sabato 22 ottobre 2011

Il Persuaso, il Dadaista e l'Individuo Assoluto - Julius Evola e/o Dada

http://www.secretum-online.it/default.php?idnodo=1465 (parte I)
http://www.secretum-online.it/default.php?idnodo=1473 (parte II)
http://www.secretum-online.it/default.php?idnodo=1482 (parte III)

    Ognuno deve ricrearsi nell'attività col suo spirito per creare il
valore individuale, per giungere alla  ragione di sé stesso – alla
vita, per portare l'attualità all'atto; per essere persuaso; poiché
da nessuno e da niente egli può sperar aiuto che dal proprio
animo, poiché ognuno è solo nel deserto[1]

La vita come un arco, l'anima come una freccia, lo Spirito Assoluto
come bersaglio da trapassare. Unirsi con questo Spirito come
una freccia scoccata si conficca nel suo bersaglio[2]

         A chi non ritenga che la dimensione elementare e materiale della vita sia la stratificazione ultima e principiale della realtà può capitare – parimenti e forse innanzitutto in quelle occasioni che le tribune moderne deputano a loro dignità – di scorgere, dietro le apparenze di determinate circostanze, l'orma di una presenza più antica e originaria. In queste evenienze, il canto della testa recisa di Orfeo accompagna i nostri giorni, senza interruzione: ha luogo il riscatto mitogenico della realtà che ci troviamo ad abitare la quale, entrando in una costellazione metafisica superiore che la strappa alla tirannide della datità, si infiamma di uno splendore antico eppure – supremo arcano di una natura che ruota incessantemente intorno a centri immobili e senza tempo – ogni volta inaudito. Sovente – alchemica renovatio – proprio quei fenomeni in apparenza ben lungi dai principi si rivelano essere i più adatti per chi voglia intravedere, dietro ad un divenire cieco ed irrazionale – ossessione del Mondo Moderno che non ammette più nomos nome norma alcuni – il permanere di centri archetipici ancestrali. Questa ultima situazione, propriamente, incarna il caso di cui ci occupiamo nel presente scritto.
         La notizia per cui un pensatore del rango di Julius Evola, noto successivamente per i suoi studi di esoterismo, Tradizione, politica e filosofia della storia, facesse parte del minuto milieu dadaista italiano è, per i più, tanto sconcertante quanto la constatazione che vi fu, a tutti gli effetti, una frangia nostrana del movimento Dada – tardiva retroguardia che vide l'adesione, seppur temporanea, di ex futuristi nonché surrealisti ante litteram, che chiuse i battenti dopo poche iniziative, infiammate di rivolte iconoclaste e di tabulae rase nichiliste.
         Nel breve contributo che qui presentiamo, tuttavia, non discuteremo dell'importanza dell'esperienza evoliana contestualmente allo sviluppo complessivo di Dada, quanto piuttosto delle modalità di adesione del giovane pensatore a quel fatale microbo vergine, secondo la celebre definizione che ne diede Tristan Tzara, che imperversò tra i primissimi decenni del secolo sul quale si è appena chiuso il sipario.
         Nonostante ciò sia assai scarsamente documentato, la figura di Evola fu di fondamentale importanza nel panorama avanguardista italiano – se non addirittura centrale, contestualmente alla nascita di una frangia dadaista peninsulare, il giovane essendo stato il solo artista realmente dada, a livello italiano. Fu infatti autore dell'unico manifesto dadaista italiano, dato alle stampe nel 1920 per la Collection Dada, con il titolo di Arte astratta. Posizione teorica. 10 poemi. 4 composizioni, nel quale si fece palese tanto la violenza dell'istanza dadaista quanto i legami che il suo autore intravide tra il Dada e, come vedremo, un certo tipo di theologia negativa, serpeggiante in modo carsico e chiaroscurale tra i labirinti millenari della cultura continentale. Un anno dopo, di Evola venne dato alle stampe La parole obscure du paysage intérieur, poemetto a quattro voci, sommesso dialogo tra le quattro istanze che popolano i silenzi della vita notturna dell'Io, ossia Ngara, la volontà, Lilan, il sentimento, Râaga, la contemplazione descrittiva e Hhah, l'astrazione disinteressata.
         In quegli anni, peraltro, il giovane Evola mantenne un fitto contatto epistolare con Tristan Tzara[3], fondatore ed animatore della neonata avanguardia e partecipò, con diversi articoli, alle riviste Bleu e Noi, uniche testate nostrane a rispondere agli appelli lanciati de Tzara e compagni[4]. Quanto ad esposizioni, Evola tenne due personali, nel 1920 presso la Casa d'Arte Bragaglia e nel 1921 nella galleria Der Sturm di Herwarth Walden. Sempre nel 1921, la galleria di Anton Giulio Bragaglia ospitò una mostra, nella quale i dipinti evoliani furono esposti insieme a quelli di Gino Fiozzi ed Aldo Cantarelli, anch'essi artisti piuttosto sensibili alle proposte dadaiste. I quadri di Evola apparvero anche in occasione di mostre internazionali di prestigio: nel 1919, alla Grande Esposizione Nazionale Futurista e alla ginevrina Esposizione Internazionale di Arte Moderna e presso la parigina Exposition International Salon Dada del 1921.
         Nelle esposizioni appena citate Evola divise i suoi dipinti in due sezioni, corrispondenti alle due fasi della sua evoluzione pittorica, denominate, assai significativamente, idealismo sensoriale e astrattismo mistico. Nella prima delle due, Evola era solito raccogliere le opere realizzate fino al 1918, di ascendenza futurista; nella seconda, quelle realizzate successivamente, sotto il segno del dissolvimento di Dada.
         All'inizio della sua carriera, infatti, e i suoi primi dipinti mostrano in modo decisamente eloquente questa sua infatuazione giovanile, Evola fu assai influenzato da quel Futurismo – si formò, peraltro, intorno al 1915, presso lo studio di Giacomo Balla, "non senza suggestioni di spiritualismo orfico, destinate ad avere in lui successivamente una decantazione in chiave alchemico-magica”[5] – da cui in seguito si distaccò, deprecandone tanto il culto della tecnica e del progresso quanto la perenne ed ossessiva ricerca del chiasso e dello scandalo. Come scrisse, più di quarant'anni dopo, nella sua autobiografia spirituale, Il cammino del cinabro, "l'orientamento del futurismo si accordava assai poco con le mie inclinazioni. In esso mi infastidiva il sensualismo, la mancanza di interiorità, tutto il lato chiassoso e esibizionistico, una gretta esaltazione della vita e dell'istinto curiosamente mescolata con quella del macchinismo e di una specie di americanismo, mentre, per un altro verso, ci si dava a forme sciovinistiche di nazionalismo"[6].
         Le sue aspirazioni artistiche e meta-artistiche, orientate verso una tabula rasa necessaria ad un cammino metafisicamente assai più elevato, non poterono che incontrare solamente una soddisfazione temporanea nel futurismo – si rese necessaria, al giovane Evola, una rottura di livello più radicale ed integrale. Da ciò, il suo interesse verso la siderale rarefazione linguistica promossa da  Dada, che il nostro pose, sino dalla sua iniziale adesione, in aperta antitesi con le confusioni futuriste: “Dadaismo e futurismo sono due tendenze assolutamente agli antipodi: l'una è assoluta interiorità, l'altra assoluta esteriorità”[7].
         Siffatta esperienza artistica si esaurì agli inizi degli anni Venti. Ad essa seguirono il periodo cosiddetto "filosofico"  e gli studi orientalistici: “La successiva opera di Evola", scriveva Adriano Romualdi nella sua monografia sul pensatore romano, non avrebbe incarnato che lo sforzo di "sublimare i fuochi gialli, verdi, azzurrini dell'arte astratta nelle luci candide e ferme dei grandi fuochi perenni dello spirito tradizionale”[8]. Quarant'anni dopo, grazie all'interesse di Claudio Bruni, Enrico Crispolti e Vanni Scheiwiller, la notizia della sua partecipazione all'avanguardia riemerse. Venne organizzata, nel settembre del 1963, una mostra retrospettiva, presso la galleria romana La Medusa, nella quale i dipinti esposti vennero venduti piuttosto celermente. Il vecchio autore si trovò, di conseguenza, le pareti di casa sguarnite. La visione dei muri ormai scarni di colore del suo appartamento romano, in Corso Vittorio Emanuele II 197, spinse Evola a riprendere in mano tele, colori e pennelli e a realizzare sia copie di vecchi lavori che nuovi soggetti, in senso vero e proprio[9] – tra i quali quei nudi femminili, nei quali i contenuti di Metafisica del Sesso stillano sulla tela, tra linee spezzate, colori accesi e simboli ermetici. Sicché potremmo dire che Evola dipinse sino alla fine dei suoi giorni.
         È bene, ora, dopo questi brevi cenni storiografici, chiarire la misura della adesione evoliana all'iconoclastia dadaista. Il nichilismo occidentale, ch'ebbe proprio in Dada una delle sue istanze apicali, non venne inteso da Evola che come mero prologo ad un movimento ascendente di tipo meta-artistico e meta-fisico. Dove l'annichilimento del linguaggio operato dalle avanguardie novecentesche incarnò lo sganciarsi dalla tirannia del contenutismo – conato rivoluzionario che si risolse, infine, nella denuncia del medium poietico in quanto tale – il deserto concettuale dadaista non venne accolto da Evola se non come momento preliminare di un innalzamento di ordine decisamente differente. Il giovane artista utilizzò le armi più spregiudicate e degenerate del Mondo Moderno per raggiungere una frattura, una crisi – momenti congeniti di ogni fenomeno esaurentesi in posizioni meramente umane e materiali – e naufragare al di fuori di esso. Da buon seguace di quella Via della Mano Sinistra che fu suo costante punto di riferimento, si servì delle propaggini ultime di un mondo destinato alla deriva per trascenderlo, ascendendo. Alla dissoluzione, operata da Dada & Co., dovette seguire, almeno secondo le intenzioni del giovane dadaista, una coagulazione traente forza da altre fonti, non avvelenate. Quest'altrove, tanto ricercato dal giovane artista, sarà, anni più tardi, il retaggio tradizionale. Le provocazioni di Tzara e compagni non furono per Evola che la prima fase di un movimento abbracciante epoche e ricorsi storici, da compiersi con l'ausilio di tutt'altro genere di mezzi. Si trattò, in fondo, per il futuro pensatore della Tradizione, di inserirsi tra le pieghe più dissacranti e antitradizionali dell'arte moderna al fine di giungere ad un punto di frattura, ad una rottura esistenziale, guaribile unicamente tramite una farmacopea che esulasse totalmente dalla Modernità.
         Da ciò, l'importanza decisiva del momento della negazione, alla quale non dovette seguire un nichilismo umanista riduttivo ma una visione superiore, una epoptéia: il metodo dei dadaisti "fu quello della negazione: non si tratta di sostituire ad una creazione un'altra, ma di negare assolutamente ogni forma, ogni categorizzazione; di disorganizzare, di dissolvere: così come chi vuol avere coscienza del cielo non ha da sostituire ad un velo di nubi un altro velo di nubi, ma deve squarciarle, dissolverle: magari spezzarle, con un vento furioso. La lirica dadaista vuol descrivere precisamente questo lavoro negativo che – come si espresse Tristan Tzara – segna il risveglio di quel che vi è di divino in noi; e il suo risultato, l'astrazione”[10]. Negazione che si trasformò in momento fondativo di un nuovo modo di intendere i rapporti che l'uomo intrattiene con le serpentine del cosmo, nelle quali si distillano e sublimano sempiterne verità archetipiche: “Ora io voglio dimostrare come tale terra, della negazione, possa riferirsi ad una posizione mistica: anzi, come esso sia la condizione di ogni misticismo attuale, ossia di un misticismo che possa comprendere e risolvere in sé, e in chiara coscienza, TUTTI quegli elementi spirituali e razionali che hanno preceduto e reso possibile lo stato di coscienza di oggi, di cui, solo, può sorgere”[11].
         Proprio in virtù delle consonanze – di natura, potremmo quasi dire, ermetica – appena ricordate, non deve stupire l'adesione giovanile evoliana al Dadaismo e all'arte avanguardista. Sussistette una linea di continuità, non artefatta e nemmeno costruita a posteriori, tra l'esperienza dadaista e quelle che furono le fasi successive della ricerca evoliana. Proprio all'arte astratta, infatti, il nostro autore riservò uno stadio del suo impianto filosofico idealista[12], sottolineandone tanto la portata liberatoria e autarchica quanto le insufficienze. Inoltre, Sul significato dell'arte modernissima venne inserito da Evola in appendice ai suoi Saggi sull'idealismo magico, usciti nel 1925 per Atanòr. Linea direttrice unitaria, figura mitogenica incarnantesi in diversi domini, infine, evidenziata dal filosofo nella sua già citata autobiografia spirituale[13].
         L'esperienza dadaista fu un tuffo nella volontà elementare, ancora senza positum specifico, di un artista che nulla volle rappresentare se non uno Streben oltrepassante i limiti assegnati all'umana conformazione. Dai domini del senza forma che preme per tradursi in geometria estetica, mosaico esistenziale primigenio, Evola, in seguito, risorse – forma nuova e arcaicizzante, allo stesso tempo – attraverso le vette metafisiche della speculazione orientale. Poiché, è bene sottolinearlo, il giovane artista intravide nel movimento di Zurigo tutta una serie di frangenti spirituali perlopiù, detto per inciso, solo da questo immaginati, come ebbe a riconoscere, d'altra parte, successivamente: "In realtà, il movimento a cui mi ero associato [...], doveva realizzare ben poco di ciò che io in esso avevo visto. Se rappresentò di certo il limite estremo e insuperato di tutte le correnti d'avanguardia, tuttavia esso non si autoconsumò nell'esperienza di una effettiva «rottura di livello» di là da ogni arte e di ogni consimile espressione"[14]. Certo è, insomma, che Evola proiettò nel Dadaismo sue personali istanze – ma questo nulla toglie alla sua carriera, tanto artistica quanto filosofica e via dicendo. La giovane avanguardia, nonostante gli auspici evoliani – i quali rimasero, essenzialmente, inascoltati – si dimostrò totalmente incapace di assumere una funzione positiva, di superare il momento di una mera contestazione per porre, poi, alcunché di superiore. Nonostante la sincerità delle proposte di Evola, l'equazione Dada/nihil non si dissolse che con la scomparsa del primo termine.
         Ma cosa intravide propriamente il futuro maestro della Tradizione, negli specchi infranti dell'arte degenerata? É quanto ora si tratta di diagnosticare e mettere a fuoco.
         Uno sguardo – potremmo forse dire, di natura morfologica – assai precoce, il quale giungerà al suo momento apicale con la composizione di Rivolta contro il Mondo Moderno, pubblicata quindici anni dopo, permise ad Evola di definire l'arte degenerata di Tzara quale ultimo capitolo di una linea direttrice molto più vasta e antica. Nel Dadaismo, il giovane artista scorse la stessa denuncia, volta a decostruire e relativizzare i limiti ed il linguaggio propri alla dimensione egologica dell'uomo – una tra le tante, come ben comprese il suo futuro maestro Guénon – propria ad un Novalis[15], un Boehme, un Eckhart, un Ficino e così via. Essi furono, per così dire, dadaisti ante litteram: “Dada è sempre esistito. Ed infatti, sia pur travestita alla superficie secondo le condizioni di individuazione e di ambiente, si può ritrovare nelle sue linee essenziali la posizione di Dada a partir dalle Upanisad indiane e da alcune diramazioni della scuola Pitagorica, poi, via via, in Simone, Basilide, Valentino, Porfirio; in Eckhart, in Swedemborg, sino a Novalis, a Stirner, a Nietzsche, a Mallarmé, Apollinaire, Bergson, Freud e Tzara”[16].
         Germoglio modernissimo di una aspirazione assai antica, Dada seppe incarnare ed assumere su di sé appieno quella follia che individuò nelle categorie del Wachsein le invisibili sbarre di una prigione – cella di un individuo consegnato alle sue mere possibilità umane – dalla quale nessuna evasione è possibile, facendo affidamento solo sulle forze dell'Io cosciente. "Il est difficile d'échapper d'une prison qui n'a pas de mur": la celebre espressione di Ribémont-Dessaignes impressionò a tal punto il giovane Evola che questi la inserì in buona parte dei suoi scritti dedicati all'arte astratta e al suo declinarsi dadaista. Risultò evidente, agli occhi di Evola, la consanguineità delle prigioni senza muri degli avanguardisti e delle theologiae negativae di tutti i tempi che si avvicendarono, parallelamente a tutte le costruzioni positive. Ebbene, se tale concetto fu peculiare agli autori anzi citati, è solo attraverso il rifiuto categorico ed integrale delle strutture logico-razionali scagliato dal Dadaismo innanzi all'edificio dell'arte tradizionale che questa corrente corrosiva, dissolvente e distruttrice – mirante a conseguire la Gottheit attraverso lo scardinamento integrale dell'Io e del suo corredo ontico – che esso emerse e si dispiegò nella sua interezza[17]. Rifiuto che, nelle parole di Evola, si tramuta in una messa al bando integrale, decisiva e virulenta: “Noi siamo distruttori, immorali, disorganizzatori: vogliamo morte e follia; noi stracciamo, vento furioso, la biancheria delle nuvole e delle preghiere, e prepariamo il gran spettacolo del disastro, dell'incendio, della decomposizione; prepariamo lo stato di follia, di follia aggressiva, completa, di un mondo abbandonato fra le mani dei banditi che si stracciano fra loro, e distruggono con loro i secoli: senza scopo, né metodo, senza organizzazione. Ed in questo è la nostra saggezza, la nostra norma, distruggere logica e coerenza, disseccare la volontà di vivere, portare l'arbitrio nell'ordine, disciogliere il concreto nell'astratto, la fede nel capriccio. Non abbiamo più terraferma, siamo contraddittori, prendiamo in giro noi stessi e gli altri; nulla ci possiede; non altro vogliamo che questa negazione chiudendosi in sé stessi; l'annullamento degli idoli, di tutte le necessità e di tutti gli entusiasmi. E tutto ciò, ripeto, senza necessità, senza fede; io, sono al difuori. Per capriccio – giuoco triste – l'arte”[18].
         Da queste premesse, propriamente, scaturì l'adesione evoliana alla fiumana dadaista – modernissima incarnazione della Via della Mano Sinistra, ultima e compiuta espressione di un altro Occidente il quale, avendo in odio templi ed altari, mira a intravedere le orme degli Dei – giacchè anche qui essi risiedono, avrebbe detto Eraclito – tra le macerie e le rovine.
         Tra le innumerevoli ragioni che spinsero il nostro ad arruolarsi presso le avanguardie di un pensiero inattuale e fluidificante, giunto forse troppo presto, può annoverarsi la preponderanza del ruolo dell'artista contestualmente alla produzione estetica. La fisima dell'arte pre-ottocentesca, secondo Evola, risiederebbe nel ruolo decisamente passivo rivestito dall'Io individuale dell'artista innanzi alla potenza di un Grande Stile – secondo la celebre formulazione nietzschiana e spengleriana – che altro anelare non avrebbe se non lo sfruttamento del primo termine della equazione in quanto suo semplice medium. Secondo la concezione tradizionale dell'arte, ci dice Evola, l'autenticità di una formulazione di ordine estetico sarebbe direttamente proporzionale alla misura in cui l'artista si abbandona al Grande Stile, si fa medium del suo Zeitgeist. Nella sua persona e nel suo retaggio egologico, questi non sarebbe, ci dice Evola, che un mero accidente, un'occasione, affinché alcunché di più elevato – e totalmente estrinseco ad esso – possa assumere una connotazione sensibile, possa farsi idea senza parole, sillaba incarnata in simbolo: "Che presso al valore individuale, o autarchia, la situazione donde di massima è nata la cosiddetta «grande arte» debba apparire come qualcosa di affatto negativo, è cosa che può risultare chiara a ognuno. Nella «grande arte» infatti l'artista era tanto produttivo [...] in quanto si abbandonava all'ispirazione, al palpito di vita dell'universale; in quanto si lasciava possedere e agire quasi da una forza superiore [...] di cui in fondo non sapeva nulla e che nel momento proprio della creazione lo aveva quasi come organo e inconscio strumento"[19].
         Proprio la custodia di una siffatta passività, commenta il giovane dadaista, risulterebbe assai squalificante per un Io che anelerebbe anzitutto ad espletare la propria volontà – giacché è proprio nel segno della volontà, secondo la formulazione che ne diede un Michelstaedter o un Nietzsche, che fa il suo ingresso, tra belles époques e Guerre Mondiali, l'arte modernissima. Proprio dal conflitto tra un'istanza che vuole strenuamente affermare se stessa ed è invece costretta a piegarsi alla mimesi di un altro da sè che tiranneggia nasce, secondo Evola, una crisi che scuote l'Io sin dalle sue fondamenta. Il conato individuale verso un'autarchica espressività acquisisce – dopo innumerevoli tentativi quali simbolismo, analogismo e futurismo – forma compiuta e totalizzante solo con l'apparire di quella intemperie culturale nota come "arte moderna e, nella sua ultima potenza, come arte astratta"[20].
         Si tratterebbe, secondo Evola, di restituire all'Io quella sua centralità poietica, negata dall'arte cosiddetta “tradizionale”. Adombrato da secoli di imitazione, ora l'artista può finalmente esporre e dipingere se stesso e quelle influenze sovraumane e superumane che ne trafiggono l'individualità caduca. A cosa tutto ciò si riferisca, di quale ordine di Io Evola ci stia parlando nella fattispecie, tratteremo in sede conclusiva.
         La posizione dell'individualità dell'artista come centro e fulcro spirituale della creazione estetica operata dal dadaismo, a contatto con l'equazione personale evoliana, si tramutò in estrema possibilità di proiettare sulla tela le foschie di una geometria superiore, pur appartenente al corredo egologico e, al contempo, facente perenne pressione per fuoriuscirne e cristallizzarsi in tela e colore. Come già accennato, l'adombrarsi del contenuto in virtù di un formalismo pressoché totale è un elemento decisivo, in quest'ordine di idee. Dove l'arte tradizionale si sbilanciò verso la riproduzione esatta di alcunché di assolutamente estrinseco all'artista, nell'arte astratta – astratta, non a caso, dall'ossessione di un contenuto da riprodurre in modo mimetico e passivo – è la forma, in quanto tale, a determinare attivamente e lucidamente il contenuto, scaturendo questa ultima dalla via maestra per giungere alle regioni siderali del : la volontà. Le linee astratte, il rarefarsi dei tratti, i colori accesi altro non sarebbero che il porsi in esercizio di una istanza sovraindividuale che sulla tela vuole impressionare se medesima, integralmente e incondizionatamente. La prospettiva tradizionale subisce qui un rovesciamento decisivo: l'artista non obbedisce più semi-inconsciamente ad uno stile altero ed inconoscibile che si esprime attraverso le sue doti estetiche ma, per la prima volta, è il a porre in essere l'opera d'arte, attraverso la sua forma – coagulazione estrema di un conato siderale, mezzodì zarathustriano nel quale l'ombra degli enti non è che mera fantasia. L'opera d'arte, in Dada, diviene una occasione affinché possa destarsi una regione superiore dell'Io, perlopiù celata ed inibita dall'incedere logico e razionale. Da qui la superiorità delle discipline estetiche su quelle teoretiche. La produzione artistica assume, a tutti gli effetti, le caratteristiche di  un processo alchemico[21], trasmutazione dell'Io creatore e rinascita dell'artista. Attraverso la produzione artistica il momento apicale del Sé creatore acquisisce conformazione sensibile – l'artista muore e risorge nei suoi oli e nelle sue tele. L'apparente insensatezza delle composizioni dadaiste – tale solo per chi non sappia porre se stesso alle altezze rarefatte del gesto del creatore – non rivelerebbe, ci dice Evola, che una superiore sinergia di forme e volumi: "Si potrebbe dire che in essa ogni realtà si disgreghi, pompata dall'estrema rarefazione, e rientri in un caos elementare «secco e ardente, ardente e monotono». Ma [...] questa follìa non è che un'apparenza, dietro la quale vive in una luminosità metallica il senso dell'assoluta libertà dell'Io [...]. L'arte diviene, qui, essenzialmente autorivelazione"[22]. Dopo secoli e secoli di tentativi, Dada si affaccia come intersezione e sintesi massima di antichissimi conati ed epifanie. Lo sposalizio tra Tradizione e Modernità ha finalmente luogo:  “In Dada noi abbiamo delle premesse mistiche e delle premesse razionali trasmesse da epoche precedenti, le quali oggi, riunite, elaborano in sede vitale un prodotto d'ordine essenzialmente mistico”[23].
         Proprio lungo siffatti crinali risiede il nucleo pulsante dell'esperienza evoliana. La produzione estetica strappa il reale tanto alla tirannia della mera datità quanto allo scadimento individuale nella consuetudine e nell'ordinario: "Arte è egoismo e libertà. Sento l'arte come una elaborazione disinteressata, posta da una coscienza superiore dell'individuo, trascendente ed estranea perciò dalle cristallizzazioni passionali e di esperienza volgare"[24]Datità, oggettualità, che nelle opere evoliane a carattere filosofico coinciderà con l'impotenza egologicacosa in sè che diviene regione nella quale la potenza dell'Io non ha (ancora) accesso e che dilegua nel possesso assoluto ed incondizionato dell'Io di se medesimo, Mercurio filosofico fattosi carne vivente. Proprio questa caduta di potenziale è risanabile attraverso la poiesis: è il gesto del creare in quanto tale a permettere all'Io di possedere una realtà che gli si pone innanzi come Gegenstand, come cosa in sé. Dove la realtà oggettiva incarna il fallimento – seppur parziale e temporanea, almeno per chi scelga la via dell'attività – della potenza del soggetto, solo attraverso l'arte il singolo può imporre il proprio crisma sulla realtà intera, rendendo questa ultima mosaico macrocosmico di quella forza, di quella potenza che tutto permea e trasmuta in Divinità. Riappropriazione che implica, inevitabilmente, un potenziamento superindividuale dell'artista. Con l'apparire del dadaismo, "l'arte ha, finalmente e per la prima volta, trovata la sua soluzione spirituale: ritmi illogici ed arbitrari di linee, colori, suoni e segni che sono unicamente segno della libertà interiore e del profondo egoismo raggiunto; che non son mezzi che a se stessi; che non vogliono esprimere nulla, completamente. Qua e là è superata altresì la stessa necessità dell'espressione"[25]. Immagini analoghe, d'altra parte, sono parimenti riscontrabili nel già citato Saggio sull'arte modernissima: "Da qui la denominazione di arte astratta: astratta, in quanto non ha più un oggetto propriamente detto – sia esso una situazione della natura che uno stato emotivo o un'idea – da comunicare o da animare, ciò che essa esprime essendo null'altro che la stessa pura espressività, scandente il ritmo di una pura libertà interiore"[26].
         Liberato dalla tirannia del contenuto, l'arbitrio può, forse per la prima volta, esplicitare se stesso senza l'ausilio di un oggetto da rappresentare – l'espressione diviene cristallina, pura, chirurgica. La volontà astratta – ab-tracta – supera interamente le trame viscose della mimesis per giungere a donare consistenza alle sue formule più intime e, al contempo, superumane. Svincolatosi dall'ossessione per il contenuto – cosa in sè, coagulazione che genera rancore in un Io inteso quale potenza e libertà – l'artista diviene creatore assoluto e incondizionato. Il suo fare diviene dettame universale; la sua volontà, profezia, le sue aspirazioni, altari. Questo il dadaismo che intese Evola, assai poco conforme alla ricerca della mera trasgressione propria agli altri artisti degenerati.
         Proprio il primato assoluto della volontà contestualmente alla produzione artistica, è un altro tratto decisamente rilevante per concepire l'avvicinamento evoliano al microbo vergine. Il medium poietico del giovane Evola è propriamente la volontà – una Wille assoluta che vuole anzitutto consistere e perpetuarsi, in un perenne trascendimento delle sue possibilità. Nel già citato poemetto a quattro voci una costellazione di questo tipo acquisì piena consistenza, sotto il segno del pensiero del giovane filosofo goriziano Carlo Michelstaedter, le teorie del quale furono note ad Evola sin dalla adolescenza, avendo questi conosciuto personalmente suo cugino Emilio[27].
         Ne La parole obscure du paysage intérieur, l'eterno ritorno, simboleggiato dal circolo nel quale gli uomini si avvicendano e si rincorrono perpetuamente, come microbi allucinati – "tous les microbes courent en cercle tous les hommes courent en cercle / ils se hâtent comme des obsédés et ils ne voient pas"[28] – viene definitivamente eclissato e trasceso dal tema dell'iperbole – "Sang en formation d'hyperbole"[29] – intonato, di certo non casualmente, dalla volontà, alla chiusura del poema. L'alchimia delle parole del dialogo giunge ad incarnare una crisi vissuta, in ogni momento, dall'Io desto, attraverso il conato iperbolico ed asintotico di una fredda volontà superiore. La correlazione fenomenica, che conduce gli uomini alla gogna dell'altro da sè, costringe l'Io ad individuare la propria ragion d'essere al di fuori del proprio raggio d'azione, di modo che questi sia, di volta in volta, schiavo di contingenze specifiche – l'uomo, dovendo trovare il suo volto nella cosa in sè, non può che trovarsi in balia di un divenire metamorfico in perenne agòne nel quale il nomos viene dettato da chi risulta temporaneamente vincitore ma mai, comunque e in ogni caso, dall'Io. Tale il cercle. Tale la rettorica michelstaedteriana. Tale l'arte classica, secondo il giovane dadaista.
         Di contro a questo corto circuito esistenziale insorge e risorge l'iperbole spirituale del persuaso/dadaista il quale, lungi dal perdersi allucinato tra enti e contenuti a questi estrinseci, trasfigura la passività di una realtà materiale semplicemente data imponendo su di essa un sigillo non forgiato più dal proprio Io ma da tutta una serie di facoltà superiori che le tele riescono a riattivare. L'arte diviene realizzazione di una trascendenza che investe tanto la realtà, sottratta definitivamente alla coincidentia oppositorum, quanto l'artista stesso, che diviene abitatore di zone inaccessibili alla mera umanità – trascendenza, è bene ribadirlo, di cui gli altri dadaisti non furono poi così coscienti, nonostante gli spassionati auspici evoliani.
         Il circolo, evocato nel poemetto dadaista, che eternamente consuma uomini, microbi e, infine, se medesimo, pare ricalcare a tutti gli effetti le seguenti tesi michelstaedteriane, l'assonanza  delle quali al primo è drammaticamente evidente: “Per le vie della terra l'uomo va come in un cerchio che non ha fine e che non ha principio, come in un labirinto che non ha uscita. E si accalcano gli uomini, e gareggiano e si soffermano, o procedono senza riposo, ma sono sempre là dov'erano, ché un posto vale l'altro nella valle senza uscita”[30]. Tali catene diverranno, nell'impianto filosofico evoliano, la Via dell'Altro, modalità regressiva di sviluppo, ad opera di un Io che abdica al compito di assegnare un destino a sè medesimo e che non segue i dettami imposti dal suo stesso essere, interdette essendo le sue possibilità di definirsi senza l'ausilio dell'altro da sé. Le parole di Ngara, al contrario, lastricheranno il sentiero dell'Individuo Assoluto – la volontà principiale, maschile ed attiva diverrà la via maestra per la realizzazione del Sé individuale superiore. Sembrano risuonare, nei sogni evoliani, i proclami del filosofo goriziano: “Ma tu non vivi-morrai di ciò e per ciò – ma ti creerai da te, e in te la vita – rinato da te stesso non ti muoverai a differenza delle cose cognate; ma in uno sarai tu stesso e la vita: e farai di te stesso fiamma. Poiché tu sei il primo e l'ultimo”[31].
         Prima di procedere in questa breve disanima, è bene chiarire quanto segue. É evidente, peraltro dai testi appena citati, che il soggetto di cui Evola ebbe ad auspicare un destarsi nulla ha a che vedere con l'Io narcisistico dei pittori contemporanei i quali, nella pressochè totale impossibilità di donare alle proprie opere un carattere superiore, ne fanno l'occasione per parlare dei propri problemi individuali ad un pubblico semispecialista sempre più annoiato. L'idealismo magico, il quale parve annunciarsi nell'idea che orientò il percorso artistico evoliano, nulla ha a che fare con l'ipersoggettivismo che, funesto, imperversa nei centri organizzati di produzione artistica dei tempi che corrono.
         Il soggettivismo evoliano è ben lungi dalle banalità arbitrarie – arbitrarie in quanto banali e non viceversa, direbbe forse Evola – che infestano le pessime gallerie d'arte contemporanea. Auspicando la risurrezione di un Io inteso come comunione mistica di potenza, libertà e creatività quale condizione fondamentale di un'arte a tutti gli effetti autarchica, il giovane artista non intese, in alcun modo, sfiorare quel culto estremo dell'individualità dell'artista che caratterizza ampie porzioni del panorama artistico odierno. Se non è l'oggetto rappresentato a scandire la dignità di una opera d'arte, nemmeno ha da intendersi quale criterio discriminante la soggettività – volgarmente intese – dell'artista. La tela, secondo Evola, non ha da intendersi né come mera imitazione del reale né come capriccio sentimentale, infantile o biografico – essa acquisisce significazione ed autenticità, diciamolo una volta per tutte, laddove sappia farsi scandaglio di influenze superiori, non fruibili con l'ausilio della mera logica. Dove l'arte cessa di essere lo specchio che riflette, trasfigurato, il volto dell'artista in Dio, di essa non rimane che un mero chiacchericcio da salotto.
         L'arte, secondo il programma evoliano, non è soggettivaoggettiva. Essa trascende tanto un oggetto il cui culto sancisce la validità delle produzioni estetiche quanto un soggetto mutilato delle sue possibili aperture verso l'alto e condotto al patibolo da quelle facoltà che la Modernità ha deputato a peculiarità umane. Estetizzando il mondo nelle opere d'arte – eco evidente del Romantiesiren di un Novalis – l'artista mette in moto forze usualmente inibite dalla sue catene ordinarie. La poiesis diviene esercizio di facoltà superiori, in senso metafisico e spirituale – trasfigurazione alchemica, morte nella materia e metempsicosi della vita nel più-che-vita.
         Attraverso il magma confuso di ellissi, iperboli e linee spezzate, va componendosi, secondo il futuro maestro della Tradizione, un disegno che ha il suo luogo naturale in quelle regioni individuali – ma, al contempo, metafisiche e atemporali – nelle quali il singolo s'appresta, seppur asintoticamente, ad abitare presso gli Dei: "La coscienza astratta, sottofondo dell'estetica ultimissima, si lega infatti a un altro piano – quasi ad un'altra dimensione – dello spirito, che con quello su cui si svolge la vita [...] non ha nulla a che fare"[32]. In questo senso, come dicevasi all'inizio, poté svilupparsi l'ascesi evoliana, a partire dalle macerie estetiche abitate da Dadaismi ed avanguardie. Solo a partire da siffatte condizioni, le modernissime theologiae negativae avrebbero potuto trasformarsi nella tappa di una iperbole ascendente, legante terra e cielo.
         Eppure, ciò non è sufficiente a tratteggiare la misura dell'infatuazione di Evola per Dada. Occorre rispondere ad una domanda concernente la direzione che il dadaismo, assolutamente incurante delle proposte evoliane, assunse successivamente. Direzione non casuale e nemmeno ininfluente per Evola stesso, quest'ultimo essendosi soffermato su tale trapasso in molteplici occasioni e sino alla conclusione della sua esistenza terrena.
         "L'arte astratta non potrà essere storicamente eterna ed universale: questo a priori – PLOTINO, ECKHART, MATERLINCK, NOVALIS, RUYSBROECK, SVENDEMBORG, TZARA, RIMBAUD.... tutto / ciò non è che un breve, raro e incerto balenare attraverso la grande morte, la grande realtà notturna della corruzione e della malattia [...]. L'arte moderna cadrà ben presto: appunto questo sarà il segno della sua purità; cadrà più che altro per essere stata realizzata con un metodo dall'esterno / per una graduale elevazione della malattia su motivi in parte passionali / anzi che dall'interno / mistico /"[33].  L'esperienza artistica di Evola, di fatto, si chiuse in meno di un decennio. Dai deserti dadaisti, la sua inclinazione spirituale lo condusse alle vette delle dottrine sapienziali orientali, alle speculazioni idealiste e, finalmente, al pensiero della Tradizione di ascendenza guénoniana. Alla rottura di livello causata dalle avanguardie, epperò già da tempo messasi in cammino in vista di un suo totale dispiegamento, la cultura novecentesca reagì secondo due linee direttrici, ascendente l'una, discendente l'altra. Questa duplicità fu propria, secondo Evola, ad ogni scardinamento dell'ego cogito e del suo corredo logico-razionale, nonché  di quel principiuum individuationiis che intrappola il mondo all'interno di quello che, in realtà, è uno dei suoi stati. Il dadaismo, scriveva il Nostro, “si è, in un certo qual modo, autoconsumato, perché non era possibile sostare a lungo, sinceramente, sulle posizioni di negazione radicali, di una libertà affermata attraverso la dissoluzione regressiva di ogni limite e di ogni ordine, di ogni valore convenuto e di ogni razionalità, non solo nell'arte ma, secondo l'istanza originaria, nella stessa esistenza individuale"[34].
         Se il cammino del giovane artista romano fu di tipo ascendente, se l'incendio dell'Io condusse quest'ultimo a ricercare la fonte di significazione egologica tra i picchi innevati della Tradizione e non tra le foschie di un inconscio primitivo, istintuale ed animale, questa opzione rese Evola una eccezione – di certo, purtuttavia, assai significativa – rispetto agli altri artisti che popolarono le fila delle avanguardie del primo Novecento. La deriva – già ampiamente contenuta nelle premesse, secondo Evola – del microbo vergine fu un sub-realismo, propaggine estetica del freudismo, con la sua ossessione per l'automatismo compositivo e per l'allucinazione creativa, entrambi questi processi avendo senso solo laddove l'inconscio venga considerato la natura par excellence dell'uomo: “Il cosiddetto «surrealismo» derivò in buona misura dal dadaismo, prendendo però una via problematica: s'interessò alla psicoanalisi, si volse verso l'inconscio e scambiò per delle aperture verso l'alto, forme regressive di mero associazionismo mentale e sensazioni confuse dello strano e dell'inquietante destate con la tecnica dell'incoerente”[35]. Nonostante le invettive evoliane, rivolte alla fondazione di un'arte a caratura essenzialmente spirituale, alla creazione di un fronte estetico metafisico tradizionale, la rivolta Dada condusse i giovani distruttori alle nebbie infraumane ed infrareali dell'inconscio. Se Dada minò e mise al bando le possibilità di una individualità artefatta ed eletta ad elemento di scansione di tutto l'esistente – mistificazione eminentemente moderna – questa denuncia non condusse i fautori della decomposizione e della rarefazione ad una rettifica ma ad una ulteriore confusione. Le seguenti parole di Evola, che questi compose in occasione della ristampa del poemetto dadaista All'Insegna del Pesce d'Oro, nel 1963, e che riportiamo abbondantemente in quanto decisamente significative, sono un segno assai eloquente di questa sua consapevolezza: "Queste correnti erano ambigue, comprendevano una doppia possibilità. Per un lato, la loro direzione poteva essere quella di una rivolta contro ogni razionalità, contro ogni forma data e ogni legge, orientata verso la «vita» e l'irrazionale [...]. Questa tendenzialità doveva avere rilievo nel successivo (primo) surrealismo, in quanto i loro esponenti portarono l'attenzione addirittura sull'inconscio e sul sub-conscio, ricorsero perfino alla tecnica della «scrittura automatica», si accostarono alla psicanalisi, subirono la suggestione dell'oscuro demonismo dell'arte dei primitivi e dei negri. L'altra, opposta possibilità di tali esperienze era quella corrispondente al mio orientamento. Per usare i termini di A. Huxley, alla direzione di un «autotrascendimento discendente» si opponeva quella di un «autotrascendimento ascendente»"[36].
         Questo movimento fu ben lungi dall'essere peculiarmente artistico; al contrario, esso fece da sfondo teorico di fenomeni quali irrazionalismo[37] e psicoanalisi[38], nonché di innumerevoli altre sfaccettature della Modernità. Movimenti che, sebbene scaturenti dall'obliterazione di concettualità proprie ad un razionalismo in piena crisi, nella loro pars construens non fecero che riproporre errori analoghi a quelli messi al bando in fase preliminare. Il surrealismo fu l'ala discendente del microbo vergine, declinazione estetica di quella sovversione che determina la dipendenza di ciò che è superiore, desto e cosciente, da un piano inferiore, caotico, femmineo e tellurico. Tutt'altre direzioni, evidentemente, imboccarono le ricerche evoliane. Queste, in sintesi, le due vie. La scelta, ascendente o discendente, andò inevitabilmente a dipendere dall'inclinazione spirituale delle singole personalità che infransero il simulacro di un Io cartesiano già votato, è bene ricordarlo, sin dal suo sorgere, alla confutazione.
         In conclusione, domandiamo se, nel caso di Evola, si possa parlare, secondo una felice formula ampiamente utilizzata, di avanguardia tradizionale. Difficile capire quanto il pensiero della Tradizione, abbracciato da Evola innumerevoli anni dopo, avesse potuto incunearsi all'interno dell'avanguardia dadaista.  Nelle intemperie legate ai primi anni della carriera evoliana è possibile intravedere, tuttavia, la fase critica e dissolvente di una iperbole esistenziale la quale, non soddisfatta del deserto che inghiotte progressivamente le Abendlandes, comprese che, in periodi discendenti, è presso fonti non avvelenate a cui occorre attingere per una rigenerazione a tutti gli effetti integrale e che sovente è necessario avvelenarsi volontariamente presso tutte le altre per riscoprirvi all'interno, quasi ex negativo, la purità originaria, trasformando, secondo un'espressione tanto cara ad Evola, il veleno in farmaco, secondo la duplice accezione greca del termine pharmakòn. Le seguenti parole di Pablo Echaurren, in merito, non abbisognano di alcun commento: "Muore Evoladada imperatore. Evola evolve orientandosi verso un compito nuovo che non abbia più un carattere puramente individuale. 1922 Evola vola via, non scrivendo più, da questo momento, nessuna poesia, non dipingendo più alcun quadro. Via verso Ur, Krur, via in cima alla Torre di segnalazione per espressioni varie ma Tradizione una [...]. Evola è consapevole non di aver toccato il fondo, ma di aver raggiunto la vetta. Decide di cambiare il sentiero della ricerca, di imboccare una strada diversa, pur restando ferma la meta, il regno, l'impero verso cui dirigersi. Quella patria che mai potrà essere invasa a cui si appartiene per una nascita diversa da quella fisica, per una dignità differente da quella di tutto il mondo e che unisce in una catena infrangibile uomini che possono pure apparire dispersi nello spazio e nel tempo. E chiamate questa terra come più vi aggrada, Aldilà Avallon Thule Graal, o altro ancora, in essa senza più fraintendimenti deve rivelarsi tutto l'incommensurabile imprigionato nel commensurabile"[39].
         Un'occasione, per molti versi unica nel suo genere, che dimostra come, anche presso le correnti più sfrenate dei tempi moderni, possa intravedersi, laddove vi sia un occhio educato a ciò, un centro immobile, in grado di sottrarre le energie creative alla caducità che imperversa nella contemporaneità. In quest'ordine di considerazioni – e questo, forse, è il lascito di più ampia portata dell'esperienza dadaista evoliana – la dignità dell'artista – ma, forse, dell'intellettuale, in genere – non risiede tanto nel suo essere originale o accattivante, secondo i dettami delle odierne industrie culturali – “il creatore del «paesaggio interiore», pensando di aver raggiunto la vetta, il punto di svolta verso una fase superiore, fa suicidare l'artista che è in lui e va oltre”[40] – quanto piuttosto, nel percorrere le linee dissolutrici del proprio tempo – zone nelle quali l'annuncio di catastrofi si fa di tragica imminenza – sino alla fine di modo che, giunto ad un punto di rottura egli comprenda che la quintessenza di ciò che usualmente vive cade nell'alterità pura di un nucleo spirituale pulsante che, sebbene strangolato dai rigidi inverni della Modernità, mai cessa di ardere.


[1]    C. Michelstaedter, La via della salute e la voce della φιλοψυχια, ne La melodia del giovane divino, a cura si S. Campailla, Adelphi, Milano, 2010, p. 109.
[2]    Mârkandeya-Purâna, XLII, 7-8, cit. in Roberto Billi, Seneca: la vita come milizia, All'Insegna del Veltro, Parma, 1987, p. 7.
[3]    Cfr. Lettere di Julius Evola a Tristan Tzara, a cura di E. Valento, Fondazione Julius Evola, Roma, 1991.
[4]    I contributi per le riviste appena citate sono ora raccolti in J. Evola, Scritti sull'arte d'avanguardia (1917-1931), a cura di E. Valento, Fondazione Julius Evola, Roma, 1994.
[5]    C. F. Carli, Evola tra futurismo e dadaismo, in Studi evoliani 1998, a cura di G. de Turris, Fondazione Julius Evola, Roma, 1999, p. 15.
[6]    J. Evola, Il cammino del cinabro, All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano, 1972, p. 17. Cfr. anche, in merito a quest'ordine di considerazioni, J. Evola, Simboli della degenerazione moderna: il Futurismo, in J. Evola, La Torre. Foglio di espressioni varie e di Tradizione una, a cura di M. Tarchi, Il Falco, Milano, 1977, 227-233.
[7]    Conferenza tenuta il 30 aprile 1921, a chiusura della mostra presso la Casa d'arte Bragaglia, ora in Julius Evola e l'arte delle avanguardie. Tra Futurismo, Dada e Alchimia, Fondazione Julius Evola, Roma, 1998, p. 79.
[8]    A. Romualdi, Julius Evola: l'uomo e l'opera, in Su Evola, a cura di G. de Turris, Fondazione Julius Evola, Roma, 1998, p. 30.
[9]    Cfr. E. Valento, Homo Faber. Julius Evola tra arte e alchimia, Fondazione Julius Evola, Roma, 1994, pp. 131-135.
[10]  Conferenza tenuta il 30 aprile 1921, a chiusura della mostra presso la Casa d'arte Bragaglia, ora in Julius Evola e l'arte delle avanguardie, cit., pp. 86-87.
[11]  J. Evola, Il dadaismo e il suo contenuto spirituale, in Ivi.
[12]  Cfr. J. Evola, Fenomenologia dell'Individuo Assoluto, a cura di G. de Turris, con un saggio introduttivo di M. Donà, Mediterranee, Roma, 2007, pp. 159-164.
[13]  Cfr. Il cammino del cinabro, cit., pp. 22-27.
[14]  Ivi, p. 24.
[15]  Queste, propriamente, le parole di Novalis che tanto affascinarono il giovane artista: "La poesia è la grande arte di costruire la sanità trascendentale. Il poeta è per questo un medico trascendentale. Il fine della poesia è l'innalzamento dell'uomo sopra se stesso". Cit. in J. Evola, Arte Astratta. Posizione teorica / 10 poemi / 4 composizioni, Collection Dada, Roma, 1920, p. 6.
[16]  J. Evola, Dada!, in Julius Evola e l'arte delle avanguardie, cit., p. 75.
[17]  Arte Astratta, cit., pp. 13-14.
[18]  Dada!, cit., p. 74.
[19]  J. Evola, Sul significato dell'arte modernissima, ne La parole obscure du paysage intérieur, Società Editrice Il Falco, Milano, 1977, p. 26.
[20]  Ivi, p. 27.
[21]  Una lettura alchemica di talune opere evoliane è stata peraltro intrapresa da Elisabetta Valento in Homo Faber, cit.
[22]  Sul significato dell'arte modernissima, cit., p. 36.
[23]  Il dadaismo e il suo contenuto spirituale, cit., p. 100.
[24]  Arte Astratta, cit., p. 6.
[25]  Ivi, p. 13.
[26]  Sul significato dell'arte modernissima, cit., p. 27.
[27]  Cfr. Il cammino del cinabro, cit., p. 15; G. F. Lami, G. Borghi, Introduzione a Julius Evola, Volpe, Roma, 1980, pp. 85-96; G. Sessa, Oltre la persuasione. Saggio su Carlo Michelstaedter, Settimo Sigillo, Roma, 2008, p. 39.
[28]  J. Evola, La parole obscure du paysage intérieur, Società Editrice Il Falco, Milano, p. 14.
[29]  Ivi, p. 22.
[30]  C. Michelstaedter, Voi vivete perchè siete nati, ne La melodia del giovane divino, cit., p. 92.
[31]  Ibidem.
[32]  Sul significato dell'arte modernissima, cit., pp. 35-36.
[33]  Arte Astratta, cit., p. 14.
[34]  J. Evola, Ricordo del dadaismo, articolo apparso sulla rivista Roma il 29/XI/1958, ora in J. Evola, I testi del Roma, a cura di V. Campagna, Edizioni di Ar, Padova, 2008, p. 397.
[35]  Ivi., p. 399.
[36]  La parole obscure du paysage intérieur, cit., p. 9.
[37]  Cfr., ad esempio, J. Evola, Il mito e l'errore dell'irrazionalismo, ne L'arco e la clava, a cura di G. de Turris, con un saggio introduttivo di G. Galli, Mediterranee, Roma, 2000.
[38]  Cfr., ad esempio, J. Evola, Libertà del sesso e libertà dal sesso, in Ivi.
[39]  P. Echaurren, Evola in Dada, Settimo Sigillo, Roma, 1994, pp. non numerate.
[40]  C. Salaris, Dal futurismo al dadaismo, in Studi Evoliani 1999, a cura di G. de Turris, Fondazione Julius Evola, Roma, 2001, p. 19.

Nessun commento:

Posta un commento