sabato 22 ottobre 2011

“Indignati” di ieri, oggi e domani - Una lettura di motti “indignati”

http://nuovaoggettivita.blogspot.com/2011/10/andrea-scarabelli-indignati-di-ieri.html

L’avventura di quelli che oggi amano definirsi “indignati” o “indignatos”, secondo un certo esotismo ispanico, non può che suggerire qualche riflessione a chi sia intenzionato a diagnosticare i mali del proprio presente in maniera più autentica.
Un movimento di questo tipo, il quale – nonostante l’indubbia provenienza e lo spessore politico – ama definirsi apolitico o postpolitico ha dei precedenti, numerosi precedenti, nonostante lo ignori risolutamente, pretendendo di monopolizzare la critiche ad un modus vivendi inevitabilmente suicida.
Ciò che vogliamo mettere a fuoco è che le critiche mosse dagli “indignati” al sistema che impera nel presente non sono di certo scorrette. Le tematiche delle loro lotte – la globalizzazione, l’impero finanziario, la congiura bancaria – sono di una attualità sconcertante. Ciò che manca a detti contestatori della prima ora è, piuttosto, una salda visione del mondo da contrapporre a quella posta sotto il fuoco della loro critica (e delle bottiglie incendiarie dei loro scomodi ospiti vestiti di nero – capri espiatori sacrificati ogniqualvolta la situazione si fa rovente).
A differenza di quanto fatto da altri, non criticheremo in questa sede il modus operandi di detti movimenti – il quale è già sotto gli occhi di tutti – per non incorrere nelle solite faccende di infiltrazioni ad opera di Stato, polizia, governo e via dicendo.
Ci limiteremo, invece, rinviando la discussione sulle tematiche poc’anzi accennate ad altra sede, ad indicare a questi imbronciati taluni pensatori che ne anticiparono le istanze polemiche. Pensatori che, a causa della componente pregiudiziale del loro nome – che gli “indignati” di oggi conoscono piuttosto bene – di certo non verranno riconosciuti da questi ultimi quali loro progenitori ideali. Ma questo poco importa. Le loro sentenze rimangono, assieme alle loro motivazioni. E questo basta a rivelare il carattere parodistico dei motti che animano le ribellioni disordinate ed anarcoidi di oggi.
Prendiamo spunto, per compiere questa disanima, da una serie di manifesti manoscritti apparsi in piazza Duomo a Milano in data 15 ottobre 2011. Lungi dal considerare queste nostre parole in maniera scientifica, le si valuti alla stregua di un divertissement da fine di un’epoca.
Di questi motti, che tappezzano la piazza, ne abbiamo scelti alcuni, piuttosto incisivi, per dimostrare quanto le idee siano più fluide e versatili degli uomini – o meglio, di certi uomini. Vorremmo tentare di confrontarli con altri un po’ più datate, per dimostrare – anche se questa comparazione non sarà gradita agli “indignati” di oggi – non solo quanto scarsa sia l’originalità che lorsignori rivendicano nelle loro battaglie ma anche e soprattutto che dette polemiche non hanno senso se sprovviste di una pars construens, di una visione del mondo adatta ai tempi.
Cominciamo. In piazza Duomo, il 15 ottobre è apparso il seguente motto: “Il problema sono le banche” “Perché c’è la crisi? Perché le banche lasciano (sic!) moneta a debito ai governi!! E vi pare che i soldi possono (sic!) girare?” A parte la sua agghiacciante formulazione grammaticale, il pensiero dispone di una sua verità. Verità, tuttavia, che non fu estranea ad un intellettuale – che tornerà ancora nel presente scritto – come l’economista eretico Ezra Pound, che, nel 1944, ebbe a scrivere: “Nel 1939 il popolo americano non aveva appreso la lezione della storia americana, tanto meno quella della storia mondiale: è idiota lasciare il portafoglio della nazione nelle mani di privati irresponsabili, e forse estranei; è idiota lasciare le fonti d’informazione della nazione nelle mani di privati irresponsabili, e qualche volta stranieri. La rovina ha radice nella brama di lucro che si stacca da ogni sanità e da ogni misura, ciecamente disfacendo il suo proprio scopo” (E. Pound, Introduzione alla natura economica degli S. U. A., in Lavoro e usura, prefazione di P. Savona, All’insegna del pesce d’oro, Milano, 1996, p. 108). La conoscenza di questo passo forse avrebbe aiutato il nostro “indignato” di oggi – quanto meno, nella formulazione sintattica del suo motto – a donare maggior consistenza al suo pensiero. Il motivo è evidente: il frammento poundiano è preceduto da una accurata dimostrazione la quale, nel pensiero di questi modernissimi contestatori, viene a mancare.
Altrove, in piazza Duomo, spiccano due altri messaggi: “Sovranità monetaria” e “Rivogliamo la sovranità monetaria!”. Belle parole, certamente, ancora tuttavia “scippate” – tra gli altri, tra i numerosissimi altri – al poeta americano che, nel 1935/Anno XIII, nel suo pamphlet su Jefferson e Mussolini, dichiarava: “Nel 1813 [Jefferson] esprime chiaramente a Eppes che la nazione dovrebbe possedere in proprio la carta moneta e condanna l’abuso di quegli stati che ne cedono la proprietà alle banche private (…). «Nessuno possiede un diritto innato alla funzione di prestatore di moneta, tranne chi ha denaro da prestare». Così ovvio, così semplice, così prevedibile anche dal lettore profano, da rappresentare anche oggi un reale stato di fatto, e nello stesso tempo un impedimento così rovinoso per le illecite pratiche bancarie come è abituale in tutto l’arco della nostra vita presente (E. Pound, Jefferson e/o Mussolini, traduzione di L. Gallesi, Il Falco, Milano, 1981, p. 134). Presta chi ha da prestare. Di certo non la banca, che crea moneta ad interesse dal nulla. Chissà se questi ribelli di oggi hanno la consapevolezza che le loro stesse idee furono difese – peraltro, con tenacia ed insistenza assai maggiore – da uno degli intellettuali censurati da taluni dei loro fratelli maggiori, che li seguono in maniera più o meno nascosta?
Un altro manifesto reca il motto: “Stato di Diritto… Diritto allo Stato!” Buone intuizioni, certo, che furono già care al nostro Pound, secondo il quale, “lo stato può prestare” (Oro e lavoro, in Lavoro e usura, cit., p. 40), non rendendosi necessario il ricorso alle banche. D’altra parte, ricorda sempre il poeta, “una nazione che non vuole indebitarsi fa rabbia agli usurai” (L’America, Roosevelt e le cause della guerra presente, in Lavoro e usura, cit., p. 78). Peccato che gli indignati di oggi nulla sappiano di queste considerazioni – eppure, grande è il giovamento che potrebbero trarne.
Proseguiamo. Sul famigerato muro può inoltre leggersi: “Basta con l’usurocrazia bancaria” (accostata, per una oscura consonanza, al motto: “Non si bestemmia abbastanza”!). Qual è il problema della banca? È ancora Pound a risponderci: “La banca trae beneficio dell’interesse su tutto il denaro che crea dal niente” (Oro e lavoro, cit., p. 32). Robert Heinlein, in uno dei suoi due romanzi ispirati al Credito Sociale, tematica ripresa oggi da talune organizzazioni di Destra e pertanto odiata dai nostri “apolitici” “indignati”, scriveva in proposito: “Alle banche non doveva essere affatto permesso di creare denaro, poiché esse, di necessità, sono interessate soltanto ai profitti. Inflazioneranno o deflazioneranno la valuta per fare profitti, senza riguardi per i bisogni monetari della nazione” (A noi vivi, in Urania, n. 1505, dicembre 2005, p. 193). Forse gli “indignatos”, appassionati di pamphlets e di frase lapidarie, non amano la fantascienza. Tanto peggio per loro.
Il termine usurocrazia peraltro è suggestivo e forse risveglia alcunché anche in questi moderni partigiani. Peccato la sua origine sia molto più antica del 15 ottobre 2011. Dato che stiamo parlando di Pound, ricordare sue asserzioni contestuali potrebbe essere utile. “Si perde tempo parlando di questa o di quell’altra «nazione» democratica. Il vero governo stava, e sta ancora, dietro le quinte. Il sistema democratico è di questa natura: due o più partiti si presentano al pubblico, tutti al comando dell’usurocrazia” (E. Pound, L’America, Roosevelt e le cause della guerra presente, cit., p. 82). Successivamente, Pound chiarisce il significato del termine usato, definendo “l’usurocrazia mondiale (…) la congregazione dell’alta finanza” (Ivi., p. 83). Evidentemente, le discussioni tra politica ed usurocrazia han radici ben più profonde di quanto i nostri imbronciati non credano.
Proseguendo nella lettura di queste frasi velenose, ne salta all’occhio una, piuttosto incisiva: “Chi valuta non viene valutato… I soldi non sono merci La valuta è unità di misura come il metro, litro…”. Essa merita un’analisi ed un confronto più attenti. Il motto si articola in due parti. Nella prima, si fa riferimento ad uno dei problemi più ingombranti del capitalismo, ossia di quale autorità debbano disporre i cosiddetti “controllori dei controllori”. Che poi è il tallone di Achille di ogni ordinamento democratico, come ci ricorda Pound: “Il problema della democrazia è di sapere se il suo conseguente sistema, il suo sistema de jure, possa essere fatto funzionare da uomini di buona volontà; se le questioni reali, che non siano semplici pretesti, POSSANO essere affrontate da corpi legislativi (Camera e Senato) e se una parte sufficientemente attiva della popolazione possa ancor venir persuasa a unirsi e costringere i delegati da lei eletti ad agire correttamente e anche in modo moderatamente intelligente” (E. Pound, Jefferson e/o Mussolini, cit., p. 119). In merito, invece, alla seconda parte della asserzione, è bene ricordare che il Maggiore Douglas sottolineò, con notevole anticipo “che il denaro non ha alcuna realtà intrinseca. Che in sé può essere oro, o argento, rame, carta, conchiglie oppure cocci di tazze da tè. La cosa che lo rende denaro, di qualsiasi cosa sia fatto, è puramente psicologica, e di conseguenza non c’è limite alla quantità totale di denaro, tranne che un limite psicologico” (C. H. Douglas, I principi del credito sociale, in A. R. Orage, Il lavoro debilita l’uomo. Scritti e discorsi a favore del tempo libero, a cura di L. Gallesi, Greco & Greco, Milano, 2008, pp. 82-83). Peccato che oggi Douglas sia letto in taluni movimenti antagonisti che nulla hanno a che vedere con questi “indignati” e che, pertanto, questi ultimi interdicano a se stessi la sua lettura. Per poi “scipparne” le idee. Contestualmente alla natura del denaro, Pound avanza una proposta, decisamente originale e spaventosamente attuale: “Se il denaro sarà concepito come certificato di lavoro compiuto, non ci sarà più bisogno di tasse. Il lavoro fatto per lo stato verrà remunerato con un certificato statale, emesso direttamente, senza che nessuno vada a mendicare per averlo da questo o da quello per pagarlo poi a tizio e a caio” (Jefferson e/o Mussolini, cit., p. 95).
Terminiamo qui la lettura di questi manifesti con qualche osservazione – da intendersi come proposta di lavoro, la questione essendo evidentemente tutt’altro che risolvibile in un breve intervento. Ci rifacciamo ancora a Pound, in merito alla necessità che i domini dell’economia siano sottoposti a una dimensione etica: “senza un’etica salda non si farà economia né sana né scientifica. Considerare soltanto il puro dinamismo senza tener conto dello «scopo» di una politica monetaria, condurrebbe al caos” (E. Pound, L’economia ortologica, in Lavoro e usura, cit., p. 142). Evidentemente, nulla ha scoperto chi pretende di monopolizzare una eticizzazione del sistema. Forse questi “indignati” dovrebbero leggere qualche libro in più. O forse, in maniera meno faziosa.
Se questi giovani affrontassero con meno componenti pregiudiziali la storia delle idee degli ultimi due secoli, scoprirebbero che, assieme a loro, vi furono molti altri “indignati”, intellettuali che anticiparono notevolmente quelle loro critiche che oggi intasano i telegiornali, scatenando ondate di ammirazione o sdegno, amministrate in prima serata. Scopriranno numerosi altri “indignati”, come Spengler che, in un discorso del 1926, dichiarò: “Ho sempre ripetuto che la politica e l’economia sono due diversi àmbiti della vita, del pensiero e dell’azione dell’uomo, ma, proprio in quanto parti della stessa vita, non possono essere separate l’una dall’altra; ho sempre ripetuto che alla politica va indiscutibilmente la precedenza, e che qualsiasi vita economica priva di una giusta guida politica del Paese è destinata alla rovina. Questo è ciò che l’orgoglio del dirigente economico non vuole accettare. Egli nutre l’accentuata tendenza a rifiutare l’operato e il modo di agire del politico come dettati da eccessiva arroganza e nocività, per poi chiamare immediatamente in soccorso la politica quando e fintanto che crede di poterla usare per i propri interessi (…). Anche se oggi questa è la regola in tutto il mondo, si tratta ugualmente di un atteggiamento meschino, superficiale e sbagliato, che diventa una sciagura quando la politica stessa è debole e malata, priva di fini propri e senza orgoglio, esposta così agli interventi dell’economia, concepiti in modo disordinato, estemporaneo, e privo di lungimiranza. La vita economica di una nazione necessita di una guida politica sempre sovraordinata, non di una politica subordinata e accondiscendente” (L’attuale rapporto tra l’economia mondiale e la politica mondiale, in Forme della politica mondiale, a cura di C. Sandrelli, Ar, Padova, 1994, pp. 79-80). Scopriranno anche che l’Evola che essi nemmeno considerano degno di attenzione, in obbedienza ad una sovrastruttura paraideologica di cui mai avrebbero il coraggio di ribellarsi, ebbe a scrivere, negli anni Cinquanta: “Un intervento politico è indispensabile. Le premesse fondamentali sono queste due: Lo Stato, incarnazione di una idea e di un potere, è una realtà sopraelevata rispetto al mondo dell’economia – in secondo luogo: all’istanza politica spetta il primato rispetto a quella economica e, si può aggiungere, economico-sociale” (Gli uomini e le rovine, a cura di G. de Turris, Mediterranee, Roma, 2001, p. 167).
Forse gli “indignati” di oggi rimarranno delusi ma si tratta di idee molto antiche, che riemergono talvolta nelle occasioni – e nelle persone – più imprevedibili. Non vogliamo assolutamente dire, con questo, che gli “indignati” di ieri – tra i quali possiamo annoverare, oltre a quelli citati, Jünger, Nietzsche, Klages, Simmel, Sombart e molti altri – avrebbero in alcun modo riconosciuto anche solo la legittimità di eventi quali quelli verificatisi negli ultimi giorni. Essi avrebbero intravisto in quegli atti e nelle scritte menzionate in precedenza gli ultimi spasmi di un sistema alla fine. Avrebbero intravisto in questi ribelli dei meri prodotti di quello stesso sistema posto da essi sotto processo. Questo e nulla di più.
Non è un caso che gli “indignati” di oggi abbiano una memoria piuttosto corta e si dimentichino sistematicamente di ricordare i loro precedenti. Ciò che gli “indignatos” di ieri avevano, per combattere le loro battaglie ideologiche, era una solida visione del mondo, una persuasione politica ed uno spessore esistenziale. Elementi che, negli attuali contestatori, paiono mancare nel modo più assoluto.

Andrea Scarabelli

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