venerdì 21 ottobre 2011

Italianità, Romanità e Risorgimento

Attualità e inattualità della filosofia del Risorgimento.
Italianità, Romanità e Risorgimento.

(Relazione tenuta a San Fedele Intelvi il 14/VII/2011)

di Andrea Scarabelli

Buonasera a tutti. Innanzitutto voglio ringraziare tutti voi per aver preso parte, oggi, a questo piccolo simposio di storia e cultura, a proposito delle radici spirituali, politiche e teoriche del nostro paese. Ringrazio, in particolare, il Comune di San Fedele Intelvi, nella persona dell’assessore Andreetti, per la promozione di iniziative di questa sorta, e Rita, per avere voluto questo piccolo intervento, a chiosa della sua relazione sulla filosofia del Risorgimento.
Una chiosa piuttosto critica, anzitutto. E ciò, in relazione alla tematica trattata, nella sua interezza.
In questi pochi minuti, cercherò di tematizzare due questioni, a mio parere fondamentali. Vi proporrò, insomma, due domande:
- Esistono autori che guardarono al Risorgimento, in maniera critica? Senza demonizzarlo, ovviamente, ma relativizzandone la portata? Autori, intellettuali, la cui portata spirituale esuli da quella vulgata che vede nel Risorgimento alcunché da demonizzare, sic et simpliciter?
- Qual è il retaggio dell'apparato ideologico risorgimentale? Il compito del Risorgimento può dirsi espletato? O forse le sue proposte rimangono, oggi come oggi, una eredità ancora da realizzare, da completare?
Questi i quesiti. Il primo di essi sminuisce il senso ultrapopulista che è stato assegnato al Risorgimento oggi. Il secondo, tenta di rifondare i concetti risorgimentali in un senso superiore, potremmo dire, quasi metastorico. L’uno distrugge. L’altro ricrea. Cominciamo dal primo.
Con una premessa, apparentemente poco pertinente al soggetto trattato.
Voglio spiegarvi, in breve, cos'è un riflesso condizionato. Per risparmiarvi il solito esempio del cane di Pavlov, vi parlerò invece della mia gatta. Essa è abituata a mangiare secondo un programma piuttosto definito. A una certa ora del giorno, prendo una scatola di croccantini e questa gatta, non appena sente il rumore del cibo che sbatte contro le pareti della scatola, si avvicina. Sa, insomma, che dovrà mangiare. Ovviamente, non è il rumore dei croccantini a causare la sua fame. Semplicemente accade che, non appena avverte questo rumore, un qualcosa le dice che la cena è pronta. Questo è un caso di riflesso condizionato. Il rumore dei croccantini va a condizionare la sua fame. Non appena avverte il suo rumore, si lecca i baffi.
Perché questa premessa? Perché ciò che accade nel panorama culturale odierno somiglia molto al caso appena accennato. Nel mondo giornalistico, pubblicistico, televisivo, vi sono talune parole chiave, parole d’ordine, che, non appena pronunciate, causano ondate di assensi o dissensi. Queste parole, impugnate dagli uomini che vorrebbero dirsi di cultura, sono micidiali. Qualche esempio. Se, durante un dibattito in un talk show uno dei dialoganti comincia a sostenere la causa della libertà della cultura, spesso senza nemmeno sapere che cosa essa denoti nello specifico, egli diviene inattaccabile. Non si può mettere in discussione ciò che dice. Farlo, equivale ad essere tacciati di reazione, conservatorismo e altre cose. Chi osa mettere in questione la libertà – termine, oggi, tanto abusato quanto misconosciuto – diviene l’imputato di un processo che non potrà mai vincere.
Un altro esempio ancora. Si va blaterando di egalité, égalitarismo, uguaglianza e via dicendo. Sollevare l’obiezione secondo la quale gli uomini sono diversi tra di loro e che un sistema che si basa su un modello elettorale che rende tutti i votanti UGUALI, a prescindere dalle loro differenze QUALITATIVE, è destinato al fallimento, oggi come oggi, è minare la propria carriera, quella dei propri figli e dei propri nipoti. Sostenere la NATURALE E INELIMINABILE DISEGUAGLIANZA degli uomini equivale a mettersi contro tutti, a venire dipinti come pseudofascisti, reazionari e via dicendo.
Eguaglianza. Libertà. Due sostantivi che, appena evocati polemicamente, scatenano una serie di reazioni a catena, che portano a diffide giornalistiche, accuse kulturali e via dicendo. Come la mia gatta reagisce NON APPENA avverte il rumore dei croccantini, legioni di opinionisti e critici sono pronti a mobilitarsi ed azzannare quei pochi che oggi osano mettere in discussione queste parole calde.
Perché parlare di riflessi condizionati in un incontro dedicato al Risorgimento? Perché esso, soprattutto nell’ultimo anno, per le ragioni che conosciamo tutti molto bene, è diventato un’altra parola d’ordine. Le reazioni sono tuttavia contrastanti. Da un lato, si osannano i fatti accaduti in quel periodo storico in maniera acritica, con ondate di tesseramenti ideologici improvvisi. Dall’altra, tutto ciò che è pertinente alla sfera in questione viene sommariamente demonizzato, da parte di nuovi partigianeschi libertari, che vedono in esso echi nazionalistici e patriottardi. Certo, parlo ovviamente della mia disgraziatissima generazione. Il motto è NON DUBITARE MAI, COMUNQUE E IN NESSUN CASO, DEL RISORGIMENTO oppure DEMONIZZARLO, PARODIARLO, SBEFFEGGIARLO. Confrontarsi con esso, con le sue figure ideologiche, filosofiche e spirituali, mai.
E invece, per un certo gusto della polemica che mi piace promuovere, in questi venti minuti proprio di questo parleremo. Tra le iniziative promosse contestualmente al centocinquantesimo, a mio parere, una è da segnalarsi in particolare. Quella organizzata dall’amico e studioso di esoterismo e saperi tradizionali Massimo Rizzardini. Trattasi di una serie di conferenze tenutasi presso il milanese Museo del Risorgimento, dedicata ai rapporti tra Risorgimento e Massoneria. Credo sia molto significativo. Nell’anno di simili celebrazioni, in un luogo del genere – nella tana del lupo, potremmo dire – qualcuno ha messo in dubbio la santità del secolo in questione, in maniera critica ed intelligente. È indice di coraggio, non c’è dubbio. Ma torniamo a noi, alla pars denstruens del nostro intervento.
Ci gioveremo delle riflessioni di un intellettuale che è stato definito da Franco Volpi, scomparso tragicamente l’anno scorso, il filosofo italiano più importante del Novecento, assieme a Croce e Gentile. Ora, il problema di questo pensatore è che, nella sua lunghissima carriera, che spazia dall’arte d’avanguardia all’esoterismo, dalla filosofia della storia al tradizionalismo, egli ha infranto numerose delle parole d’ordine di cui si parlava prima. Per cui, tuttora, risulta più o meno sconosciuto dalle cricche intellettualoidi della cultura peninsulare. Ma questa è un’altra faccenda.
Tra quei termini, giudicati non passibili di messa in discussione, spicca il Risorgimento, che viene esaminato e criticato da questo filosofo, in quanto prodotto del pensiero moderno. Secondo lui, il frutto del Risorgimento si colloca sullo stesso ramo che ospita nazionalismi, comunismi, capitalismi e via dicendo. Non è che un sintomo di un’unica sovversione che, annichilendo l’ecumene medioevale – il cui ghibellinismo auspicato si colora di certe tonalità imperiali – genera gli Stati nazionali per favorirne la scomparsa nella creazione dei nuovi imperi, marcati dalla stella rossa e dalla stella bianca. Ecco quanto osserva Julius Evola, all’inizio degli anni Cinquanta, ne Gli uomini e le rovine:
“Passando al terzo punto, al Risorgimento, è a tale riguardo che si sono applicate e che si applicano con particolare virulenza le interpretazioni tendenziose della storiografia d’ispirazione massonica intesa a coprire con l’alibi di un patriottismo generico e retorico le idee ad essa care. Nel Risorgimento bisogna bene distinguere il suo aspetto di movimento nazionale dal suo aspetto ideologico. Al Risorgimento si deve l’unità dell’Italia, e qui non si pensa a fare il processo agli uomini e ai movimenti a cui, grazie ad un insieme abbastanza complesso di circostanze, l’Italia dovette la sua unificazione e la sua indipendenza politica. Le cose però cambiano, e molto, quando si considerino le idee principali in funzione delle quali tutto ciò fu realizzato (scartando, fra l’altro, una soluzione federalistico-legittimista come quella con cui Bismarck costruì il Reich tedesco) e che continuarono a predominare nella vita politica italiana sino al periodo del fascismo. Da questo secondo punto di vista il Risorgimento non fu un movimento nazionale che per accidente; esso rientrò nei moti rivoluzionari determinatisi in tutto un gruppo di Stati in conseguenza dell’importazione delle idee della rivoluzione giacobina.” (J. Evola, Gli uomini e le rovine e Orientamenti, a cura di G. de Turris, con un saggio introduttivo di A. de Benoist, Mediterranee, Roma, 2002, p. 131)
Lo stesso poi, a ben vedere, capitò durante e dopo la “resistenza”, nella quale quegli ideali deputati a liberare l’Italia, in luogo di lasciare il posto ad un progetto di nuova ricostruzione, continuarono – e continuano, tuttora – ad infestare la cultura della nuova Italia. Le idee di personaggi quali Piero Operti, contestualmente a ciò, sono assai significative.
Così continua Evola, evidenziano queste considerazioni:
“Le ideologie prese in prestito per unificare l’Italia non furono affatto liquidate dopo che esse avevano assolto la loro funzione: esse continuarono a predominare nell’Italia, unificata mediante una politica che oggi si chiamerebbe di «possibilismo», senza che al nuovo Stato corrispondesse una idea propria, un simbolo sopraelevato, una forza formatrice” (Ivi., p.132)
Il Risorgimento si risolve, pertanto, in una sfaccettatura di un movimento molto più ampio, di ascendenza giacobina. Le sue radici spirituali sono le stesse che mossero la Rivoluzione Francese – a detta di Evola, una delle tappe fondamentale di un’azione disgregatrice e antitradizionale. Pertanto, il Nostro conclude:
“Si vede a che si riduce la «tradizione» del Risorgimento. A prescindere dalla tesi assurda della sua continuità con lo spirito che già avrebbe animato la Lega dei Comuni italiani nel Medioevo, non si vede dove consista il suo carattere «italiano»; a volere porre la quistione nazionale, si tratta, se mai, ideologicamente, di tendenze la cui origine è gallica, francese, e che in un secondo tempo caratterizzarono un fronte rivoluzionario internazionale […]. Anche nel Risorgimento è in gran parte contro un principio, contro una idea politica e sociale che dunque si è lottato, pur invocando la nazione.” (Ibidem.)
Simili riflessioni evoliane sono, d’altra parte, molto vecchie. Già in tempi non sospetti, precisamente nel 1930, Evola scriveva, nella rubrica “L’Arco e la Clava” della rivista “La Torre”, che venne chiusa a seguito di numerosi attacchi subiti da squadristi:
“«Fede e Ragione» – un periodico cattolico toscano di una divertente e permanente bellicosità – se l’è presa col «Corriere Padano» (n. 52 del 1929) a proposito di Mazzini e del «Risorgimento Italiano» dice diverse cosette, che sono giuste. È difatti proprio a una certa sinistra ideologia politica confondere, pour cause, elementi che vanno ben distinti. I meriti patriottici sono una cosa e se si vuole, una bella cosa; ma ciò che è dottrina, e tradizione di dottrina, e difesa di dottrina sono un’altra cosa a cui la prima non può costituire nessuna cauzione. Nel nostro caso, tutto quel che l’Italia deve ai fattori del Risorgimento, non può far sì che il giudizio sia meno severo nei riguardi delle ideologie cui spesso si associò, ideologie sospette quanto mai, infette di massoneria, di umanitarismo protestantico, di demagogia antimonarchica e repubblicana, di una pseudoreligiosità degradata a musica del «popolo». E ciò è bene che sia detto con chiare parole, perché oggi non manca chi giuoca appunto al «mito» del «Risorgimento italiano», e pretendendo che il fascismo ne continui la «tradizione», tenta di valorizzarlo altrimenti che per i suoi semplici meriti politici, riesumando nella persona di un Mazzini, di un Gioberti o di qualcun altro pensatore di secondo ordine, preso molto più dal «profano» che dal «sacro», dottrine quanto mai antitradizionali e anti-imperiali. «Fede e Ragione», come è naturale, fa la mise au point ai servigi del cattolicesimo militante e contro l’idea patriottica che si nutrì d’odio verso quest’ultimo. E per conto nostro come sapremmo non dargli ragione fino a che l’unico anticattolicesimo che si sappia professare è quello che mette mano a simili appigli, e che con gli espedienti della critica profana e dello «stato etico» si riduce, in ultima analisi, a una rivolta del temporale contro lo spirituale?” (La Torre, N. I, 1 febbraio 1930)
Evola denunciò, dunque, nel corso di tutta la sua carriera, le intersezioni tra Risorgimento e un certo tipo di massoneria. Notizie ormai note, certo, ma che allora gli valsero una lunga serie di diffide nonché, cosa deplorevole, una serie di attacchi, prima dai fascisti e poi dagli antifascisti “liberati”.
Ma vi è un altro punto da sottolineare. Il culto del Risorgimento va a coniugarsi con quello della nazione. MA è importante anche chiedersi: in nome di cosa una nazione può definirsi tale? In nome di cosa l’Italia può essere inscritti nei domini concettuali nazionali? E l’Europa? Oggi essa non è che una definizione meramente economica. Ma può un paese essere costruito in base a ragioni di esclusivo ordine economico? QUESTE le definizioni che oggi occorre discutere oggi. Come scrisse Spengler, LE NAZIONI SONO IDEE SENZA PAROLE. Forme che appaiono, sbocciano come fiori nei campi e scompaiono, in una magnifica assenza di fini. Fiori nei campi dotati di un DESTINO, questo il tratto discriminante.
Secondo Evola, il nazionalismo non è da rigettarsi. Al contrario, è bene che esso sia dotato di una dimensione superiore. Un nazionalismo metafisico e metastorico, che si carichi di una dimensione superiore alla storia e agli uomini. Certo, quella sul Risorgimento è una interpretazione che ha i suoi limiti, dicevo, come già, peraltro, sostenne il discepolo di Evola, Adriano Romualdi, nel suo studio dedicato al filosofo romano, ma che può spingere la riflessione verso un’altra sfaccettatura della questione, la seconda che ci siamo promessi di discutere.
Ossia, come si diceva, il senso e l’entità dell’eredità che il Risorgimento ha lasciato a noi, Italiani del Terzo Millennio. Siamo soliti pensare ai fatti storici come appartenenti al passato, come inscriventisi all’interno dell’orizzonte del “ciò che non ci riguarda più”. O meglio, non direttamente. Cioè, voglio dire: il Risorgimento è accaduto, ha causato altre vicende che, a loro volta, ne hanno generate altre ancora, e via dicendo. Noi non siamo che effetti, dunque, secondo questa idea di storia. Ma, per le idee, la faccenda è assai diversa. Le idee riposano, serpeggiano carsicamente per poi destarsi e divenire fenomeni. Le idee seguono gli uomini discretamente. Appaiono, di tanto in tanto, nelle saghe, nei miti, nei racconti e si rituffano nell’indistinto, nel notturno, per poi incendiare nuove aurore, nuove civiltà. Nessun uomo è CREATORE di un’IDEA. Sono le idee, al contrario a regolare la storia. LE IDEE SONO I MOTORI IMMOBILI DELLA STORIA, gli uomini, comparse. Ma comparse NECESSARIE.
Bene. Il Risorgimento reca un’idea. Questa idea DEVE ANCORA ESSERE REALIZZATA NELLA SUA TOTALITA’. Le manifestazioni che hanno accompagnato il centocinquantesimo compleanno del nostro paese, se da una parte sono il giusto omaggio di un paese che l’altro ieri ha conosciuto l’indipendenza – sull’unità, forse c’è qualche dubbio, ma su questo ritorneremo – dall’altra esprime e rivela una SCISSIONE, una frattura, tra quei valori che i nostri avi professarono e il nostro presente.
È bene riflettere su ciò. Noi possiamo atteggiarci in due modi rispetto al risorgimento e alla storia dell’Italia. Nell’Annus Domini 2011, Annus Italiae 150, noi possiamo limitarci ricordare ciò che capitò un secolo e mezzo fa oppure festeggiare un compleanno. Nel primo caso, celebriamo il passato, ciò che è stato, ciò che tutti sappiamo essere stato. I festeggiamenti sono equivalenti a quelli per Sant’Andrea, il 30 Novembre, o per la festa della Repubblica (public conveniance), il 2 giugno.
Ma qui la faccenda è diversa, RADICALMENTE diversa. Qui non festeggiamo ciò che accadde centocinquanta anni fa ma il centocinquantesimo compleanno d’Italia. Qui non si celebra il passato ma il presente. E cominciano i problemi. Il ricordo della causa risorgimentale non può che portarsi dietro una critica immediata di ciò che siamo, o, almeno, di ciò che siamo diventati. E c’è, a mio parere, su questo frangente, ben poco da festeggiare.
COERENZA, anzitutto. Ha senso festeggiare il centocinquantesimo anno di una Italia UNA e INDIPENDENTE? Ha senso festeggiare una Italia INDIPENDENTE laddove essa è al soldo dell’impianto bancario e usuraio internazionale, costretta a mutare il proprio ordinamento ogni volta che l’economia, spietata matrona, lo richiede? Ha senso festeggiare l’indipendenza dell’Italia in una situazione come questa?
Per poi non parlare della sua UNITA’. Non voglio offendere nessuno, ma qualunque persona di buon senso capirà che NON ha alcun significato festeggiare una UNITA’ che non c’è, se non su qualche cartina geografica. Vi è una contraddizione profonda nel fatto che – A. D. 2011, A. I. 150 – viene celebrata l’unità del nostro Paese e, al contempo, le fazioni politiche che salgono al potere sono costrette, dalla perversione democratica, ad allearsi con talune frange ideologiche che negano risolutamente l’unità politica e tradizionale del nostro paese, sostenendo, in sua vece, mistiche da trenta denari che vedono il destino dei popoli nell’occlusione dello sguardo alla propria piccola realtà, al proprio piccolo orto, alla propria piccola comunità, nel totale disinteresse dei propri connazionali.
Non uso casualmente la parola tradizionale. L’unità dell’Italia, delle regioni e via dicendo non si misura con i dialetti o i piatti tipici ma con lo spirito che percorre il nostro paese e che sbocciò in personalità come Dante, autore del De Monarchia, che se vedesse l’Italia di oggi probabilmente richiederebbe la cittadinanza svizzera. Sul patrimonio tradizionale italiano occorre costruire l’Italia, NON muovendo dalle miopie dei particolarismi o dei regionalismi. QUESTO andrebbe insegnato a coloro che proclamano sacra la memoria del Risorgimento. Non si può, comunque e in nessun modo, scendere a patti con detti movimenti. Riconoscerne la legalità o semplicemente tollerarne l’esistenza è negare la missione dei nostri padri, il loro sangue, la loro promessa.
Quale Risorgimento, dunque, con questi signori a Roma – ancora per poco, a detta loro? Quale celebrazione, quale identità?
Tuttavia, è anche chiaro che una ricerca di questo tipo non può assolutamente fermarsi a simile ostacolo. Certo, è vero che il modo che il nostro presente utilizza per trattare il Risorgimento è inadeguato, passatista, e, in certa misura, incapacitante. Ma non è sufficiente fermarsi a questo punto. La posta in gioco che richiede il nostro paese è molto alta. E vale la pena di scommetterci su, è garantito.
Non è sufficiente criticare i volti di coloro che, in modo assolutamente acritico, si sono allineati dietro ai tricolori, per dimenticarseli il giorno dopo, destinandoli ad attività molto meno nobili. Occorre gettare delle basi per colmare quel vuoto che oggi è percepibile come piombo intorno a noi. Perché se questi maestri del regionalismo vanno espandendo la loro popolarità, ciò accade perché un vuoto destinale c’è. E riconoscerne la portata è il primo passo per colmarlo.
La crisi che attraversa l’Italia, prima di essere culturale, economica e via dicendo, è di tipo spirituale. Alla mancanza di un mito nazionale le nuove generazioni rispondono con la ricerca di religiosità esotiche, che nulla hanno a che vedere con quello che è il nostro passato, la nostra tradizione. Che occorre fare? Nulla, se non salvare il disorientamento dell’Italia con strumenti ad essa – e solo ad essa – peculiari. Di che si tratta?
Per rispondere a questa domanda, faremo riferimento ad un articolino molto interessante, uscito su “Il Foglio” del 26/XI/2011 e composto da Sandro Consolato, dal titolo assai eloquente: “Perché Risorgimento è diventato una parola malata”. In esso, si discutono le ragioni che hanno portato il giovanissimo popolo italiano a prendere le distanze dal Risorgimento. Si fa riferimento, in particolare, al rapporto che intercorre tra Italianità, l’oblio della Romanità e l’antirisorgimento. Credo valga la pena di citare qualche passaggio da questo articolo, molto illuminante.
Anzitutto, si fa riferimento, in esso, alle altre due celebrazioni dell’unità d’Italia, rispettivamente per il cinquantesimo e il centesimo compleanno del Nostro paese. Per la prima di queste ricorrenze:
“Si trattò di festeggiamenti solenni, cui diedero il loro contributo letterati e artisti come Pascoli e De Amicis, De Carolis e Cambellotti. Fu grandemente valorizzato, nei discorsi, nei testi e nelle immagini, il valore originario e originante per la civiltà e l’Unità degli italiani, di Roma caput mundi e caput Italiae. Che l’Italia avesse anche una dimensione culturale plurale non si mancò di sottolinearlo, attraverso l’Esposizione etnografica delle regioni, inaugurata però significativamente il 21 aprile, dies natalis Romae, onde segnalare che la Romanitas non annulla, ma unisce, esalta e proietta su un piano superiore le componenti etniche e culturali di una storia svoltasi in una moltitudine di secoli sul nostro spazio geografico peninsulare e insulare”.
Per il festeggiamento del centesimo anno dell’Unità d’Italia qualcosa sembra mutare:
“Nel 1961 i richiami a Roma antica furono messi in sordina: gli italiani avevano paura a rievocare, con l’Italia, il nome di Roma, onnipresente negli anni del Fascismo: a piazzale Loreto, in mano al Duce scempiato, avevano posto un’asta di bandiera culminante nel gladio e nell’alloro. Quegli emblemi, come lo stesso fascio littorio con l’aquila, avevano dietro una lunga e nobile storia: la Repubblica degli Scipioni, ma anche quella di Mazzini e Mameli. Ora divenivano sempre più imbarazzanti. Da nascondere sotto terra, assieme al corpo deturpato del Cola di Rienzo del Novecento”.
Il richiamo al fascismo non è episodico. Consolato cita, nel suo articolo, le parole di Sergio Romano, che nel suo Vademecum di Storia dell’Italia unita, ebbe a scrivere:
 “Con il fascismo, in tal modo, venne gettato via quasi tutto il Risorgimento, sopravvisse invece l’anti Risorgimento, vale a dire la ‘guerra del brigantaggio’, le lotte operaie, le insurrezioni e le rivolte sociali, anche quando erano soltanto jacqueries di plebi incolte e superstiziose. Il risultato fu un progressivo sovvertimento del calendario della Nazione. Anziché commemorare i suoi successi, il paese cominciò a celebrare le sue sconfitte e le sue sventure. Per non infastidire la chiesa, il XX settembre scomparve dalla lista delle feste civili. Per evitare la parola ‘vittoria’, il IV novembre divenne la giornata delle forze armate. La sconfitta di Adua diventò più importante della conquista di Addis Abbeba, Caporetto più importante di Vittorio Veneto e l’8 settembre la festa del ‘tutti a casa’. Ogni calamità sociale o naturale, dall’emigrazione ai terremoti e alle alluvioni, divenne un’occasione per mostrare l’indifferenza, l’incompetenza e il cinismo delle classi dirigenti, il carattere ‘classista’ delle istituzioni statali”.
Le esperienze del secolo scorso hanno coniato un’altra parola d’ordine, come quelle di cui parlavamo prima: Roma. Chi la pronuncia passa, in maniera indiscriminata, per fascista. Ebbene, i movimenti anzidetti, ambasciatori di regionalismi e particolarismi, non possono che trarre beneficio da questa scomunica. Rifiutando la parola Roma, essi invocano mistiche da quattro soldi, che pretendono di rinvenire la spiritualità dei popoli nelle feste di quartiere, nei piatti tipici e nei proverbi. Come se non potesse esservi altra spiritualità! E, non casualmente, nella misura in cui rinnegano l’Italia, obliterano il nome e il valore di Roma.
Ma la lacuna mitografica del nostro tempo non richiede, per essere colmata, i vangeli del progresso:
“Il vantaggio che ha il partito degli italiani (che io ritengo oggi molto più trasversale di un tempo, capace di raccogliere quadri ed energie a destra come a sinistra, e perfino di spezzare al suo interno il fronte leghista) è quello di potersi avvalere di un mito antico e vero, quello stesso che ha animato lo sforzo di secoli per giungere all’Unità nazionale e che ha reso una scelta obbligata l’avere Roma come capitale dello Stato italiano. Questo mito ha il nome più nobile e più invidiato della storia: quello di Roma.”
Per ovviare a questa mancanza di un mito comune, il mito di Roma potrebbe offrire svariati servigi. A patto, ovviamente, che esso sia liberato da quelle forme di populismo selvaggio che caratterizzarono i movimenti del primo dopoguerra. Emergerebbe, allora, una Roma diversa:
I. Una Roma sincretista, che non annientò spiritualmente le altre culture – se non nella sua fase decadente da panem et circenses, fase che stiamo attraversando anche noi adesso – ma ne integrò gli dei, realizzando a tutti gli effetti un cattolicesimo, ossia un universalismo integrale.
II. Una Roma che non ebbe bisogno di uguali ma di pari tra i pari.
III. Una Roma che non ebbe bisogno di una Chiesa, l’imperator essendo al contempo pontifex maximus.
IV. Una Roma nella quale gli dèi si adoravano in piedi, e non genuflessi.
La base positiva del Risorgimento può essere questa idea di Romanità, come forza centripeta e unificatrice. Qualsiasi altro tipo di passatismo è artificioso e artefatto. Ben lo intese Dante, quando nel De Monarchia propose, per l’Italia, una forma di ghibellinismo di stampo imperiale, traente crisma dalla spiritualità romana. Ben lo intese anche Agostino, allorché propose una alleanza tra Chiesa e Romanità per salvare l’Occidente. Forse i nostri uomini di cultura, che pure leggono Dante, sono di orecchi duri. Eppure è da qui che occorre ripartire, affinché il Risorgimento cessi di essere una parola d’ordine per incarnare, piuttosto, un destino. Un destino comune e vitale, sia per noi che per l’Europa.
Questo andrebbe insegnato, per uscire da una cultura che ha fatto dei riflessi incondizionati la propria chiave di volta. Questo significherebbe, allo stesso tempo, considerare il Risorgimento non come un fatto passato ma come un COMPITO ancora DA REALIZZARE. L’unità e l’indipendenza del nostro Paese non sono dietro di noi ma davanti a noi. Spetta alle nuove generazioni raccogliere la fiaccola consegnata dai nostri padri di modo che l’Italia possa incontrare una situazione all’altezza del proprio centenario destino, di modo che si possa, magari per il suo duecentesimo compleanno, disporre di un paese unito ed indipendente. Grazie.

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