mercoledì 21 novembre 2012

Presentazione "Il Domenicano bianco"

Venerdì 30 novembre 2012
Bistrò del Tempo Ritrovato
Via Foppa 4, Milano

Presentazione di
Gustav Meyrink
"Il Domenicano bianco"
Nuova edizione a cura di Gianfranco de Turris
Traduzione di Julius Evola
Appendice: "Meyrink e l'esoterismo": testi di Julius Evola, Massimo Scaligero,
Serge Hutin, Jean-Pierre Bayard, Gérard Heym
Edizioni Bietti, Milano 2012, pp. 290, euro 19,00

Interverranno:
Luca Negri, "Il Giornale"
Gianfranco de Turris, curatore del volume
Andrea Scarabelli, Edizioni Bietti

Per info: ufficio.stampa@edizionibietti.it

L'Archeometro:
1. Davide Bigalli, "Un'altra modernità"
2. Ezra Pound, "Carta da Visita"
3. Luca Gallesi, "C'era una volta... l'economia"
4. Gustav Meyrink, "Il Domenicano Bianco"


lunedì 22 ottobre 2012


Ezra Pound 1972-2012 Attualità di un poeta

A distanza di quarant’anni dalla morte, gli scritti di Ezra Pound vengono continuamente ripubblicati e commentati, e le sue teorie economiche, fino a pochi anni fa screditate, risultano essere quanto mai attuali. Americano di nascita, l’autore dei Cantos fu italiano d’adozione, dato che visse prima a Rapallo e poi a Venezia, dove è sepolto. La città di Milano celebra il quarantennale della morte con una serie di iniziative che coinvolgono l’Università, l’editoria, il cinema, tutti campi legati al suo genio. Le Edizioni Bietti, in collaborazione con l’ente morale Ares, l’Università degli studi di Milano e la Libreria Internazionale Hoepli, con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura della Provincia di Milano, ha organizzato il progetto Ezra Pound 1972-2012. Attualità di un poeta.

Lunedì 5 Novembre, ore 18.00
Spazio Oberdan
Proiezione dei filmati di Bernard Dew dedicati a Ezra Pound e presentati alla 59ª Biennale di Venezia. Interverranno il regista Bernard Dew e Luca Gallesi, direttore della collana poundiana (Ares). Saranno presenti Andrea Scarabelli (Bietti) e Cesare Cavalleri (Ares). Saluto dell’assessore alla Cultura della Provincia di Milano, Umberto Novo Maerna.

Martedì 6 Novembre, ore 10.30
Università degli Studi di Milano
Il poliedrico Pound
Interverranno: Davide Bigalli, Università degli Studi di Milano; Andrea Colombo, giornalista; Bernard Dew, regista; Luca Gallesi, saggista; Alessandro Rivali, poeta; Alessandro Zaccuri, scrittore.

Martedì 6 Novembre, ore 18.00
Libreria Hoepli
Presentazione di Carta da Visita di Ezra Pound (Edizioni Bietti, 2012)
Interverranno: Giulio Giorello, filosofo e Luca Gallesi, saggista e curatore del volume.

In allegato il comunicato stampa.
Per info: ufficio.stampa@edizionibietti.it


Venerdì 26 ottobre ore 18.30
Libreria Nero su Bianco
Via degli Spagnoli 25, Roma

Presentazione di
Carta da Visita
di Ezra Pound
(Edizioni Bietti, 2012)


Saranno presenti
Luca Gallesi - Curatore del volume
Caterina Ricciardi - Docente di Lingue e Letterature Angloamericane
Andrea Scarabelli - Edizioni Bietti

lunedì 15 ottobre 2012

http://www.ilgiornale.it/news/cultura/pound-carta-visita-straccia-banche-usuraie-837333.html


Pound, la «Carta da visita» straccia le banche usuraie.


Tornano gli scritti filosofico-economici del poeta dei "Cantos". Una denuncia del capitale molto più forte della lotta di classe



Lunedì, 17 settembre, usirà Carta da visita di Ezra Pound, a cura di Luca Gallesi (Bietti, pagg. 106, euro 14). Il libro fu scritto nel 1942 dall'autore direttamente in italiano, ed ebbe una seconda edizione (in sole in mille copie) per Scheiwiller nel 1974. Pubblichiamo parte dell'introduzione di Gallesi e alcuni brani di Pound.

«Socrate fu accusato di empietà e di voler sovvertire le leggi del suo paese; eppure non era né empio né sovversivo, e la storia successiva lo ha dimostrato. Io sono accusato di tradire il mio paese, che amo tanto quanto voi italiani amate il vostro. Ma chi, come me, agisce alla luce di una verità percepita e pre­vista interiormente, anticipa nel presente una realtà futura molto certa». In queste parole, tratte da un’intervista del 1955, quando era ancora detenuto con l’accusa di tradimento a Washington, nel manicomio criminale di St. Elizabeths, c’è tutta la tragica grandezza di Ezra Pound, poeta, profeta e, soprattutto, patriota americano.
Pound si è sempre considerato, infatti, un leale cittadino statunitense, fedele ai principi della Costituzione americana, che i suoi governanti avevano, invece, manipolato e sovvertito. Come era già accaduto in occasione del primo conflitto mondiale, anche nella Seconda guerra mondiale gli Usa erano stati trascinati in un conflitto non voluto, che avrebbe arricchito pochi speculatori sulla pelle di milioni di vittime.
Proprio l’inutile strage della Grande guerra, che aveva mietuto le vite di molti suoi amici artisti, spinge Ezra Pound ad abbandonare il ruolo di esteta distaccato che aveva ricoperto fino ad allora per dedicarsi allo studio delle cause delle guerre, che sono spesso legate alla speculazione: «si fanno le guerre - scriveva ancora nel 1944- per creare debiti». Così, accanto alla sua infaticabile attività di talent scout, che favorì, tra gli altri, Eliot, Joyce ed Hemingway, e mentre cerca di dare con i Cantos un poema epico nazionale all’America, Pound denuncia la «guerra perenne» tra oro e lavoro, tra chi specula e chi fatica, tra gli usurai e gli uomini liberi, e decide di schierarsi a fianco di questi ultimi, scelta mai rinnegata e di cui pagherà dignitosamente tutte le conseguenze fino alla «gabbia per gorilla» in cui fu rinchiuso nel carcere militare statunitense allestito vicino a Pisa.
Prima di giudicare qualcuno, come il poeta stesso amava ripetere, bisogna esaminare le sue idee una alla volta, e quindi è necessario avvicinarsi alle sue opere senza pregiudizi, collocandole nel contesto storico generale e in quello biografico particolare. Riproporre, oggi, la sua Cartadavisita , che Pound scrisse direttamente in italiano, è dunque, innanzitutto, un’occasione per conoscere direttamente il pensiero di Ezra Pound, e confermarne, eventualmente, la profetica attualità.
Nel 1942, quando Carta da visita viene pubblicato la prima volta, il mondo è dilaniato dalla più spaventosa guerra mai combattuta, una tragedia che Pound aveva ingenuamente cercato di evitare con tutti i mezzi, incluso un viaggio intercontinentale per incontrare il presidente Roosevelt e convincerlo dell’importanza della pace.
Oggi,l’Europa non è in guerra, ma la situazione generale non è meno drammatica; il colonialismo si è trasformato in «delocalizzazione », i signori dell’oro sono diventati operatori di Borsa, e i popoli sono sull’orlo di un tracollo economico disastroso, esattamente come Pound aveva immaginato: « Il nemico è Das Leihkapital - tuonava il 15 marzo 1942 dai microfoni di Radio Roma - . Il vostro nemico è Das Leihkapital , il Capitale preso a prestito, il capitale errante internazionale. [...] E sarebbe meglio per voi essere infettati dal tifo e dalla dissenteria e dalla nefrite, piuttosto che essere infettati da questa cecità che vi impedisce di capire QUANTO siate compromessi, quanto siate rovinati ».
Sicuramente, in quegli anni, quando molti intellettuali impegnati si baloccavano con il mito della lotta di classe, Pound doveva risultare quantomeno eccentrico, con il suo insistere nella guerra contro la speculazione finanziaria, ricordando che «una nazione che non vuole indebitarsi fa rabbia agli usurai». Oggi, invece, il suo avvertimento contro «la banca che trae beneficio dall’interesse su tutta la moneta che crea dal nulla», come recita il Canto 46, risulta ben più efficace del rimedio allora auspicato da mol­ti, e cioè la «dittatura del proletariato ».

La nazione non deve pagare l’affitto sul proprio credito

Risparmio Abbiamo bisogno d’un mezzo di risparmio e d’un mezzo di scambio, ma non è legge eterna che ci dob­biamo servire dello stesso mezzo per queste due funzioni diverse. La moneta affrancabile (ovvero prescrittibile) si adoprerebbe come moneta ausiliaria, mai come moneta unica. La proporzione fra la moneta consueta, e l’affrancabile, se calcolata con perizia e saggezza, potreb­be mantenere un rapporto equo e quasi invariabile fra la quantità delle merci disponibili e desiderate, e la quantità della moneta della nazione, o almeno raggiungere una stabilità di rapporti sino al grado conciliabile.  Bacon ha scritto: «moneta come concime, utile solamente quando sparsa». Jackson: «il luogo più sicuro di deposito: le braghe del popolo».
Sociale Il credito è fenomeno sociale. Il credito della nazione appartiene alla nazione, e la nazione non ha necessità di pagare un affitto sul proprio credito. Non ha bisogno di prenderlo in affitto da privati. [...] La moneta è titolo e misura. Quando è metallica, viene saggiata affinché il metallo sia di finezza determinata, nonché di peso determinato. Adoprando una tale moneta siamo ancora nel dominio del baratto. Quando la moneta viene capita come titolo, sparisce il desiderio di barattare. Quando lo stato capisce il suo dovere e potere, non lascia la sua sovranità in balìa di privati irresponsabili ( o che assu­mono responsabilità non giustificate). È giusto dire che «la moneta lavoro» è «simbolo del lavoro». E ancor più è simbolo della collaborazione fra natura, stati e popolo che lavora. La bellezza delle immagini sulle monete antiche simboleggia, a ragione, la dignità della sovranità inerente nella responsabilità reale o imperiale. Collo sparire della bellezza numismatica coincide la corruzione dei governi.
Dichten = CondensareLa parola tedesca Dichtung significa poesia. Il verbo dichten = condensare. Per la vita, o se preferite per «la battaglia», intellettuale, abbiamo bisogno di fatti che lampeggino, e di autori che mettano gli oggetti in luce serena. L’amico Hulme ben disse: «Quello che un uomo ha veramente pensato (per sé) si scrive su un mezzo foglio. Il resto è spiegazione, dimostrazione, sviluppo». Chi non ha forti gusti non ama, e quindi non esiste.

(Il Giornale, 14 settembre 2012)

http://www.loccidentale.it/node/118890


Nell'era dell'e-book ci sono editori che continuano a fare con coraggio il loro lavoro

di Luca Negri


Lo sappiamo, c’è la crisi. E ancor più in crisi è l’editoria: chiudono giornali, grandi marchi riducono il personale, i medi arrancano, i piccoli scompaiono. Però nel caos del settore librario, fra successi da centro commerciale e rifugio nell’e-book, appaiono ancora rispettabilissimi segnali di coraggio e resistenza.
Un nome da fare assolutamente è quello delle milanesi Edizioni Bietti, quantomeno per aver investito in una nuova collana editoriale battezzata “l’Archeometro”. Nome assai accattivante per i pochi che sanno cos’è appunto un archeometro: trattasi di strumento d’origine medioevale che servirebbe a “misurare il legame che ogni cosa mantiene con il principio”. Uno schema: al centro un “centro di gravità permanente” e intorno cerchi concentrici abitati da segni dello zodiaco, simboli alfabetici, elementi chimici, modi dell’essere. La ricerca di questo centro e la polemica contro l’ideologia progressista sono le cifre culturali della collana. Ma la soluzione, la scelta degli autori da editare, non è di matrice reazionaria. Anzi, il volume d’esordio è stato “Un’altra modernità”, firmato da Davide Bigalli. È un saggio che cerca e trova una corrente di pensiero alternativa a quella illuminista e progressista ma libera da nostalgie ancien régime. Ad esempio, forse ci siamo fidati troppo di Kant ed abbiamo trascurato Herder. E poi Novalis, Jacob Burckhardt, Chateaubriand hanno qualcosa di importante da insegnare. In aggiunta,  Bigalli rilegge René Guénon e Julius Evola liberandoli dalle incrostazioni di un certo tradizionalismo retorico.
Il secondo volume edito sotto l’insegna dell’Archeometro è “Carta da visita” di Ezra Pound, un testo del 1942 che mancava da troppo tempo in libreria, un saggio fondamentale per capire il personaggio, il pensatore e l’artista. Il quale lo scrisse appositamente in italiano, con tutto l’amore di cui era capace per la nostra lingua e la nostra millenaria cultura. Al di là dell’aspetto più noto del Pound “fascista” in lotta contro l’usura (inutile sottolinearne la bruciante attualità), c’è quello metafisico, nutrito di gnosi manichea, misticismo medioevale e confucianesimo. È l’opera in cui Pound afferma l’esistenza di due forze operanti nella storia: “una che divide, spezza e ammazza, l’altra che contempla l’unità del mistero”. Poi gioca col nome di Roma che al contrario diventa Amor e chiude poco cartesianamente con “Amo ergo sum”. E poi ci ricorda che “il pensiero è organico”. Un capolavoro.
L’Archeometro ha in cantiere altre chicche firmate da Gustav Meyrink, Guido Morselli, Mircea Eliade, Oswald Spengler e Ernst Jünger. Ripescaggi di un certo livello.
A Milano è nata un’altra iniziativa editoriale, per certi versi ancora più coraggiosa, in radicale controtendenza rispetto alla poca fantasia dei bookstore. Il nome è già un programma: Associazione Libri Perduti. Infatti, intende pubblicare “opere letterarie di autori italiani e stranieri mai edite nel nostro Paese o scomparse dal mercato”, beninteso a prezzo economico. Un catalogo che promette cose bizzarre, da appassionati, amatori, curiosi. Noi abbiamo particolarmente apprezzato il ripescaggio di Joséphin Péladan, uno dei personaggi più interessanti dell’ambiente culturale francese a cavallo tra Ottocento e Novecento (se ne occupò anche Mario Praz). I denigratori lo consideravano un “Platone da strada”, lui era convinto di essere la reincarnazione di un antico re babilonese, scrisse parecchi romanzi sulla “decadenza latina” e qualche trattato di magia. Fondò anche l’Ordine della Rosa-Croce Cattolica del Tempio e del Graal. Malgrado, o grazie a queste stranezze, rappresenta il momento di passaggio fra Baudelaire e i grandi scrittori cattolici francesi che seguiranno: in primis Léon  Bloy e Georges Bernanos. Il libro perduto (l’unica edizione italiana risale al 1919) e ritrovato s’intitola “Dell’androgino”.
Un saggio immaginifico e misterico, ispirato da Platone e dalla cabala ebraica. L’androgino sarebbe il frutto dell’amore, l’unione degli opposti magnetici, dell’uomo e della donna. L’amore è così occasione di reintegrazione, può ricreare l’Adamo primordiale. Un libro più che romantico, dunque. Interessante in quest’epoca di confusione sessuale e relativismo transgender. Invece la prossima uscita dell’Associazione vira decisamente verso l’horror, ma di tipo archeologico. Si tratta de “Lo zombi del Gran Perù o la contessa di Cocagne”, il romanzo con la prima apparizione letteraria dello zombi, il morto vivente dei riti vodoo, scritto da Pierre-Corneille de Blessebois nel XVII secolo.
Rimane da aggiungere che sia la Bietti che l’Associazione Libri Perduti pubblicano e pubblicheranno testi inediti, di autori viventi, forse ancora da scoprire. Un motivo in più per far loro i migliori auguri di lunga vita.

Ezra Pound - "Carta da Visita", Bietti, Milano 2012




Pound, il dissenso vale anche quando si ha torto
di Giulio Giorello - 14/09/2012
http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=44067




Amo ergo sum, ovvero «amo, dunque sono». Parlando d'amore invece che di pensiero, così il poeta Ezra Pound nel 1942 rovesciava il razionalismo di Cartesio. Vale anche l'inverso: chi non ha sentimenti forti non sa amare e forse «nemmeno esiste».

Nel suo Guida alla cultura (1938) aveva scritto: «Nessun uomo decente tortura i prigionieri, nessun uomo pulito tollererebbe le atrocità pubblicitarie che si vedono tra qui e Genova. Nessun uomo libero da parassiti mentali tollererebbe la camorra delle banche o del sistema fiscale». Quattro anni dopo, dava voce direttamente in italiano a questi sentimenti in Carta da Visita, presso Edizioni di Lettere d'Oggi. Ripubblicato da Vanni Scheiwiller nel 1974, questo testo viene ora ripresentato a cura e con un saggio introduttivo da Luca Gallesi che sottolinea l'impegno del poeta come patriota americano, pur «innamorato» della vecchia Europa. Si era battuto perché gli Stati Uniti non entrassero in guerra; era stato incriminato per alto tradimento, e nel 1945 era finito in un campo di prigionia presso Pisa e poi in un manicomio criminale a Washington (sempre senza processo). Liberato nel 1958, fino alla morte (1962) resterà privo della personalità giuridica. Sarebbe ora che gli Stati Uniti rimediassero a questa ingiustizia.

Carta da visita è un impasto di aforismi graffianti, battute sarcastiche, tirate polemiche in una lingua che riecheggia Dante e Cavalcanti. Che si tratti della critica letteraria, del destino della poesia, dei labirinti della filosofia o della stessa astrazione scientifica, il filo rosso è l'ossessione di Pound per l'economia. I grandi finanzieri abitualmente praticano «il trucco di far aumentare il valore dell'unità monetaria manovrandolo per mezzo del monopolio d'una sostanza qualunque, e quindi facendo pagare dai debitori l'equivalente di due volte la merce e i beni avuti al tempo d'un prestito». Per quanto possa suonare semplicistica, è difficile non sentire vicina l'invettiva di Pound. Le bolle finanziarie a livello globale non sono che l'altra faccia dell'oppressione fiscale, della violenza repressiva e del saccheggio dell'ambiente (e non solo tra Rapallo e Genova!). Sono l'amore per la natura, l'arte e la scienza a scatenare l'indignazione di Pound il libertario. Gallesi non nasconde il vizio dell'antisemitismo poundiano, di cui il poeta fece ammenda fin dal 1945, e ne sottolinea le simpatie per il fascismo. «Mille candele insieme fanno splendore. La luce di nessuna candela danneggia la luce di un'altra». È l'inizio di Carta da Visita. Pound aggiunge: «Così è la libertà dell'individuo nello Stato ideale e fascista». Proporrei di rovesciare la battuta: tale dovrebbe essere la libertà dell'individuo in ogni democrazia che non tema, ma ami, i propri dissenzienti.

Il libro: Ezra Pound, «Carta da Visita», a cura di Luca Gallesi, Bietti, pp. 103, 14 euro



http://www.gliamantideilibri.it/archives/12016


5 domande a… Andrea Scarabelli

9 ottobre 2012
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Forse non tutti i lettori sanno che la casa editrice Biettiè una delle più longeve case editrici milanesi. Recentemente è stata “rifondata” e, oltre a dedicarsi all’editoria libraria, da qualche tempo pubblica anche una rivista “Antares”. Noi abbiamo incontrato Andrea Scarabelli, direttore della pubblicazione, e gli abbiamo rivolto qualche domanda per conoscere meglio questa realtà.
“Antares” ha una storia particolare, ci può raccontare come nasce?
Nasce nell’Università Statale di Milano, per quello che, a mio parere, può essere considerato un curioso processo di “eterogenesi dei fini”. È quanto accade quando un’azione o un processo, che hanno certe finalità, finiscono per sortire effetti opposti. Questo è accaduto: che la cultura accademica, bigotta, provinciale e conformista, ha escluso dal suo campo tutta una serie di pensatori “eretici”, addestrando legioni di studenti a fare lo stesso, per perpetuare quella “tradizione orale” assai peculiare nel nostro Paese. Orale, certo, che determina poi però quello che viene o non viene scritto, che viene o non viene pubblicato. In sintesi, ciò che è da considerarsi “interessante” e ciò che invece va emarginato. Gli stessi pregiudizi vengono poi comunicati a tutte le sfere della cultura “alta” che agiscono di conseguenza, ripetendo gli stessi cliché ad infinitum. Ma che accade? Un gruppo di studenti si accorge del trucchetto e decide di riaprire proprio quei libri, di frequentare le riflessioni proprio di quegli autori che non piacciono ai cattedratici. E nasce Antarès. Tirata in poche copie, impaginate dal sottoscritto e stampate nel laboratorio di informatica della Statale. Un fascicolo su H. P. Lovecraft, il romanziere, certo, ma anche l’antimoderno, avverso al progresso, ad un Occidente che ha rinnegato la propria essenza. Contro il mondo e contro la vita (come scriveva Houllebecq). Un numero sulla metafisica del camminare ed un altro sugli antimoderni – Evola, Jünger, Mishima, Spengler, Pasolini.
Per quale motivo la casa editrice Bietti, storica casa editrice libraria milanese, ha raccolto la sfida di realizzare “Antares”?
Sinceramente, non me ne capacito tutt’ora. Per incoscienza, certo, assoluta incoscienza. Per due motivi: anzitutto perché ha voluto mantenerne la originaria formula gratuita. In secondo luogo, in quanto la stagione delle riviste ormai è inoltrata. Ma è una incoscienza che spesso e volentieri salva la cultura, quando quest’ultima è preda di un “politicamente corretto” il cui esercizio avviene sovente con strumenti culturalmente e politicamente scorrettissimi. Di editori “coscienti” ce ne sono a bizzeffe. Ecco perché, per leggere certuni autori, bisogna cercare i loro libri in librerie piccole e nascoste ovvero in biblioteche, perché non vengono più ristampati. Questo è il prodotto della “coscienza”. La storia degli editori “coscienti” è scritta ovunque, nelle pagine culturali dei giornali, nelle librerie del centro, nei talk-show televisivi. Quella invece degli editori “incoscienti” attende ancora di essere scritta. Credo che la Bietti potrebbe costituirne un capitolo piuttosto interessante. Perché è per merito di questa casa editrice, ad esempio, che da qualche tempo è possibile leggere “Carta da Visita” di Ezra Pound, la cui ultima edizione risale agli anni Settanta e venne approntata da Vanni Scheiwiller, altro editore che sempre si batté contro la censura e le tare della cultura ufficiale italiana. Un altro capitolo di questa storia eretica, s’intende.
Da quali figure professionali è composto lo staff che cura questa rivista? Quali obiettivi vi siete proposti di raggiungere e che cosa pubblicate?
L’organico è composto interamente da studenti (laureandi o appena laureatisi). La direzione editoriale è ricoperta dal sottoscritto. Direttore responsabile è invece il giornalista Gianfranco de Turris, che conobbe Antarès nella sua prima formulazione universitaria e ha collaborato in più occasioni con la casa editrice, con antologie e curatele. È una figura straordinaria della cultura italiana, il cui contributo è sempre stato volto alla circolazione delle idee, anche quelle scomode per le intelligenze che disciplinano la circolazione delle idee. Il che poi è lo stesso obiettivo di Antarès: far circolare le idee, quelle idee, “incoscienti” anch’esse, che malvolentieri accettano etichette e che sono i veri motori immobili della storia. Questo l’unico obiettivo di Antarès.
Un punto fondamentale che viene analizzato nel vostro manifesto, ed è anche citato nel sottotitolo, è il riferimento all’antimodernismo, possiamo spiegare cosa intendete?
Si tratta di un concetto che troppo spesso è stato frainteso. Molti hanno visto negli antimoderni intellettuali che si limitarono a mettere alla berlina il proprio presente, in nome di chissà quale insofferenza verso di esso. Nulla di più falso. Essi, al contrario, criticarono la stato di fatto in nome di una visione alternativa delle cose. Qui ci si può riferire al libro di Davide Bigalli Un’altra modernità, dato alle stampe per i tipi della Bietti prima dell’estate. Esso è volto a mostrare questa ambivalenza, che è la stessa poi della modernità, in se stessa. Ovviamente, la discussione richiederebbe diversi volumi e non una chiacchierata. Due cose, però, mi preme sottolineare: già la semplice esistenza di questi autori vorrà pur dire qualcosa, no? Intendo dire che la presenza di intellettuali che non si lasciano abbindolare dalle sirene del presente è un simbolo del fatto che forse questo nostro tempo, nonostante spesso si dica il contrario, non è così univoco, unidimensionale, ma esibisce numerose falle.L’antimodernismo è un prodotto della modernità, una proiezione delle aporie del moderno, che divengono sempre più evidenti con il passare dei decenni. E qui arriviamo al secondo frangente del problema: le teorie degli “antimoderni”, spesso considerate stravaganti o retrograde, oggi trovano il loro compimento. Qualcuno si è forse accorto ad esempio che quanto si va denunciando circa la crisi economica era già stato detto decenni addietro da alcuni “antimoderni”? È il tema del prossimo numero, nel quale non mancheranno sorprese. Crisi della democrazia, ecologia, fallimento dell’idea di progresso – tutte tematiche già trattate, già sviscerate. E dagli antimoderni, per giunta. Peccato i loro libri siano introvabili, a causa della “coscienza” di cui sopra, da cui prima o poi sarebbe assai “cosciente” liberarsi…
I lettori che desiderano sfogliare e leggere “Antares” come possono fare?
Antarès è gratuita. Come ha detto poco tempo fa Luca Gallesi, ad una presentazione della rivista, se il moderno vede la mercificazione di qualsiasi attività umana, allora la gratuità è la forma antimoderna per eccellenza. È la gratuità del dono che non poche voci del nostro tempo hanno indicato come una possibile via per uscire dalla crisi. Idea che sottoscriviamo del tutto. Pertanto, essa non si affida alla distribuzione ma viene distribuita in tutta una serie di librerie fiduciarie il cui elenco è presente sul sito dell’iniziativa (http://www.antaresrivista.it/librerie_c.html). Stiamo attualmente sviluppando l’idea di un mini abbonamento, che copra le mere spese di spedizione, per poter raggiungere i lettori di quelle città non ancora coperte da questa forma di distribuzione. I numeri sono poi disponibili, in formato pdf, al seguente indirizzo (http://www.antaresrivista.it/download_b.html).

martedì 7 agosto 2012

Ancora su Fernando Pessoa

IL SACCO DI LISBONA. PESSOA E' ANTIFASCISTA!
di Averno

Ce l'hanno fatta di nuovo. Ne hanno reclutato un altro. È lo scoop dell'Espresso. Fernando Pessoa era antifascista.
Tutti ormai sappiamo della vicenda del poeta plurimo per eccellenza, che sdoppiò, triplicò, quadruplicò la propria persona, per essere “plurale come l'universo”, come ebbe a scrivere non solo egli stesso ma anche numerosi suoi “eteronimi”.
È un gioco talmente complesso – e irriducibile ai dettami dello strutturalismo e del decostruzionismo imperversanti – che continua anche dopo la morte corporale dell'ortonimo. Che accade? Dopo la sua dipartita emergono dubbi su tutta una serie di personalità di cui si sa poco, che magari hanno pubblicato qualche articolo o poco più. Che si tratti di Pessoa, firmatosi sotto un altro nome? Che si tratti di un ennesimo gioco di prestigio del “poeta fingitore”?
È quanto recentemente emerso da una ricerca svolta in Portogallo da José Barreto e pubblicata sulla prestigiosa rivista “Pessoa plural”, pubblicata dall'Università di Utrecht, dalla Brown University e dalla Universidad de los Andes, la quale mette a fuoco la complessità di una figura che può valere da cartina tornasole dell'atmosfera dei primi decenni del XX secolo. Questo rinvenimento è ricordato dallo zelante Marcello Sacco nell'Espresso di questa settimana, con toni che non possono non impensierire chi abbia a cuore una cultura finalmente libera dalle etichette di ieri. Ma, prima di tutto, ecco il retroscena.
Siamo nel 1926, scrive il nostro articolista. Da pochi mesi, il generale Carmona ha calcato la scena pubblica, instaurando una dittatura militare. In questo contesto, la rivista “Sol”, la quale chiuse i battenti poco tempo dopo, ospita una curiosa intervista ad un esule italiano, tale Giovanni B. Angioletti. Un uomo la cui avversione verso il fascismo fu tale da spingerlo a definire Mussolini un “primitivo celebrale”, a capo di un movimento contagioso come la follia, che avrebbe costituito uno dei capitoli del grande tradimento della “missione civilizzatrice” assunta dall'Italia subito dopo la sua Unità. Nulla di strano, no, soprattutto pensando a quanti avversari ebbe il Regime dentro e fuori dall'Italia? E ecco che invece è il nostro poeta che ci ha tirato nuovamente uno scherzetto. Dietro a quest'uomo, ignoto non fosse che per la detta intervista, si cela Fernando Pessoa.
Ma non è tutto. Nello stesso articolo si legge di un frammento trovato da Barreto nel celebre “baule” pessoano, le cui vicende hanno appassionato ragazzi e adulti di ieri ed oggi, il quale reca queste parole, atte a commentare la puntualità dei treni “quando c'era lui”, con toni che sono a tutti gli effetti quelli pessoani: “Se i fascisti vi uccidono il padre a Roma, da Milano potete sempre arrivare puntuali al funerale”. La grandezza di Pessoa risiede anche in questo: nel condensare la sua critica libertaria ad un regime populista, massificatore e chiassoso in poche, aggressive allocuzioni. Non c'è niente da fare, è così. Si possono elaborare lunghe ed elaborate argomentazioni ma chi ha il dono dell'aforisma, le scavalca, librandosi, scagliando le sue parole come schegge, come scrisse un grande scrittore di aforismo, Dàvila.
Benissimo. Questo ritrovamento depone a favore dell'esistenza di una parte – in senso letterale, s'intende, da un punto di vista eteronimico – antifascista di Pessoa. Niente di nuovo, purtuttavia. Già erano arcinote le avversioni pessoane verso il Regime mussoliniano – ma anche verso quello salazariano. Meno noto è forse che Pessoa ebbe a criticare tanto i summenzionati Regimi quanto comunismo e democrazia. Se pertanto, possiamo definire Pessoa “antifascista”, allora dovremmo aggiungere alla dicitura anche il suo tratto anticomunista e antidemocratico. Pessoa, assieme a molti altri, criticò in detti regimi il livellamento delle specificità in masse amorfe ed acefale, disposte a scattare al primo tacco di stivale battuto al suolo. Nell'imbarbarimento operato da fascismi e comunismi egli vide la fine della storia, l'ingresso nella modernità. Pessoa era antimoderno – anche qui risiede la sua attualità. Forse a certi stomachini delicati non andrà giù, ma egli fu anche questo, tra le altre cose – tra le moltissime altre cose.
Sì, ma perché queste righe, allora? A parte suo il titolo – che pare comunque echeggiare qualche slogan trito e ritrito, che comunque non può che ossequiare il “buon senso” accuratamente coltivato da certa cultura italiana, la quale vive di parole d'ordine alle quali, per pavloviano influsso, letteratini di terz'ordine si alzano ed applaudono, al pari di quelle masse ammaestrate dai demagoghi di turno che l'articolo vorrebbe denunciare – il contributo è serio, obiettivo e scientifico. Si limita ad informare e nulla di più. Tuttavia, la chiosa finale ne preclude il carattere, rilevando la sua vera intenzione. “E pensare, scrive il Sacco, che da noi, anche in occasione della morte di Antonio Tabucchi, si è continuato a ripetere che Pessoa fosse stato un uomo di destra”. Ahi ahi! Perché una caduta di stile di questa sorta? Forse era necessario aggiungere una tacca alla lista degli eteronimi per conoscere l'avversione del poeta a qualsiasi forma di oppressione legalizzata – fosse fascista o comunista o democratica?
Ci permettiamo un paio di considerazioni, a proposito di questo “Sacco di Lisbona”. Circa l'equazione Destra-Fascismo, altri prima di noi hanno già scritto abbondanti pagine e non insisteremo ulteriormente. Come non ricordare, però, tutti quegli intellettuali da sempre fieramente proclamatisi di Destra che criticarono profondamente gli aspetti più populisti e deleteri del Fascismo, ma anche del nazionalsocialismo? Come non ricordare i nomi di coloro che si opposero al Regime non in quanto suoi avversari ma in quanto avversi al ducismo organizzato, alle sue forme più esteriori, alla sua biopolitica? Destra e “antifascismo”, pertanto, sebbene il nostro articolista paia ignorarlo, non sono espressioni necessariamente antitetiche. È possibile criticare le adunate oceaniche ed essere al contempo di Destra – il fascismo, peraltro, non essendo che un capitolo tra gli altri della Destra. Sorprese, queste, che la storia riserva, che tuttavia riempiono di stupore solo chi sia in grado di intravederle.
Il che, comunque – diciamolo subito, prima che qualcuno gridi allo scandalo – non è il caso di Pessoa. Il quale non può essere – e non è stato – definito un uomo di Destra. Come è accaduto per numerosi altri scrittori e pensatori – valga come caso esemplificativo il nome di J. R. R. Tolkien – lo spettro dello “scrittore di Destra” è stato evocato “dall'altra parte. Che è accaduto a seguito della morte di Tabucchi? Non vi sono state che puntualizzazioni di carattere scientifico – che qualcuno, oggi come ieri, continua a confondere con ideologia – concernenti il modus operandi del grande traduttore e promotore, che ha diffuso sì la figura di Pessoa, mutilandola però da tutta una serie di tratti fondamentali – dagli studi sul mito agli interessi pessoani verso dottrine esoteriche e i suoi studi sulla tradizione. Questo è accaduto. E null'altro. Altro che “scrittore di Destra”.
Prima di essere definito scrittore di qualsivoglia “parte” politica, Pessoa disponeva di una sua peculiare immagine del mondo, di una Weltanschauung – oggi un bene più prezioso dell'acqua nel deserto – che subordinò la storia al mito e rifiutò quelle innumeri dottrine moderne che legano il divenire dell'uomo e del suo ambiente circostanze alla mera materia. Fu avversario del progressismo, del materialismo, degli ideali della Rivoluzione Francese e se criticò il Fascismo, il salazarismo, il comunismo e il democratismo, ciò avvenne come declinazione particolare di questa sua visione delle cose. La sua avversione a questi fenomeni, vittoria della quantità, di un imbarbarimento che abbassa l'uomo al suo piano animale, dunque, non è che una applicazione di questa sua filosofia della storia. Nei detti movimenti – e anche qui risiede la sua drammatica attualità – egli vide la Modernità trionfante, nelle sue maschere più orribili, dalle orbite vuote. Vide la vittoria del nichilismo, tema tanto caro a Friedrich Nietzsche, di cui il poeta portoghese fu attento lettore, sino ad auspicare, in uno dei suoi scritti firmati dall'eteronimo futurista Campos, dopo aver messo al bando qualsiasi forma di potere organizzato e di cultura, l'avvento del superuomo, sì, proprio di quel superuomo:
“Il superuomo sarà non solo il più forte ma anche il più completo!
Il superuomo sarà non solo il più duro ma anche il più complesso!
Il superuomo sarà non solo il più libero ma anche il più armonico!”
E, si badi – e questo a ricordare la complessità di un pensiero che non è riducibile ad uno dei suoi tratti senza risultarne distorto e mutilato – nello stesso articolo, critica il nietzschianesimo d'oltralpe nonché la figura di d'Annunzio, che di quest'ultimo fu alfiere in Italia.
È a questa visione del mondo che occorre guardare, non alle sue declinazioni individuali. Ma, si sa, è molto più facile fissare il dito, piuttosto che la Luna. Soprattutto quando esso punta contro il Nemico Assoluto.
Pessoa non fu “uomo di Destra”. Affermare ciò è tanto riduttivo quanto affermare il suo essere esclusivamente “antifascista”. Queste sono bagatelle che riguardano solo ed esclusivamente una certa cultura italiana, ancora viziata da vecchie categorie che, non appena ne capita l'occasione, vengono ribadite, a suggello della loro perenne validità. È la “tradizione orale” del nostro Paese; per quanto ancora ci impedirà di accedere alla naturale complessità di un'opera e di un autore come quello in oggetto?

venerdì 20 luglio 2012

Antarès N. 3 On Line


Antarès - Prospettive antimoderne
N. 03/2012

J. R. R. Tolkien - Un'epica per il nuovo millennio

Articoli di:
Claudio Bartolini, Franco Cardini, Rita Catania Marrone, Igor Comunale, Alice Cucchetti, Gianfranco de Turris, Sebastiano Fusco, Stefano Giuliano, Emanuele Guarnieri, Adolfo Morganti, Chiara Nejrotti, Errico Passaro, Quirino Principe, Riccardo Rosati, Mauro Scacchi, Luca Siniscalco

Recensioni di:
Davide Bigalli, Rita Catania Marrone, Gian Piero Mattanza, Andrea Scarabelli

Il numero è scaricabile online in formato pdf al seguente indirizzo
http://www.antaresrivista.it/Antares_03_web.pdf

venerdì 6 luglio 2012

http://carlogambesciametapolitics.blogspot.it/2012/06/la-rivista-della-settimana-antares.html

La rivista della settimana: “Antarès. Prospettive antimoderne” n. 1, 2011 (Il pensiero in cammino. Il camminare nelle sue valenze spirituali, filosofiche e metafisiche), pp. 48; “Antarès. Prospettive Antimoderne”, n. 2, 2012 (Un’altra modernità. Appunti per una critica metafisica del nostro tempo), pp. 68, rivista trimestrale gratuita pubblicata dalle Edizioni Bietti in versione cartacea e digitale: http://www.antaresrivista.it/index.html .

Può esistere una modernità senza progresso? Non è facile rispondere perché  è come indagare sul futuro di un' automobile  priva di ruote…  Che farsene di una  Ferrari  con le quattro gomme fuori uso?    Che  attendersi da una modernità   incapace di  progredire?   Del resto   gli stessi apologeti della modernità, preoccupati quanto i denigratori,  oggi preferiscono  parlare   di post-modernità, ossia  di una realtà  né  moderna né antimoderna, assai simile a  un inutile e malinconico deposito di vecchie automobili  in attesa di demolizione.
Il  nostro giro di parole ha un senso preciso, e spieghiamo subito quale: “Antarès” rivista diretta e pensata  da Andrea Scarabelli e da un gruppo, altrettanto giovane,  di redattori ( benché   direttore responsabile  sia  Gianfranco de Turris, vecchia volpe cui va tutta la nostra stima...), sembra  arrovellarsi  intorno al complicato  quesito di cui sopra.  Non per nulla, e a proposito della nostra metafora automobilistica, uno dei fascicoli che abbiamo sotto gli occhi - il n. 1 per l'esattezza - propone il  camminare come  metafora di una modernità finalmente  capace di apprezzare il gusto di andare a  piedi… Del resto a  cosa si  fa cenno  nel “Manifesto” pubblicato nello stesso fascicolo?  A « un antimodernismo che non si risolva in una sterile critica del presente ma che sia in grado di fornire a questo ultimo strumenti che, invero, sono GIA’ in suo possesso. Dotare la modernità di una metafisica alla sua altezza: questa la celebre scommessa tra Faust e Mefistofele, della quale il presente progetto si sente erede».  In sintesi: « Curare la modernità CON la modernità stessa. Questa è la scommessa intellettuale che anima le presenti ricerche».
Ottimo. Perciò, per non uscire di  metafora,   le «prospettive antimoderne», come recita il sottotitolo,   sono tali ma solo  nei riguardi di una  modernità "motorizzata"...   intenta a  spostare  le linee del traguardo sempre più avanti, rifiutando di interrogarsi sul senso della sua corsa.  
Però, e qui torniamo alla questione iniziale, è possibile una modernità senza progresso "incorporato"?   In che modo, per riprendere il fascinoso titolo della rivista,   Antarès  potrà  dialogare con il rivale  Ares?  Basterà una nuova metafisica? O forse va attribuito un senso diverso al progresso, proprio  per mantenerlo a galla  nel  mare magnum  modernità. Detto altrimenti:   serve di sicuro  una  nuova metafisica ma - ecco il punto -   capace di inglobare un concetto  "altro"  di progresso.  Quale però?  Ad esempio, si potrebbe  rileggere l'opera di  Robert Nisbet, dove come mostra il  ghiotto libro fresco di stampa di Spartaco Puppo (Robert Nisbet e il conservatorismo sociale, Mimesis),  l'idea di progresso viene ricondotta - e depotenziata - nell'alveo di quella domanda  di comunità, innata nell'uomo; domanda, la cui persistenza storica e sociologica  rivela che il vero progresso non è  rappresentato  dal cambiamento in quanto tale,  bensì da  quei   mutamenti   in sintonia con il valore non  negoziabile (perché intramontabile)  della comunità. Ovviamente, Nisbet si riferisce  alla comunità così come viene intesa  nella  cultura anglo-americana: una comunità liberale  che non sia  mera  somma dei singoli individui,  né puro  surplus  sovraindividuale,  ma  un insieme ordinato   di pratiche  e relazioni, rispettose delle libertà dei singoli, incluse quelle economiche. Semplificando:  un olismo ben temperato, o comunque ritagliato su un equilibrio tra il tutto ( i doveri) e le parti (i diritti),  sempre attento  al   rispetto delle opzioni  individuali e delle scelte di  minoranza. Ennesimo  tentativo  di  quadratura del circolo, anche quello di Nisbet?  Forse.  Ma quale idea regolativa non lo è?
Del resto,  piaccia o meno,   senza un' idea di futuro (e di progresso)   non c’è modernità,   e senza modernità non c’è futuro  (e progresso). Non è un gioco di parole:  all' uomo moderno, preda di un grande smarrimento,  va offerta  una  narrazione convincente e soprattutto integrale,  capace di   fondere insieme passato, presente, futuro. Quindi svolta metafisica, ma anche storica e sociologica.   Di qui, l'impossibilità di rinunciare all'idea di progresso,  non disgiunta  da quella di comunità, nel  senso però  cui  abbiamo accennato.   Altrimenti, qual è il rischio?  Quello  di restare impantanati, come sta accadendo,  nella post-modernità.   Che, ripetiamo,  è una modernità in attesa della sua “rottamazione”.  Sempre  che, ma su questo  "Antarès" si è giustamente defilata,  non si voglia riabbracciare la causa perduta del "passatismo": errore  uguale e contrario al "presentismo".  E la stessa cosa si potrebbe dire anche a proposito  del "futurismo", soprattutto  se   inteso erroneamente   come  culto del futuro in quanto tale.      
Comunque la si pensi, non possiamo non  porgere i nostri  auguri (e complimenti)  ai giovani di "Antarès",  anche per il solo fatto di aver  così generosamente accettato l'ardua  sfida.  D'altronde,  dove non c'è sfida,  non c'è neppure  "progresso" intellettuale... 

Da Carlo Gambescia Metapolitics
http://carlogambesciametapolitics.blogspot.it/2012/06/la-rivista-della-settimana-antares.html

giovedì 5 luglio 2012

Antarès - L'Argonauta


Intervista di Andrea Scarabelli, riguardante Antarès, 
andata in onda domenica 3 giugno nella puntata n. 396 
de "L'Argonauta", curata da Gianfranco de Turris.

lunedì 11 giugno 2012

http://www.loccidentale.it/node/116549


L'eccezione di Antarès
di Luca Negri
(L'Occidentale, 27 maggio 2012)

La grave crisi elettorale, di consenso e d’identità che colpisce tutta la politica italiana ha una causa, fra le tante, che ci appare lampante: la scarsa attenzione alle risorse culturali, il risicato investimento economico nei laboratori di idee. Gli effetti sono ancora più evidenti nel campo del centro-destra, quello che, in teoria, per le sue stesse radici, dovrebbe equilibrare i danni del progressismo spinto.
Ma il momento è ormai duro, i soldi non ci sono, o se ci sono vanno ad altri beni più o meno primari. Gli organi di informazione stanno chiudendo, talvolta con debiti, a sinistra a destra; è successo a Il Riformista e a La Bussola quotidiana, non è un mistero la situazione critica de Il Manifesto e de Il Foglio. Difficile di questi tempi immaginare mecenatismi che foraggino giornalisti, filosofi, letterati.
Meno male che qualcosa si muove lo stesso, autonomamente, senza aiuti dallo Stato né dai partiti, con l’impegno di universitari milanesi e il coraggio imprenditoriale delle edizioni Bietti. Parliamo di impegno e coraggio perché la rivista trimestrale che hanno prodotto, Antarès, costa euri zero, è in distribuzione gratuita nelle librerie di alcune città italiane (fra cui Milano, Roma, Torino). Esiste anche un contatto in rete (www.antaresrivista.it) e un profilo su Facebook, ma la vera rivista è cartacea, concreta, chiede per forza un po’ di denaro per esistere. Ecco il coraggio, coi tempi che corrono.
La crisi della politica, dicevamo sopra, è soprattutto crisi di idee. Non che la cosa sia consolante, ma si tratta comunque di un riflesso, di una declinazione, della crisi più grossa, quella dell’intera modernità. Antarès suggerisce aiuti già dal sottotitolo: Prospettive Antimoderne. Che non significa meramente reazionarie o nostalgiche, semmai l’invito è a superare il moderno, fase post compresa, a rimettere in atto certe potenzialità pre-moderne, a-temporali. Significativi in questo senso i nomi degli scrittori e filosofi interrogati dalla rivista. Il primo numero era dedicato a H. P. Lovecraft (solo chi non lo ha mai letto può liquidarlo come semplice scrittore horror), il secondo al “camminare nelle sue valenze spirituali, filosofiche e metafisiche”, il terzo alla “critica metafisica del nostro tempo” in autori come Evola, Jünger Simone Weil, Yukio Mishima, Alain De Benoist.
Il numero fresco di stampa è tutto per Tolkien e per la sua costruzione di “un’epica per il nuovo millennio”. Alcune firme già note danno ancor più lustro all’impresa: Quirino Principe, Gianfranco de Turris (“padrino”  della rivista, che fa luce sulle “radici sacre e simboliche della letteratura fantastica”), Adolfo Morganti, che mette a confronto il sentimento dell’Apocalisse in Solov’ev, James Ballard e Tolkien. Quasi a coronare il tutto, una bella intervista a Franco Cardini sul rapporto fra il padre de Il Signore degli anelli e la tradizione europea.
Ci sentiamo di augura lunga vita ad Antarès, dato che non è facile sopravvivere nell’arena editoriale italiana. Anche se la scrittura non è un  lavoro ma volontariato. E a proposito di volontariato, a differenza di altri campi d’intervento, quello culturale ha bisogno di tempo per studiare e meditare, libri di leggere. Alla lunga diventa difficile reggere dal punto di vista finanziario, l’angoscia di non riuscire a pagare l’affitto o le bollette non è d’aiuto a chi deve sforzare l’intelletto. È ora che qualche mecenate preoccupato per le sorti culturali, politiche ed artistiche del paese se ne renda conto.           

domenica 10 giugno 2012

Presentazione "Un'altra modernità" di Davide Bigalli



Libreria Odradek
Via Principe Eugenio 28
20 giugno 2010 h. 18.00

Presentazione del libro di Davide Bigalli

"Un'altra modernità"
(Edizioni Bietti, Milano 2012)

Interverranno:

Davide Bigalli
Giorgio Galli
Andrea Scarabelli

mercoledì 28 marzo 2012

Fernando Pessoa, Antonio Tabucchi, Brunello de Cusatis, Alessandro Campi

Raccontò solo il Pessoa che faceva comodo alla sinistra dei salotti

di Luigi Mascheroni


Negli ultimi anni, con l'età, la magrezza, gli stessi baffetti, gli identici occhialini, finì per assomigliargli anche fisicamente. Per Antonio Tabucchi, che in Portogallo avrebbe voluto nascere e a Lisbona ha scelto di morire, Fernando Pessoa fu una vera ossessione.
Convinto, senza confessarlo, di incarnare l'ultimo eteronimo del poeta portoghese, lo scrittore italiano volle diventare non un semplice pessoano, e neppure il pessoano per antonomasia. Ma il suo alter ego intellettuale. Non gli interessava essere suo discepolo. Volle esserne il Profeta. Lo studiò, lo tradusse, lo fece pubblicare. Sempre però schifando - e ostacolando con il proprio potere editoriale e accademico - chiunque altro provasse a occuparsene.

Tabucchi, è vero, ha contribuito in maniera fondamentale a far conoscere Pessoa in Italia. Ma fece conoscere un Pessoa, non tutto. Ne diffuse il Verbo. Interpretandolo a suo modo. Sdoganò un Pessoa a suo uso e consumo ideologico, dimenticando e facendo dimenticare il Pessoa che sconfessava le sue idee progressiste e democratiche. Lo amava alla follia. E lo strinse in un abbraccio così forte da soffocarlo.
E così anche l'Italia dei salotti corretti, quelli più chic, dove si sfoglia la Biblioteca Adelphi, e poi addirittura i tascabili Guanda o i supereconomici Newton Compton - dieci anni dopo le pubblicazioni clandestine degli editori «fascisti» come Settimo Sigillo o liberali come Ideazione - potè leggere e parlare del poeta di Lisbona, del suo leggendario baule, dei suoi eteronimi. Ma, grazie e per colpa del monopolio culturale imposto in Italia da Antonio Tabucchi e da Maria Jos´ de Lancastre, sua moglie, il grande pubblico ha assaggiato un Pessoa in salsa progressista: un lirico e un impolitico. Vittima di un'operazione di profilassi, non inconsueta per gli autori ascrivibili alla cultura di destra, Pessoa è stato letto a senso unico. Trascurandone gli aspetti scomodi: il neopaganesimo, il nazionalismo, l'esoterismo. Il pensiero conservatore in ambito filosofico e l'anima liberista in quello economico.
Su questo Pessoa, quello che ideò la pubblicità della Coca-cola per il mercato portoghese, ad esempio, non il Pessoa à la Feltrinelli, hanno scritto molto, ad esempio, Brunello De Cusatis*, il primo a presentare in Italia gli scritti di sociologia e teoria politica del portoghese (e che fu attaccato violentemente da Repubblica nel '94 e dallo stesso Tabucchi sul Corriere della sera nel 2001, per palesi ragioni ideologiche e per nascoste motivazioni accademiche), oppure Alessandro Campi, che nel 1994 curò un numero monografico della rivista Futuro Presente su Pessoa dal titolo «Politica e profezia».
Profetici, in quei testi critici c'era tutto il Pessoa che sarebbe stato, poi, edulcorato: l'anarchico di destra, l'antidemocratico, l'uomo d'ordine. Quando qualcuno, da destra, mostrò l'altra faccia di Pessoa fu ferocemente contestato. Eppure, il mite poeta portoghese scrisse l'elegia Alla memoria del Presidente-re Sidónio Pais, dedicata al dittatore assassinato nel 1918; nel 1928 pubblicò L'interregno, una giustificazione della dittatura militare; e negli anni Venti e Trenta firmò interventi critici sulla democrazia, elitari, duramente antiborghesi. E per quanto riguarda le poesie antisalazariste, furono tutte scritte nel suo ultimo anno di vita, il 1935, dopo la mancata assegnazione del primo premio al suo poema Messaggio... Come riconoscono critici e storici portoghesi (ma non volle dirlo n´ pensarlo Tabucchi), gli interventi di Pessoa a favore dei regimi furono sempre pubblici, contrariamente alla sua posizione contro Salazar, confidenziale.
Tabucchi sognò d'essere Pessoa. Ma, nel sonno della ragione, s'imbattè negli incubi autoritari e messianici dell'enigmatico poeta di Lisbona. Che si proclamava - e fu - conservatore, nazionalista e anticomunista. Soprattutto anarchico. Di certo mai tabucchiano.

(Il Giornale, 26/III/2012)


* Brunello De Cusatis, tra gli autori del libro Manifesto "Per una Nuova Oggettività"  a cura di Giovannini, Lami, Sessa, Vaj, Bonvecchio (Heliopolis, 2011)

lunedì 26 marzo 2012

Coscmicizzare l'esperienza

Editoriale: cosmicizzare l’esperienza
(in Antarès, N. II/2012)

L’esperienza o è cosmica o non è. Gian Franco Lami usava ripetere spesso queste parole, come recentemente ricordatoci da un amico romano che fu suo allievo. Il professore era solito accompagnarle con un ampio gesto circolare, come a voler chiudere uno spazio, rendendolo compiuto in se stesso, cosmico, appunto. Il ricordo della figura di questo filosofo non è episodico. Il presente numero di Antarès, dedicato al pensiero degli intellettuali cosiddetti “antimoderni”, venne originariamente dato alle stampe – in una versione ridotta con quattro articoli e tre recensioni, in una tiratura di centodieci copie numerate – presso l’Università degli Studi di Milano nel mese di gennaio del 2011. Mentre era in fase di stampa, ci raggiunse la tragica notizia della scomparsa del professore, che avemmo la fortuna di incontrare in più occasioni e che, peraltro, lesse ed apprezzò Antarès. Non essendovi tempo sufficiente a comporre un suo ricordo, stampammo una fascetta che allegammo ai centodieci esemplari, contenente un suo breve profilo, accompagnato da queste parole, composte da Ernst Jünger: "Ognuno è immortale, ma certo non come individuo. Egli non tramonta, ma viene innalzato. Mi appassiona piuttosto il problema del trapasso: un calice di terracotta è trasformato in oro e poi in luce. Solo una domanda, in tale questione, mi preoccupa: se questo innalzamento sia ancora percepito dalla conoscenza, se penetri ancora nella coscienza. Ciò dovrebbe avvenire per metà nel tempo, per metà fuori dal tempo. Il sole è tramontato, ma i suoi riflessi splendono ancora. La luce non si spegne, viene riassorbita dalla luce primordiale. I fenomeni ritornano alla loro patria d'origine". Si tratta di una circostanza che ci sembra doveroso ricordare, all’interno di un numero che ricalca, in molte sue sfaccettature, gli innumerevoli interessi di una personalità assai complessa come quella di Lami. E ciò, a partire dalla sua massima citata, la quale può farci pervenire al nucleo di ciò che intendiamo parlando di “antimodernismo”.
L’esperienza o è cosmica o non è. L’esistenza del singolo deve farsi cosmica, analogica e anagogica: se non è in grado, durante il suo svolgimento, di ripetere, nel suo piccolo, meccanismi più ampi, facendosi specchio riflettente la totalità, nemmeno è degna di questo nome. O l’azione dispone di un baricentro spirituale che sia in grado di accordarla ai grandi ritmi del cosmo oppure è semplice convulsione, agitazione fine a se stessa. E ciò vale anche in contesti più ampi. O la vita è orientata metafisicamente, secondo tracciati di natura archetipica, oppure si riduce alla mera sussistenza vegetativa. Bestie, uomini o dèi: spetta a noi scegliere. Non vi è altra soluzione, non vi è una terza possibilità.
La missione più autentica dell’uomo consiste nel farsi carico del peso del cosmo intero, assumendosene la responsabilità. Facendosi carico di questo gravoso compito, l’uomo realizza la sua antica funzione di copula mundi, coniugando superiore ed inferiore, facendo di se stesso un medium, una giuntura. A questo è chiamato, per forgiarsi come tale: può rispondere a questo appello oppure abdicare. Solo la prima opzione lo condurrà ad una realizzazione integrale.
Ciò riguarda l’uomo ma anche i domini della sua esistenza; primo fra tutti, il tempo, antichissima ossessione. Fulcro dell’esperienza cosmica è l’istante della decisione, kairos. O l’istante viene caricato dell’eterno oppure si perde nell’indifferenziato, assieme a milioni di altri attimi, tutti equivalenti nella loro indifferenza. Ecco che accade quando la temporalità non è legata alla metatemporalità, quando la storia non è subordinata alla metastoria, quando, insomma, l’azione cessa di essere cosmica. L’uomo, allora, rimesso alle sue mere possibilità materiali, cerca la ragione del suo agire non in una dimensione altra ma nell’azione stessa, giungendo al cieco attivismo che imperversa presso i cosiddetti moderni, i quali agiscono in una assoluta assenza di fini, solo per perpetuare un meccanismo di cui essi stessi ignorano tanto l’origine quanto la ragion d’essere. Il marchingegno deve essere reso perpetuum mobile, non importa a quale prezzo. Esso deve realizzare le sue possibilità, sempre più velocemente. Incipit della modernità – l’uomo si emancipa, si “libera” dal suo cosmo: hybris suprema. La nemesi che lo attende è terribile: svincolatosi dalla “metafisica”, apprenderà a sue spese che il proprio “io”, suo nuovo padrone, è assai più crudele di quegli “dèi” di cui si è “liberato”. Questa la modernità, in senso vero e proprio – acosmìa dell’azione, progressiva materializzazione dell’uomo, schiavitù dell’uomo innanzi a se stesso. Ora gli uomini innalzano altari a se medesimi – i sacrifici richiesti saranno sempre più ingenti.
L’universo antimoderno è dotato di numerosi accessi. Ne abbiamo scelto uno in particolare, non perché sia più importante di altri ma in quanto più si accorda allo spirito che anima la presente rivista. La critica alla modernità perpetuata dai cosiddetti “antimoderni” si riduce in fondo alla constatazione che questa ultima fonda se stessa negando all’uomo qualsiasi parentela, qualsiasi origine, qualsiasi essenza che non siano materiali. Mentre questi viene così depauperato del suo corredo sovrasensibile e metafisico, subentrano i misfatti di certa sociologia, che vede la massa quale luogo genetico dell’individuo, di certa psicologia, secondo la quale la radice dell’uomo si ritrova in una serie di impulsi inferiori e animali, e di una certa politica, che si esaurisce nella mera amministrazione di popoli ammaestrati dal demagogo – o dal banchiere – di turno. L’uomo viene ridotto ad unità di produzione, animale lavorativo e nulla di più. Scienza e tecnica, in misura sempre maggiore, divorano i simboli. Subentrano nuove metafisiche: nemico del fideismo, il mondo moderno dispone di suoi dogmi peculiari, quali l’uguaglianza, il progresso, il mito della scienza – nessuno sconto di pena a chi osa metterli in questione.
Ancora una volta, è proprio l’assenza di una ragion d’essere esterna a determinare lo sdegno di questi intellettuali. Il che ci riporta alla massima di Lami: per i moderni, dicono i nostri eroi, l’azione è ragion sufficiente di se medesima; essa non deve cioè riferirsi ad un piano che la trascenda. Una autoreferenzialità che non passò inosservata agli occhi di autori come Pessoa, Goethe, Pound, Mishima, Céline, Spengler, Jünger, Massis, de Giorgio, Guénon, Evola e numerosi altri – personaggi le cui opere possono essere considerate quali lettere aperte contro la modernità, la quale, nella loro ottica, nasce proprio dalla rinuncia ad accordare l’esperienza su ritmi più elevati. Prima di essere una fase storica, essa è anzitutto, come ebbe a scrivere Julius Evola nella sua Rivolta contro il mondo moderno (1934), una Weltanschauung, un modo di intendere l’uomo, la sua storia e la sua realtà circostante. La modernità è una categoria mentale, potremmo dire, non senza una certa forzatura. Ragion per cui, sostiene l’autore appena citato, vi possono essere fenomeni moderni anche in realtà pre-moderne e fenomeni antimoderni in seno alla stessa modernità. Non si tratta dunque di epoche quanto piuttosto di modi di inquadrare la stessa storia.
Analogamente, Antoin Compagnon, nel suo Les antimodernes. De Joseph de Maistre a Roland Barthes (Gallimard, Parigi 2005), sottolinea l’intima parentela di modernismo e antimodernismo. Altro che antagonismo! Gli antimoderni, loro malgrado, sono modernissimi, anzi, i più moderni tra i moderni. Tuttavia, sebbene ciò sia difficilmente contestabile, l’analisi del professore francese non coglie l’essenziale. Questo legame, infatti, è ben lungi dal costituire una contraddizione in seno all’antimodernismo: la schizofrenia che Compagnon delinea non riguarda gli antimoderni ma la stessa Modernità, che d'altra parte li ha generati.
Tuttavia, a parte questa puntualizzazione, è bene indugiare su detta apparente antinomia. Moderno e antimoderno non sarebbero, in questa analisi, che sfaccettature della medesima realtà. E ciò a partire dagli stessi “antimoderni”. Nonostante molti di essi dichiarino che una azione contro la modernità non possa dirsi efficace senza il ricorso ad un modus vivendi alieno da essa, ciò non farebbe che riconfermare quanto forte sia il radicamento all’interno della loro realtà – moderna. Ma questo accade – e ciò è fondamentale – in quanto il loro interesse non è distruggere il mondo moderno, quanto piuttosto correggerlo, rettificando quanto in esso vi è di errato, cioè di moderno. Questa duplicità è solo apparente, come ricorda René Guénon – il quale, non casualmente, non è citato nel libro di Compagnon, nonostante la sua assoluta centralità nella polemica in questione – ne La crisi del mondo moderno (trad. di J. Evola, Mediterranee, Roma 2003, p. 53): «Essere risolutamente antimoderni non vuol dire per nulla essere antioccidentali, ma è, invece, l’unica attitudine che deve prendere chi cerchi di salvare l’Occidente superando il suo disordine». È antimoderno, pertanto, chi ritiene sia doverosa una correzione dei presupposti che hanno condotto l’Occidente alla barbarie della Modernità; ma questo, anzitutto, poiché lo stesso mondo moderno nasce con profondi deficit congeniti, con delle falle strutturali in un certo senso ineliminabili – ecco perché gli antimoderni sono e non possono che essere moderni. L’irruzione del mondo moderno genera, insomma, il pensiero antimoderno come sua polarità correlativa, esattamente come – secondo quanto già scritto da altri – all’ingresso di Socrate nelle piazze ateniesi seguì immediatamente il nichilismo di Gorgia e le figure di Robespierre e del conte de Maistre calcarono il palcoscenico della storia assieme. Il sofista e il filosofo, il rivoluzionario e il controrivoluzionario, stanno tra loro come l’antimoderno sta al moderno. Certo, ancora una volta, la frattura non pertiene agli intellettuali in questione ma al periodo storico che ne ospita gli anatemi. Pretendere di riscontrare la frattura della modernità in coloro che la denunciarono equivale a mettere sotto processo un medico per aver diagnosticato una malattia.
Moderno e antimoderno sono modi di interpretare la stessa realtà ma anche figure della temporalità, modi differenti di abitare il tempo. L’una – moderna – dona un senso al presente in relazione ad un futuro sempre più lontano, nel quale proietta i bisogni – insoddisfatti – dell’oggi. L’altra – antimoderna, appunto – descrive il tempo come un regresso inevitabile e continuo generato dalla rottura di un equilibrio originario, ormai irrimediabilmente perduto. Il tempo moderno, progressivo e millenarista, precorre l’utopia: parafrasando le parole di Giorgio Gaber, si potrebbe dire che “qualcuno era moderno perché oggi no, domani forse ma dopodomani sicuramente”. Per assicurarsi credibilità innanzi agli insuccessi del presente, scienza e tecnica devono saper promettere una perfezione futura, ancora da realizzarsi. Da qui l’utopismo peculiare della modernità progressista. Il tempo degli antimoderni, invece, nell’avvicendarsi delle epoche rincorre il mito. L’uno, moderno, si rivolge alla fine della storia, l’altro, antimoderno, alla sua origine. L’uno considera la storia alla stregua di un lungo – e quanto mai astratto – processo di istanti, indifferenti e indifferenziati, l’altro la intende come una figura cosmica e analogica.
Prima di volgerci alla conclusione e lasciare spazio ai contributi, occorre fare qualche rettificazione in merito a ciò che certa vulgata concepisce come “antimodernismo”. Il quale non è passatismo, romanticismo, culto di forme morte, appartenenti ad un passato lontano. Gli antimoderni non sono infatuati dai “bei tempi andati”. Se questo è il loro capo d’accusa, ciò vale anzitutto per gli accusatori, i quali sovente hanno un rapporto con il passato che definire schizofrenico è forse riduttivo, secondo quanto un autore come Nietzsche ebbe a denunciare nel suo scritto dedicato all’utilità e inutilità della storia per la vita. Il culto del passato paralizza il presente, è vero. Ma ciò non vale anzitutto per il mondo moderno, dilacerato da un’ossessione passatista incapacitante e da un culto futurista spesso acritico e miope? Le forme del nostro tempo sono il museo e l’officina, ebbe a scrivere Ernst Jünger già negli anni Trenta. Le cose non sono poi così cambiate.
I nostri antimoderni, invece, si muovono in una prospettiva del tutto differente. Essi anelano alla formazione di un tipo d’uomo che sia in grado di abitare il futuro, un futuro sempre meno decifrabile tramite i consueti strumenti antropologici. Ecco il paradosso della modernità, che questo tipo di pensiero tenta di risolvere: il mondo moderno dispone di un ordinamento che in qualche modo si è già realizzato ma che l’uomo non riesce ad interpretare. Il nostro tempo segue ritmi sempre più accelerati non più decifrabili dall’uomo, il quale, secondo la felice formula di Gunther Anders, è antiquato rispetto ad essi. Gli ordinamenti sotto il segno dei quali si compie l’attuale formazione del mondo tendono a scavalcare l’umanità, i popoli, che ne subiscono gli effetti passivamente. Ciò è sotto gli occhi di tutti e gli eventi di questo ultimo periodo hanno reso sempre più palese questo scarto. La modernità sorge con un dislivello inaudito tra il progresso e la capacità dell’uomo di farsi protagonista di esso. Ciò ben comprese il già citato Jünger, allorché, negli anni Novanta, ebbe a dichiarare, ad Antonio Gnoli e Franco Volpi (I prossimi titani. Conversazioni con Ernst Jünger, Adelphi, Milano 1997, p. 67): “la tecnica, in quanto fenomeno universale, cosmopolitico, che spinge inesorabilmente alla globalizzazione, prepara lo Stato Mondiale e, anzi, in una certa misura, lo ha già realizzato. Lo Stato Mondiale ne è il corrispettivo politico”. Tuttavia, questa forma storica non si è ancora realizzata. O meglio, come lo scrittore tedesco confidava a Julien Hervier, “tecnicamente, è già realizzato, ma la politica segue l'evoluzione tecnica zoppicando” (J. Hervier, Conversazioni con Ernst Jünger, Guanda, Parma 1988, p. 111). La tecnica, insomma, ha già realizzato lo Stato Globale ma la politica, che non riesce ad essere al suo livello, non lo concepisce ancora: “tutto è planetario, il telegrafo come i collegamenti aerei, ma non abbiamo l'ordine planetario […]. È un fenomeno generale: i pensieri vanno con un'andatura diversa da quella degli eventi reali” (Ivi, p. 108). Ecco il dislivello in questione. Obiettivo del pensiero antimoderno è la creazione di un tipo di uomo che sia in grado di intendere la portata delle conquiste della scienza e della tecnica, per tornare ad essere protagonista del proprio destino.
Un ulteriore esempio potrà chiarire la faccenda. Se pensiamo allo sviluppo di Internet, ecco che le profezie jüngeriane acquisiscono una attualità sconcertante. Si parla tanto di globalizzazione, di Stato globale, spesso in maniera poco competente e approfondita. Ebbene, potremmo dire, riprendendo le tesi appena citate, che la Rete ha già realizzato la globalizzazione, nella misura in cui è possibile, in tempo reale, vedere e parlare con qualcuno che si trova dall’altra parte del globo, nella misura in cui il fruitore della Rete accede ad un gran numero di informazioni a proposito del mondo nella sua totalità. Internet, aprendo uno spazio che scavalca le frontiere statali e permettendo ad ognuno di abitare questo interregno tecnico, realizza una percezione totale del mondo.
Ebbene, l’uomo è riuscito ad accogliere, a fare propria questa percezione? No, o meglio, non ancora, la sua prospettiva permanendo, tutto sommato, in una parzialità che mal si accorda all’apertura dei grandi spazi realizzata da Internet. Questo il dislivello: l’unificazione del mondo è accaduta, certo, ma su base tecnica e non antropologica. Per poi non parlare della politica: laddove essa tenta di adeguarsi a questa nuova percezione del mondo – con organizzazioni quali la Società delle Nazioni di ieri o l’ONU di oggi – essa non fa che rivelare la potenza totalitaria di poche nazioni. La globalizzazione odierna, ben lungi dal creare uno stile globale, valorizzante le naturali diseguaglianze e specificità dei popoli nell’ottica di un progetto di macrointegrazione più ampio, in fondo non è che l’imposizione su scala planetaria di una forma politica, di un modus vivendi tra gli altri, reso preponderante semplicemente dalla violenza dei mezzi utilizzati a che la sua propaganda sia massiva. Manca, insomma, un linguaggio globale di tipo politico – quello tecnico, è diffuso già da tempo.
Se consideriamo poi il legame che la globalizzazione attuale intrattiene con l’economia, la situazione si semplifica ulteriormente. Il dollaro è la madrelingua dello Stato globale – è la dèmonia dell’economia, acerrima nemica degli apparati politici e della partecipazione dei popoli alla politica, come ebbero a denunciare in molti, da Werner Sombart e Carl Schmitt ad Oswald Spengler e Ernst Jünger, da Julius Evola a Ezra Pound e Giano Accame. Anche qui, il dislivello è palese: lo Stato Globale è percepibile in termini finanziari ma non politici ed antropologici.
Queste sono diverse sfaccettature della mancata partecipazione dell’uomo al suo proprio destino, dovuta alla mutilazione che la modernità gli impone. Spogliato delle sue possibilità superiori, non rimane di esso che un'entità atomizzata, costretta ad oscillare passivamente tra gli eventi. La vittoria dell’“ultimo uomo” annunciato da Nietzsche, preda delle convulsioni terminali di un sistema la cui graduale cancrena è ormai sotto gli occhi di tutti. Gli esiti di questa deriva sono dovuti, come già accennato, alla modernizzazione dell'Occidente che pare non abbia provveduto a che un uomo davvero moderno fosse creato.
Di fronte a questo smarrimento, forse aveva ragione Gian Franco Lami – il quale non fece in tempo a leggere questo numero, che la redazione oggi offre ai lettori. L’esperienza o è cosmica o non è. E quella moderna, decisamente, non è.