di un delirio che trascende il mondo.” Ivi, p. 303.
63Ivi, p . 302.
64Ivi, p. 306.
65Ibidem.
66Il daimon essendo, come, già abbondantemente, sottolineato, l'istanza precorritrice per eccellenza.
67Ivi, p. 266.

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