mercoledì 28 marzo 2012

Fernando Pessoa, Antonio Tabucchi, Brunello de Cusatis, Alessandro Campi

Raccontò solo il Pessoa che faceva comodo alla sinistra dei salotti

di Luigi Mascheroni


Negli ultimi anni, con l'età, la magrezza, gli stessi baffetti, gli identici occhialini, finì per assomigliargli anche fisicamente. Per Antonio Tabucchi, che in Portogallo avrebbe voluto nascere e a Lisbona ha scelto di morire, Fernando Pessoa fu una vera ossessione.
Convinto, senza confessarlo, di incarnare l'ultimo eteronimo del poeta portoghese, lo scrittore italiano volle diventare non un semplice pessoano, e neppure il pessoano per antonomasia. Ma il suo alter ego intellettuale. Non gli interessava essere suo discepolo. Volle esserne il Profeta. Lo studiò, lo tradusse, lo fece pubblicare. Sempre però schifando - e ostacolando con il proprio potere editoriale e accademico - chiunque altro provasse a occuparsene.

Tabucchi, è vero, ha contribuito in maniera fondamentale a far conoscere Pessoa in Italia. Ma fece conoscere un Pessoa, non tutto. Ne diffuse il Verbo. Interpretandolo a suo modo. Sdoganò un Pessoa a suo uso e consumo ideologico, dimenticando e facendo dimenticare il Pessoa che sconfessava le sue idee progressiste e democratiche. Lo amava alla follia. E lo strinse in un abbraccio così forte da soffocarlo.
E così anche l'Italia dei salotti corretti, quelli più chic, dove si sfoglia la Biblioteca Adelphi, e poi addirittura i tascabili Guanda o i supereconomici Newton Compton - dieci anni dopo le pubblicazioni clandestine degli editori «fascisti» come Settimo Sigillo o liberali come Ideazione - potè leggere e parlare del poeta di Lisbona, del suo leggendario baule, dei suoi eteronimi. Ma, grazie e per colpa del monopolio culturale imposto in Italia da Antonio Tabucchi e da Maria Jos´ de Lancastre, sua moglie, il grande pubblico ha assaggiato un Pessoa in salsa progressista: un lirico e un impolitico. Vittima di un'operazione di profilassi, non inconsueta per gli autori ascrivibili alla cultura di destra, Pessoa è stato letto a senso unico. Trascurandone gli aspetti scomodi: il neopaganesimo, il nazionalismo, l'esoterismo. Il pensiero conservatore in ambito filosofico e l'anima liberista in quello economico.
Su questo Pessoa, quello che ideò la pubblicità della Coca-cola per il mercato portoghese, ad esempio, non il Pessoa à la Feltrinelli, hanno scritto molto, ad esempio, Brunello De Cusatis*, il primo a presentare in Italia gli scritti di sociologia e teoria politica del portoghese (e che fu attaccato violentemente da Repubblica nel '94 e dallo stesso Tabucchi sul Corriere della sera nel 2001, per palesi ragioni ideologiche e per nascoste motivazioni accademiche), oppure Alessandro Campi, che nel 1994 curò un numero monografico della rivista Futuro Presente su Pessoa dal titolo «Politica e profezia».
Profetici, in quei testi critici c'era tutto il Pessoa che sarebbe stato, poi, edulcorato: l'anarchico di destra, l'antidemocratico, l'uomo d'ordine. Quando qualcuno, da destra, mostrò l'altra faccia di Pessoa fu ferocemente contestato. Eppure, il mite poeta portoghese scrisse l'elegia Alla memoria del Presidente-re Sidónio Pais, dedicata al dittatore assassinato nel 1918; nel 1928 pubblicò L'interregno, una giustificazione della dittatura militare; e negli anni Venti e Trenta firmò interventi critici sulla democrazia, elitari, duramente antiborghesi. E per quanto riguarda le poesie antisalazariste, furono tutte scritte nel suo ultimo anno di vita, il 1935, dopo la mancata assegnazione del primo premio al suo poema Messaggio... Come riconoscono critici e storici portoghesi (ma non volle dirlo n´ pensarlo Tabucchi), gli interventi di Pessoa a favore dei regimi furono sempre pubblici, contrariamente alla sua posizione contro Salazar, confidenziale.
Tabucchi sognò d'essere Pessoa. Ma, nel sonno della ragione, s'imbattè negli incubi autoritari e messianici dell'enigmatico poeta di Lisbona. Che si proclamava - e fu - conservatore, nazionalista e anticomunista. Soprattutto anarchico. Di certo mai tabucchiano.

(Il Giornale, 26/III/2012)


* Brunello De Cusatis, tra gli autori del libro Manifesto "Per una Nuova Oggettività"  a cura di Giovannini, Lami, Sessa, Vaj, Bonvecchio (Heliopolis, 2011)

lunedì 26 marzo 2012

Coscmicizzare l'esperienza

Editoriale: cosmicizzare l’esperienza
(in Antarès, N. II/2012)

L’esperienza o è cosmica o non è. Gian Franco Lami usava ripetere spesso queste parole, come recentemente ricordatoci da un amico romano che fu suo allievo. Il professore era solito accompagnarle con un ampio gesto circolare, come a voler chiudere uno spazio, rendendolo compiuto in se stesso, cosmico, appunto. Il ricordo della figura di questo filosofo non è episodico. Il presente numero di Antarès, dedicato al pensiero degli intellettuali cosiddetti “antimoderni”, venne originariamente dato alle stampe – in una versione ridotta con quattro articoli e tre recensioni, in una tiratura di centodieci copie numerate – presso l’Università degli Studi di Milano nel mese di gennaio del 2011. Mentre era in fase di stampa, ci raggiunse la tragica notizia della scomparsa del professore, che avemmo la fortuna di incontrare in più occasioni e che, peraltro, lesse ed apprezzò Antarès. Non essendovi tempo sufficiente a comporre un suo ricordo, stampammo una fascetta che allegammo ai centodieci esemplari, contenente un suo breve profilo, accompagnato da queste parole, composte da Ernst Jünger: "Ognuno è immortale, ma certo non come individuo. Egli non tramonta, ma viene innalzato. Mi appassiona piuttosto il problema del trapasso: un calice di terracotta è trasformato in oro e poi in luce. Solo una domanda, in tale questione, mi preoccupa: se questo innalzamento sia ancora percepito dalla conoscenza, se penetri ancora nella coscienza. Ciò dovrebbe avvenire per metà nel tempo, per metà fuori dal tempo. Il sole è tramontato, ma i suoi riflessi splendono ancora. La luce non si spegne, viene riassorbita dalla luce primordiale. I fenomeni ritornano alla loro patria d'origine". Si tratta di una circostanza che ci sembra doveroso ricordare, all’interno di un numero che ricalca, in molte sue sfaccettature, gli innumerevoli interessi di una personalità assai complessa come quella di Lami. E ciò, a partire dalla sua massima citata, la quale può farci pervenire al nucleo di ciò che intendiamo parlando di “antimodernismo”.
L’esperienza o è cosmica o non è. L’esistenza del singolo deve farsi cosmica, analogica e anagogica: se non è in grado, durante il suo svolgimento, di ripetere, nel suo piccolo, meccanismi più ampi, facendosi specchio riflettente la totalità, nemmeno è degna di questo nome. O l’azione dispone di un baricentro spirituale che sia in grado di accordarla ai grandi ritmi del cosmo oppure è semplice convulsione, agitazione fine a se stessa. E ciò vale anche in contesti più ampi. O la vita è orientata metafisicamente, secondo tracciati di natura archetipica, oppure si riduce alla mera sussistenza vegetativa. Bestie, uomini o dèi: spetta a noi scegliere. Non vi è altra soluzione, non vi è una terza possibilità.
La missione più autentica dell’uomo consiste nel farsi carico del peso del cosmo intero, assumendosene la responsabilità. Facendosi carico di questo gravoso compito, l’uomo realizza la sua antica funzione di copula mundi, coniugando superiore ed inferiore, facendo di se stesso un medium, una giuntura. A questo è chiamato, per forgiarsi come tale: può rispondere a questo appello oppure abdicare. Solo la prima opzione lo condurrà ad una realizzazione integrale.
Ciò riguarda l’uomo ma anche i domini della sua esistenza; primo fra tutti, il tempo, antichissima ossessione. Fulcro dell’esperienza cosmica è l’istante della decisione, kairos. O l’istante viene caricato dell’eterno oppure si perde nell’indifferenziato, assieme a milioni di altri attimi, tutti equivalenti nella loro indifferenza. Ecco che accade quando la temporalità non è legata alla metatemporalità, quando la storia non è subordinata alla metastoria, quando, insomma, l’azione cessa di essere cosmica. L’uomo, allora, rimesso alle sue mere possibilità materiali, cerca la ragione del suo agire non in una dimensione altra ma nell’azione stessa, giungendo al cieco attivismo che imperversa presso i cosiddetti moderni, i quali agiscono in una assoluta assenza di fini, solo per perpetuare un meccanismo di cui essi stessi ignorano tanto l’origine quanto la ragion d’essere. Il marchingegno deve essere reso perpetuum mobile, non importa a quale prezzo. Esso deve realizzare le sue possibilità, sempre più velocemente. Incipit della modernità – l’uomo si emancipa, si “libera” dal suo cosmo: hybris suprema. La nemesi che lo attende è terribile: svincolatosi dalla “metafisica”, apprenderà a sue spese che il proprio “io”, suo nuovo padrone, è assai più crudele di quegli “dèi” di cui si è “liberato”. Questa la modernità, in senso vero e proprio – acosmìa dell’azione, progressiva materializzazione dell’uomo, schiavitù dell’uomo innanzi a se stesso. Ora gli uomini innalzano altari a se medesimi – i sacrifici richiesti saranno sempre più ingenti.
L’universo antimoderno è dotato di numerosi accessi. Ne abbiamo scelto uno in particolare, non perché sia più importante di altri ma in quanto più si accorda allo spirito che anima la presente rivista. La critica alla modernità perpetuata dai cosiddetti “antimoderni” si riduce in fondo alla constatazione che questa ultima fonda se stessa negando all’uomo qualsiasi parentela, qualsiasi origine, qualsiasi essenza che non siano materiali. Mentre questi viene così depauperato del suo corredo sovrasensibile e metafisico, subentrano i misfatti di certa sociologia, che vede la massa quale luogo genetico dell’individuo, di certa psicologia, secondo la quale la radice dell’uomo si ritrova in una serie di impulsi inferiori e animali, e di una certa politica, che si esaurisce nella mera amministrazione di popoli ammaestrati dal demagogo – o dal banchiere – di turno. L’uomo viene ridotto ad unità di produzione, animale lavorativo e nulla di più. Scienza e tecnica, in misura sempre maggiore, divorano i simboli. Subentrano nuove metafisiche: nemico del fideismo, il mondo moderno dispone di suoi dogmi peculiari, quali l’uguaglianza, il progresso, il mito della scienza – nessuno sconto di pena a chi osa metterli in questione.
Ancora una volta, è proprio l’assenza di una ragion d’essere esterna a determinare lo sdegno di questi intellettuali. Il che ci riporta alla massima di Lami: per i moderni, dicono i nostri eroi, l’azione è ragion sufficiente di se medesima; essa non deve cioè riferirsi ad un piano che la trascenda. Una autoreferenzialità che non passò inosservata agli occhi di autori come Pessoa, Goethe, Pound, Mishima, Céline, Spengler, Jünger, Massis, de Giorgio, Guénon, Evola e numerosi altri – personaggi le cui opere possono essere considerate quali lettere aperte contro la modernità, la quale, nella loro ottica, nasce proprio dalla rinuncia ad accordare l’esperienza su ritmi più elevati. Prima di essere una fase storica, essa è anzitutto, come ebbe a scrivere Julius Evola nella sua Rivolta contro il mondo moderno (1934), una Weltanschauung, un modo di intendere l’uomo, la sua storia e la sua realtà circostante. La modernità è una categoria mentale, potremmo dire, non senza una certa forzatura. Ragion per cui, sostiene l’autore appena citato, vi possono essere fenomeni moderni anche in realtà pre-moderne e fenomeni antimoderni in seno alla stessa modernità. Non si tratta dunque di epoche quanto piuttosto di modi di inquadrare la stessa storia.
Analogamente, Antoin Compagnon, nel suo Les antimodernes. De Joseph de Maistre a Roland Barthes (Gallimard, Parigi 2005), sottolinea l’intima parentela di modernismo e antimodernismo. Altro che antagonismo! Gli antimoderni, loro malgrado, sono modernissimi, anzi, i più moderni tra i moderni. Tuttavia, sebbene ciò sia difficilmente contestabile, l’analisi del professore francese non coglie l’essenziale. Questo legame, infatti, è ben lungi dal costituire una contraddizione in seno all’antimodernismo: la schizofrenia che Compagnon delinea non riguarda gli antimoderni ma la stessa Modernità, che d'altra parte li ha generati.
Tuttavia, a parte questa puntualizzazione, è bene indugiare su detta apparente antinomia. Moderno e antimoderno non sarebbero, in questa analisi, che sfaccettature della medesima realtà. E ciò a partire dagli stessi “antimoderni”. Nonostante molti di essi dichiarino che una azione contro la modernità non possa dirsi efficace senza il ricorso ad un modus vivendi alieno da essa, ciò non farebbe che riconfermare quanto forte sia il radicamento all’interno della loro realtà – moderna. Ma questo accade – e ciò è fondamentale – in quanto il loro interesse non è distruggere il mondo moderno, quanto piuttosto correggerlo, rettificando quanto in esso vi è di errato, cioè di moderno. Questa duplicità è solo apparente, come ricorda René Guénon – il quale, non casualmente, non è citato nel libro di Compagnon, nonostante la sua assoluta centralità nella polemica in questione – ne La crisi del mondo moderno (trad. di J. Evola, Mediterranee, Roma 2003, p. 53): «Essere risolutamente antimoderni non vuol dire per nulla essere antioccidentali, ma è, invece, l’unica attitudine che deve prendere chi cerchi di salvare l’Occidente superando il suo disordine». È antimoderno, pertanto, chi ritiene sia doverosa una correzione dei presupposti che hanno condotto l’Occidente alla barbarie della Modernità; ma questo, anzitutto, poiché lo stesso mondo moderno nasce con profondi deficit congeniti, con delle falle strutturali in un certo senso ineliminabili – ecco perché gli antimoderni sono e non possono che essere moderni. L’irruzione del mondo moderno genera, insomma, il pensiero antimoderno come sua polarità correlativa, esattamente come – secondo quanto già scritto da altri – all’ingresso di Socrate nelle piazze ateniesi seguì immediatamente il nichilismo di Gorgia e le figure di Robespierre e del conte de Maistre calcarono il palcoscenico della storia assieme. Il sofista e il filosofo, il rivoluzionario e il controrivoluzionario, stanno tra loro come l’antimoderno sta al moderno. Certo, ancora una volta, la frattura non pertiene agli intellettuali in questione ma al periodo storico che ne ospita gli anatemi. Pretendere di riscontrare la frattura della modernità in coloro che la denunciarono equivale a mettere sotto processo un medico per aver diagnosticato una malattia.
Moderno e antimoderno sono modi di interpretare la stessa realtà ma anche figure della temporalità, modi differenti di abitare il tempo. L’una – moderna – dona un senso al presente in relazione ad un futuro sempre più lontano, nel quale proietta i bisogni – insoddisfatti – dell’oggi. L’altra – antimoderna, appunto – descrive il tempo come un regresso inevitabile e continuo generato dalla rottura di un equilibrio originario, ormai irrimediabilmente perduto. Il tempo moderno, progressivo e millenarista, precorre l’utopia: parafrasando le parole di Giorgio Gaber, si potrebbe dire che “qualcuno era moderno perché oggi no, domani forse ma dopodomani sicuramente”. Per assicurarsi credibilità innanzi agli insuccessi del presente, scienza e tecnica devono saper promettere una perfezione futura, ancora da realizzarsi. Da qui l’utopismo peculiare della modernità progressista. Il tempo degli antimoderni, invece, nell’avvicendarsi delle epoche rincorre il mito. L’uno, moderno, si rivolge alla fine della storia, l’altro, antimoderno, alla sua origine. L’uno considera la storia alla stregua di un lungo – e quanto mai astratto – processo di istanti, indifferenti e indifferenziati, l’altro la intende come una figura cosmica e analogica.
Prima di volgerci alla conclusione e lasciare spazio ai contributi, occorre fare qualche rettificazione in merito a ciò che certa vulgata concepisce come “antimodernismo”. Il quale non è passatismo, romanticismo, culto di forme morte, appartenenti ad un passato lontano. Gli antimoderni non sono infatuati dai “bei tempi andati”. Se questo è il loro capo d’accusa, ciò vale anzitutto per gli accusatori, i quali sovente hanno un rapporto con il passato che definire schizofrenico è forse riduttivo, secondo quanto un autore come Nietzsche ebbe a denunciare nel suo scritto dedicato all’utilità e inutilità della storia per la vita. Il culto del passato paralizza il presente, è vero. Ma ciò non vale anzitutto per il mondo moderno, dilacerato da un’ossessione passatista incapacitante e da un culto futurista spesso acritico e miope? Le forme del nostro tempo sono il museo e l’officina, ebbe a scrivere Ernst Jünger già negli anni Trenta. Le cose non sono poi così cambiate.
I nostri antimoderni, invece, si muovono in una prospettiva del tutto differente. Essi anelano alla formazione di un tipo d’uomo che sia in grado di abitare il futuro, un futuro sempre meno decifrabile tramite i consueti strumenti antropologici. Ecco il paradosso della modernità, che questo tipo di pensiero tenta di risolvere: il mondo moderno dispone di un ordinamento che in qualche modo si è già realizzato ma che l’uomo non riesce ad interpretare. Il nostro tempo segue ritmi sempre più accelerati non più decifrabili dall’uomo, il quale, secondo la felice formula di Gunther Anders, è antiquato rispetto ad essi. Gli ordinamenti sotto il segno dei quali si compie l’attuale formazione del mondo tendono a scavalcare l’umanità, i popoli, che ne subiscono gli effetti passivamente. Ciò è sotto gli occhi di tutti e gli eventi di questo ultimo periodo hanno reso sempre più palese questo scarto. La modernità sorge con un dislivello inaudito tra il progresso e la capacità dell’uomo di farsi protagonista di esso. Ciò ben comprese il già citato Jünger, allorché, negli anni Novanta, ebbe a dichiarare, ad Antonio Gnoli e Franco Volpi (I prossimi titani. Conversazioni con Ernst Jünger, Adelphi, Milano 1997, p. 67): “la tecnica, in quanto fenomeno universale, cosmopolitico, che spinge inesorabilmente alla globalizzazione, prepara lo Stato Mondiale e, anzi, in una certa misura, lo ha già realizzato. Lo Stato Mondiale ne è il corrispettivo politico”. Tuttavia, questa forma storica non si è ancora realizzata. O meglio, come lo scrittore tedesco confidava a Julien Hervier, “tecnicamente, è già realizzato, ma la politica segue l'evoluzione tecnica zoppicando” (J. Hervier, Conversazioni con Ernst Jünger, Guanda, Parma 1988, p. 111). La tecnica, insomma, ha già realizzato lo Stato Globale ma la politica, che non riesce ad essere al suo livello, non lo concepisce ancora: “tutto è planetario, il telegrafo come i collegamenti aerei, ma non abbiamo l'ordine planetario […]. È un fenomeno generale: i pensieri vanno con un'andatura diversa da quella degli eventi reali” (Ivi, p. 108). Ecco il dislivello in questione. Obiettivo del pensiero antimoderno è la creazione di un tipo di uomo che sia in grado di intendere la portata delle conquiste della scienza e della tecnica, per tornare ad essere protagonista del proprio destino.
Un ulteriore esempio potrà chiarire la faccenda. Se pensiamo allo sviluppo di Internet, ecco che le profezie jüngeriane acquisiscono una attualità sconcertante. Si parla tanto di globalizzazione, di Stato globale, spesso in maniera poco competente e approfondita. Ebbene, potremmo dire, riprendendo le tesi appena citate, che la Rete ha già realizzato la globalizzazione, nella misura in cui è possibile, in tempo reale, vedere e parlare con qualcuno che si trova dall’altra parte del globo, nella misura in cui il fruitore della Rete accede ad un gran numero di informazioni a proposito del mondo nella sua totalità. Internet, aprendo uno spazio che scavalca le frontiere statali e permettendo ad ognuno di abitare questo interregno tecnico, realizza una percezione totale del mondo.
Ebbene, l’uomo è riuscito ad accogliere, a fare propria questa percezione? No, o meglio, non ancora, la sua prospettiva permanendo, tutto sommato, in una parzialità che mal si accorda all’apertura dei grandi spazi realizzata da Internet. Questo il dislivello: l’unificazione del mondo è accaduta, certo, ma su base tecnica e non antropologica. Per poi non parlare della politica: laddove essa tenta di adeguarsi a questa nuova percezione del mondo – con organizzazioni quali la Società delle Nazioni di ieri o l’ONU di oggi – essa non fa che rivelare la potenza totalitaria di poche nazioni. La globalizzazione odierna, ben lungi dal creare uno stile globale, valorizzante le naturali diseguaglianze e specificità dei popoli nell’ottica di un progetto di macrointegrazione più ampio, in fondo non è che l’imposizione su scala planetaria di una forma politica, di un modus vivendi tra gli altri, reso preponderante semplicemente dalla violenza dei mezzi utilizzati a che la sua propaganda sia massiva. Manca, insomma, un linguaggio globale di tipo politico – quello tecnico, è diffuso già da tempo.
Se consideriamo poi il legame che la globalizzazione attuale intrattiene con l’economia, la situazione si semplifica ulteriormente. Il dollaro è la madrelingua dello Stato globale – è la dèmonia dell’economia, acerrima nemica degli apparati politici e della partecipazione dei popoli alla politica, come ebbero a denunciare in molti, da Werner Sombart e Carl Schmitt ad Oswald Spengler e Ernst Jünger, da Julius Evola a Ezra Pound e Giano Accame. Anche qui, il dislivello è palese: lo Stato Globale è percepibile in termini finanziari ma non politici ed antropologici.
Queste sono diverse sfaccettature della mancata partecipazione dell’uomo al suo proprio destino, dovuta alla mutilazione che la modernità gli impone. Spogliato delle sue possibilità superiori, non rimane di esso che un'entità atomizzata, costretta ad oscillare passivamente tra gli eventi. La vittoria dell’“ultimo uomo” annunciato da Nietzsche, preda delle convulsioni terminali di un sistema la cui graduale cancrena è ormai sotto gli occhi di tutti. Gli esiti di questa deriva sono dovuti, come già accennato, alla modernizzazione dell'Occidente che pare non abbia provveduto a che un uomo davvero moderno fosse creato.
Di fronte a questo smarrimento, forse aveva ragione Gian Franco Lami – il quale non fece in tempo a leggere questo numero, che la redazione oggi offre ai lettori. L’esperienza o è cosmica o non è. E quella moderna, decisamente, non è.

L'Anarca e la Via del Bosco

Ernst Jünger: L'Anarca e la Via del bosco
di Andrea Scarabelli
(in Antarès, N. 2/2012)

“Le catastrofi portano alla ribalta figure che si dimostrano capaci di tenere loro testa” (1): la comprensione di questo meccanismo, all’interno del quale è ravvisabile una concezione in cui la crisi cela in sé il suo stesso superamento – a patto che si abbiano occhi per vederlo – è essenziale, in momenti come quello in cui ci ritroviamo, nei quali problemi inauditi si annunciano e, al contempo, si rivelano insufficienti le vecchie ricette. D’altra parte, è fondamentale si tratti di figure che mantengano un’autarchia assoluta rispetto alle fascinazioni del presente. E ciò, nella persuasione che, com’ebbe a scrivere l’intellettuale di cui ci occupiamo in questo scritto, “opposizione è collaborazione” (2). A volte, anche se non ce ne rendiamo conto, l’opporsi al sistema vigente rende a quest’ultimo un servigio notevole. Talune manifestazioni non fanno che rafforzare quel potere di cui si vorrebbe bandire la ragion d’essere. Due massime, queste, che potrebbero guidare una contestazione integrale ed efficace.
Su Ernst Jünger è stato scritto molto, forse anche troppo. La sua biografia ha attraversato tutto il XX secolo: nato nel 1895, si è spento due anni prima della fine del millennio. Arruolatosi, quattordicenne, nella legione straniera, ha partecipato a entrambi i conflitti mondiali. È stato, tra le altre cose, diarista, scrittore, entomologo, artista e filosofo – tra i suoi dialoghi più famosi, ricordiamo quelli con Carl Schmitt e Martin Heidegger (3). La sua ampia opera spazia dalla filosofia alla metafisica della storia, dalla diaristica di guerra alla sociologia, dalla distopia ai saggi sugli stupefacenti, dalla geologia alla fisica. Sebbene essa disponga di svariati accessi, tutti conducono ad un unico sentiero, che si perde al di là del tempo e della storia. Uno di questi prende le mosse dalle figure paradigmatiche del Waldgänger – colui che passa al bosco – e dell'Anarca, che iniziano a farsi strada nell'opera dello scrittore a partire dagli anni Cinquanta. In esse può intravedersi un tentativo di elaborare una concezione del singolo che vada al di là del nichilismo e dei suoi domini. Il più sinistro di tutti gli ospiti, come lo definì Nietzsche, ha ormai preso possesso delle categorie dell'uomo moderno – è possibile mettersi al riparo da esso, senza sfuggirgli tramite il ricorso a fughe, tanto artificiali quanto vane? Forse l'opera intera di Jünger sorge a partire da questo interrogativo, da questa scommessa che l'uomo moderno stipula con il proprio tempo. Nella sua carriera letteraria ed esistenziale, Jünger si servì di numerose elaborazioni letterarie e filosofiche per dimostrare la possibilità, per usare un'immagine tanto cara ad Evola, di tenersi in piedi, in mezzo ad un mondo di rovine spirituali, senza schivarne le insidie. Trarre da esso un insegnamento, esponendosi alla domanda fondamentale che il nulla pone: chi sei tu? Questo il tratto che accomuna, secondo noi, i personaggi di carta, sangue e storia creati da Jünger: il Krieger, il guerriero (che si forma spiritualmente nei conflitti moderni nei quali è la tecnica ad avere la meglio su qualsiasi ordinamento umano) il Dichter, il poeta (che, in tempi di crisi, attinge alle fonti non contaminate dell'essere) l'Arbeiter, il lavoratore (che utilizza le forze scatenate dalla tecnica per la propria formazione attraversando, come una salamandra, il fuoco senza venirne danneggiato ma potenziandosi). Ognuna di queste figure è una risposta alla domanda del Nulla, è un invito a cercare il proprio Io in regioni che siano all'altezza del mondo in cui ci troviamo a vivere. Il nulla chiede all'uomo di identificarsi. La risposta che il singolo fornirà a questa domanda sarà il criterio per discriminarne il rango. Il Waldgänger e l'Anarca sono due possibili risposte. É quanto si tratta ora di illustrare.
La figura del Waldgänger emerge nell'opera jüngeriana dopo la Seconda Guerra Mondiale, a partire dal fallimento di tutta una serie di modelli storici – molto più antichi, è bene ricordarlo, dei primi decenni del XX secolo. In un panorama di questo tipo, a seguito del crollo delle grandi ideologie, sorge un uomo abbandonato alle proprie forze individuali. Rimesso a se stesso, dopo il naufragio delle parole d'ordine, il singolo si trova solo, immerso nella eco del loro crollo. Si entra nell'epoca delle decisioni capitali – il fulcro è ora in mano all'uomo, nella sua singolarità e peculiarità. Salvezza e libertà dipenderanno, in misura sempre maggiore, dalla sua risolutezza (4): non potendo trovare la sua libertà altrove dovrà tentare di rifondarla in se stesso. “Ha il singolo forza sufficiente per affrontare un'impresa del genere?” (5): questa la questione fondamentale a partire dalla quale emerge l'immagine di un uomo che, riconosciuto il fondo nichilistico della Modernità, tenta di esperire questa ultima in maniera più autentica, passando al bosco.
Passare al bosco: ciò denota la figura di cui cerchiamo di delineare il sorgere. L'uomo che si dà alla macchia è il Ribelle, colui che non riesce a rinunciare alla propria libertà, che la reputa superiore persino alla propria esistenza terrena. Affinché questo transito possa avere successo, egli deve confrontarsi con la sua essenza metatemporale: “l'uomo del progresso, del movimento e delle manifestazioni storiche deve fare i conti con la propria essenza immodificabile, sovratemporale, che s'incarna e si trasforma nel corso della storia” (6). Solo a partire da questo confronto può sorgere una ribellione che voglia dirsi autentica ed effettiva. Scelta preliminare di siffatto orientamento sarà l'estirpare l'umanità dalla mera concezione materialistica di quest'ultima che domina negli ultimi tre secoli. La libertà che reclama il Waldgänger non è una indefinita assenza di limitazione ma la necessita che l'uomo non si esaurisca nelle proprie spoglie mortali. Il Ribelle è pienamente consapevole che la riduzione dell'uomo ad ente biopsichico è la chiave di volta di ogni tirannide. Per condurre la sua lotta contro il dominio dei Leviatani, egli è ben conscio della limitatezza degli strumenti offerti da un presente votatosi interamente al materialismo storico. Egli non necessita di nuove bandiere per ammainarne altre ma di un nucleo pulsante che cada al di là del tempo e spazio – il suo manualetto, i suoi breviari, sono intrisi di sapienza mitica. É dal mito, la cui essenza si ripete nella storia come le albe e i tramonti, che la sua resistenza prende le mosse: egli “è molto determinato a difendersi non soltanto usando tecniche e idee del suo tempo, ma anche mantenendo vivo il contatto con quei poteri che, superiori alle forze temporali, non si esauriscono mai in puro movimento” (7). Il fronte sul quale combatte è essenzialmente spirituale. La sua è una avanguardia metafisica; nei tiranni, egli non vede uomini o scettri ma titani.
Molti hanno interpretato la via del bosco alla stregua di una fuga dal presente, quasi come un mito incapacitante elaborato da chi ha rinunciato ad operare nella e sulla propria contemporaneità. Nulla di più falso. Non si tratta di una diserzione dalla realtà o di un rifugio romantico. Il passaggio al bosco non implica una fuga dalla società, verso un indefinito stato di natura; questo movimento, al contrario, è eversivo; esso si fonda sulla possibilità di intervenire sul proprio tempo, operandone una correzione dall'interno: “Il bosco è dappertutto: in zone disabitate e nelle città, dove il Ribelle vive nascosto oppure si maschera dietro il paravento di una professione […]. Il bosco è in patria e in ogni luogo dove il Ribelle possa praticare la resistenza” (8). Questa la persuasione del Waldgänger – il suo motto è hic et nunc. La sua dipartita, pertanto, è temporanea – egli “si ritrae nelle zone impervie e nell'anonimato per riapparire non appena il nemico dia segni di cedimento” (9). Il bosco è in ogni dove, parimenti in quelle metropoli nelle quali l'elemento mitico viene mandato in esilio. Alla sua riscoperta, occorrono occhi atti ad intravederne la presenza, anche laddove questa ultima venga negata con veemenza. Anche la modernità è un bosco, all'interno del quale egli può trovare rifugio. Essa si rivela essere tale solo ad un occhio educato a riconoscerla.
Ciò che Jünger vuole dirci è che vana è ogni rivolta, inutile ogni sommossa, fallace ogni rivoluzione, che non venga preceduta da un mutamento interiore. Ebbene, affinché questa illuminazione possa avere luogo, occorre che il singolo si concepisca come alcunché di superiore alla propria dimensione storica e materiale. Strumento ausiliario di tale risveglio è il mito: esso “non è storia remota; è realtà senza tempo che si ripete nella storia. É un buon segno che il nostro secolo ritrovi un senso nei miti. Come un tempo, oggi l'uomo è trascinato da forze imperiose al largo dei mari, nei lontani deserti e al loro mondo di maschere. Questo viaggio perde il suo aspetto minaccioso non appena l'uomo riacquista consapevolezza del proprio divino potere” (10). Ciò vale anche per gli ordinamenti. Dove questi non conducano l'uomo a confrontarsi con la propria essenza primordiale, essi sono destinati a crollare. Come il nostro ebbe a scrivere nel suo trattato di filosofia e metafisica della storia: “a dimostrarlo sta, fra l'altro, il fallimento cui persino grandi piani vanno incontro allorché il loro modello non trae legittimazione profetica dagli ambiti di questa storia primordiale, di questa idea del genere umano” (11).
Contestualmente a questa presa di posizione, aggiunge Jünger, il nostro presente offre numerosi vantaggi – a patto, ovviamente, che si adotti, nei confronti di esso, un'adeguata disposizione. La stabilità del singolo e la sua essenza metatemporale e metafisica vacillano, nell'epoca del nichilismo, nella quale il Niente viene assunto quale criterio discriminante. Se è questo rischio a caratterizzare il nostro presente in quanto tale, resta pur vero che codesta scossa metafisica può venire intesa come una prova, affinché il singolo possa operare un superamento ascendente della propria condizione. Chi accetta la sfida offerta dal Nulla diviene Waldgänger. Comprendiamo cosi che “il nulla vuole accertarsi che l'uomo sia in grado di reggere la prova” (12); se alla sua interrogazione egli riuscirà a rispondere adeguatamente, la sua forza diverrà abissale. Si spalancheranno, allora, orizzonti inauditi. Proprio in ciò si risolve la libertà alla quale anela il singolo, la cui lotta è contro il tempo, contro la materia: la posta in gioco è molto alta. Il terreno sul quale si combatte è il suo petto, come scrisse nel suo celebre dibattito con Martin Heidegger in merito alla questione del nichilismo: “chi non ha sperimentato su di sé l'enorme potenza del niente e non ne ha subito la tentazione conosce ben poco la nostra epoca. Il nostro petto: qui sta, come un tempo nella Tebaide, il centro di ogni deserto e rovina. Qui sta la caverna verso cui spingono i demoni. Qui ognuno, di qualunque condizione o rango, conduce da solo e in prima persona la sua lotta, e con la sua vittoria il mondo cambia. Se egli ha la meglio, il niente si ritirerà in se stesso, abbandonando sulla riva i tesori che le sue onde avevano sommerso. Essi compenseranno i sacrifici” (13). Da vicolo cieco, l'evo del nichilismo diviene un'opportunità di rafforzamento individuale; affinché quest'ultimo possa verificarsi, non occorre fuggire da esso ma immergervisi, ponendosi in ascolto della sua terribile domanda che, interrogando l'uomo, ne saggia la consistenza metafisica – interrogazione che lo scuote in ogni sua fibra. Questo il realismo eroico che caratterizza il guerriero, il lavoratore ed il Waldgänger – autentica costante della produzione jüngeriana, che si traduce qui nel tentativo di costituire una élite metafisica, “un movimento spirituale che si scelga il nichilismo come proprio terreno e su di esso si modelli riflettendone l'essenza” (14).
Il cammino del Waldgänger non si arresta al Trattato del Ribelle. È ora il momento di indagarne le successive propaggini (15). Entriamo così nei domini dell'Anarca. Si fa strada, nella produzione jüngeriana, una nuova esigenza: che accade quando la via del bosco si fa impercorribile, per taluni individui? Come si devono comportare coloro che, per un motivo o per un altro, non intendono prendere distanza dalla Modernità pur non condividendone gli assunti fondamentali (16)? A partire da queste necessità, verso la fine degli anni Settanta, nel romanzo Eumeswil, Jünger mette in scena un nuovo attore. Questi è l'Anarca, il quale combatte il sistema nel quale vive in maniera autenticamente eversiva. Laddove il Leviatano si avvia verso il declino, egli fa del suo meglio per accelerarne la putrefazione. Dove il sistema si approssima al collasso, questa figura ne olia accuratamente i meccanismi affinché questo trapasso abbia luogo il prima possibile. E ciò, come nel caso del Ribelle, nella massima disillusione. Se il Waldgänger bandisce se stesso da ogni ordinamento, l'Anarca è colui che ha già espulso ogni forma di associazionismo socio-politico dal proprio petto. Egli ha finalmente trovato rifugio nel bosco – ha compreso, cioè, che esso è situato nella propria interiorità, nella regione più profonda del suo essere, inaccessibile alle forme collettive di organizzazione legalizzata dell'oppressione. Secondo le felici osservazioni di Caterina Resta, si fa strada, ancora una volta, la voce del singolo, provato dalle persecuzioni spirituali e dalla continua interrogazione in merito alla propria natura: “allora ancor più urgente risuonerà la domanda – grido nel deserto del nichilismo e di una tecnica divenuta ubiqua – circa il luogo del potere e il soggetto che è chiamato ad esercitarlo” (17). Il continuo domandare, evidentemente, è un pungolo, affinché la sovranità del singolo si riveli in tutto il suo splendore. Sarà egli in grado di divenire quel soggetto capace di mettere le redini ai Leviatani?
Il suo rapporto con le organizzazioni politiche e partitiche è di assoluto distacco. Non prendendo posizione, si garantisce quella distanza che permette il giudizio e, all'occorrenza, il contrattacco: egli “dispone di un posto di osservazione neutro. Lo storico in lui vede entrare nell'arena uomini e potenze con l'occhio dell'arbitro” (18). Ed è proprio il ricorso alla morfologia storica a permettere all'Anarca di transitare attraverso i regimi di soldati e demagoghi che si avvicendano sul teatro politico della Modernità, mantenendo una personale integrità. Giacche le sue radici affondano oltre il presente immediato, l'Anarca mantiene una neutralità interiore, senza patteggiare con questo o quello schieramento politico contingenti: egli “passa attraverso la loro sequela come attraverso una fuga di saloni” (19). Maestro di un disincanto antinichilistico di ascendenza metafisica, questi fonda la propria indifferenza rispetto a strilloni e demagoghi sulla lucida assunzione che “i manifesti cambiano, ma il muro a cui vengono attaccati rimane” (20). Solo la conoscenza della parete a cui essi sono affissi permette di essere scettici sul loro colore e sull'indirizzo che essi promuovono. Ebbene, la superficie che li ospita si trova, in ultima istanza, al di là della storia, alle fonti primigenie dell'essere.
Da queste fonti traggono forza tanto la via del bosco del Waldgänger quanto la resistenza interiore dell'Anarca. Ogni altra ribellione è destinata al fallimento – questa la lezione jüngeriana, di un'attualita tanto sorprendente quanto sconcertante. Da qui, la stretta parentela che lega Anarca e Waldgänger; il primo è allievo del secondo, essendo colui che, a tutti gli effetti, si muove nelle metropoli come se si trovasse in un bosco: “il ricorso alla foresta conferma l'autonomia dell'Anarca, che, in fondo, è sempre e ovunque un uomo della foresta, sia alla macchia che nella metropoli, sia nella società che fuori di essa” (21). Siffatte figure non si escludono a vicenda – esse riflettono, invece, la medesima necessità, che si traduce in due tipi umani differenti, prodotti di analoghe esigenze declinate in realtà contingenti diverse. Entrambe rispondono ad un unico imperativo: dotare il singolo di un'attrezzatura metafisica in grado di sopravvivere alla modernità, secondo la felice espressione di Gianfranco de Turris (22). Innanzi alle ultime convulsioni di un sistema in procinto di dichiarare la propria bancarotta spirituale, le due figure jüngeriane istituiscono un nucleo metafisico interiore all'interno del quale sia possibile mantenere una neutralità ma anche, come si diceva, all'occorrenza, organizzare un contrattacco.
Gli stessi potenti sono consapevoli di questa possibilità. Non è di certo un caso che gli uomini più fidati del Condor, il despota illuminato di Eumeswil, abbiano avuto esperienza della via del bosco. Ciò vale anzitutto per il suo medico, il quale “ha vissuto a lungo nelle grandi foreste, al di là del deserto. Deve avervi fatto incontri singolari. É il medico personale del Condor, ma non soltanto del suo corpo” (23). La foresta, situata oltre il deserto – che, accostato al nichilismo, cresce inarrestabilmente, come ci ricorda Nietzsche (24) – custodisce una sapienza che la Modernità ha esiliato: l'uomo e il suo mondo non si riducono al puro movimento ma dispongono di un centro propulsore situato oltre la storia e la materia. Il mito è il compendio di questa dottrina: “l'anarchico nella sua forma pura è colui che riesce a risalire con la memoria a estreme lontananze: a tempi preistorici, anteriori anche al mito. Egli crede che in quel tempo l'uomo abbia realizzato la sua determinazione autentica. Egli vede questa possibilità anche per l'esistenza attuale dell'uomo, e ne trae le sue conseguenze. In tal senso, l'anarchico è il conservatore originario” (25). La presenza di elementi immutabili che presiedono al movimento conduce l'Anarca a utilizzare gli stessi strumenti promossi dalla crisi per svilupparsi spiritualmente. Gli Dèi sono anche qui – questo il motto dell'Anarca. Esso carica l'hic et nunc del Waldgänger di presenze archetipiche atemporali, dalle quali egli trae la linfa vitale della propria (r)esistenza: fulcro fondamentale della sua condotta eversiva è la domanda su come “l'essere umano, affidato soltanto a se stesso, possa resistere allo strapotere sia dello Stato che della società, o degli elementi, servendosi delle loro regole di gioco, senza esser costretto a sottomettersi” (26). Condizione necessaria di ciò è il mantenimento, secondo la lezione stoica, di una signoria interiore che permetta di mantenere una certa stabilità anche in periodi di decadenza. Solo attraverso essa egli potrà, come d'altra parte fece il Waldgänger, servirsi della Modernità per trascenderla, rimanendone illeso. Il veleno, allora, diverrà farmaco. La sua apolìtia, lungi dall'essere un atteggiamento passivo, è il trasferimento di una guerra esterna al proprio interno: “l'autodisciplina è l'unica forma di dominio che gli si attagli” (27).
L'Anarca sublima la lotta esteriore in resistenza spirituale. Il suo indugiare tra i diversi sistemi politico-spirituali che oggi si contendono il globo non ha nulla a che vedere con l'ignavia delle masse. Queste le parole in proposito di Manuel Venator, l'Anarca di Eumeswil: “In quanto anarca, io sono deciso a non lasciarmi catturare da nulla, e non prendere in fondo nulla sul serio --- non in modo nichilistico, ma piuttosto come una sentinella confinaria, che in terra di nessuno aguzza occhi e orecchie in mezzo alle maree” (28). Ciò pare ricalcare, d'altra parte, la celebre immagine onirica che Jünger scelse per descrivere la propria curvatura biografica e spirituale: “Se chiudo gli occhi vedo talvolta un paesaggio oscuro con pietre, rocce e montagne all'orlo dell'infinito. Nello sfondo, sulla sponda d'un mare nero, riconosco me stesso, una figurina minuscola che pare disegnata col gesso. Questo è il mio posto d'avanguardia, sull'estremo limite del nulla: sull'orlo di quell'abisso combatto la mia battaglia” (29). Il narratore e la sua creazione letteraria si confondono. La sentinella in questione temporeggia, sul proscenio del teatro della storia, per attendere il ritorno di quelle potenze mitiche che abitano ogni tempo, sebbene nel presente risultino perlopiù celate. La condotta dell'Anarca sarà pertanto poco appariscente. Egli cercherà di farsi notare il meno possibile, muovendosi di soppiatto accanto alle spire dei Leviatani e alle tirannie da panem et circenses: “lo stato sarà, in linea generale, soddisfatto di lui: egli si farà notare pochissimo” (30). Rimanendo in agguato nei domini del potere totalitario, attenderà il proprio kairos, il momento per agire eversivamente e far definitivamente crollare un potere che già vacilla pericolosamente. Per mischiarsi e confondersi tra le pletore della Modernità, potrà persino partecipare, mantenendo tuttavia un perenne distacco, di modo da poter abbandonare la nave in caso di naufragio. Potrà associarsi, portando tuttavia avanti unicamente la propria causa, senza legarsi eccessivamente a quegli ambiti di cui si è dichiarato acerrimo nemico: “l'Anarca esplica le proprie guerre anche quando marcia allineato nei ranghi con gli altri” (31). Tali sono i tratti fondamentali dell'Anarca, Waldgänger esiliatosi volontariamente nella tana del lupo; come ben sostiene Giulio Maria Chiodi, “rappresenta anch'esso una presa di distanza dal mondo gestito dai Titani o dalle loro propaggini, ma non vive alla macchia, isolato nel bosco, bensì pacificamente inserito nel mondo […], dove vive inosservato e si fa disponibile al corso degli eventi solo esteriormente. È un adattato non partecipe o un disadattato che si adegua […]. Jünger vi vede l'uomo naturale, che coltiva se stesso senza sottomettersi a nulla e a nessuno e senza desiderio di sottomettere gli altri, noncurante di quel che operano i continuatori dei Titani” (32).
Con questi personaggi, Jünger fornisce il proprio supporto a quegli uomini che, costretti a permanere all'interno della Modernità, non vogliono che la loro funzione spirituale si esaurisca nel consenso plenario, nella critica ad oltranza o in una totale ignavia. Il suo stoicismo può ben adattarsi ai tempi che corrono, nei quali veniamo costantemente convocati ai tribunali dell'opinione pubblica per discutere delle nostre inclinazioni ed aspirazioni. Alle opposizioni che caratterizzano il nostro tempo – le quali, spesso e volentieri, non fanno che manifestare le medesime parole d'ordine semplicemente tradotte in linguaggi diversi – il nostro risponde con l'indicazione di una terza via: quella del Waldgänger, che attinge dal bosco le risorse per condurre una strenua resistenza spirituale, e dell'Anarca, eversore del sistema, sentinella silenziosa che attende che quest'ultimo abbia esaurito le proprie possibilità per dargli il colpo definitivo e farlo trapassare. Indicazioni assai preziose, che permettono di acquisire, nei confronti della Modernità, un atteggiamento critico e disincantato. L'ascolto dei moniti jüngeriani permetterebbe, in un'epoca nella quale la critica del proprio presente tende ad esaurirsi in una lunga collezione di luoghi comuni, di dotare la propria contestazione ai sistemi vigenti di una portata cosmica, spirituale, metafisica. Solo dove la critica della Modernità disponga di strumenti estrinseci ad essa può dirsi effettiva, efficace ed integrale. Subordinare la storia al mito, la realtà alla metarealtà, la politica alla metapolitica, la modernità alla tradizione – queste le basi di un antimodernismo che voglia dirsi propositivo.

(1) E. Jünger, Trattato del ribelle, traduzione di F. Bovoli, Adelphi, Milano 1990, p. 35.
(2) E. Jünger, Eumeswil, traduzione di M. T. Mandalari, Guanda, Parma 2001, p. 220.
(3) Cfr., in merito, E. Jünger, M. Heidegger, Oltre la linea, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1989; E. Jünger, C. Schmitt, Il nodo di Gordio. Dialogo su Oriente e Occidente nella storia del mondo, a cura di G. Galli, Il Mulino, Bologna 1987.
(4) Nei suoi diari del 1943, può leggersi, in proposito: “L'uomo dovrebbe perdere sempre più di valore, dovrebbe divenire metafisicamente sempre più indifferente, per essere possibile il trapasso dalla distruzione delle masse, che noi oggi stiamo vivendo, a quella totale. È da premettersi che l'uomo dovrebbe mutarsi prima completamente in un lurido insetto. […] Anche questo rapporto […] è previsto nella Sacra Scrittura […] nella distruzione di Sodoma: Dio lo esprime dicendo che, fino a quando nella città vive un solo giusto, la vuole risparmiare. Questo è anche un simbolo della immane responsabilità del singolo in questo tempo. Uno solo può essere mallevadore per innumerevoli milioni”. E. Jünger, Irradiazioni. Diario 1941-1945, a cura di H. Furst, Guanda, Parma 1993, p. 347.
(5) Trattato del ribelle, cit., p. 26.
(6) Ivi, pp. 95-96.
(7) Ivi, p. 55.
(8) Ivi, p. 106.
(9) Ibidem.
(10) Ivi, p. 54. Cfr. anche p. 60: “L'elemento mitico […] è sempre presente, e al momento opportuno affiora alla superficie come i tesori […]. Non si ritorna indietro verso il mito, il mito lo si incontra di nuovo quando il tempo vacilla sin dalle fondamenta, sotto l'incubo di un pericolo estremo”.
(11) E. Jünger, Al muro del tempo, trad. di A. La Rocca e A. Grieco, Adelphi, Milano 2000, p. 103.
(12) Trattato del ribelle, cit., p. 84.
(13) E. Jünger, M. Heidegger, cit., p. 104.
(14) Trattato del ribelle, cit., p. 92.
(15) In merito a questo transito, cfr. L. Bonesio, C. Resta, Passaggi al bosco. Ernst Jünger nell'era dei titani, Mimesis, Milano 2000; A. de Benoist, L'operaio fra gli dei e i titani. Ernst Jünger sismografo nell'era della tecnica, in Trasgressioni, n. 18, 1994, p. 54.
(16) In merito a simili considerazioni Julius Evola – un esauriente confronto del quale con Ernst Jünger attende ancora di essere composto – scrisse, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, Gli uomini e le rovine (Roma 1953) e Cavalcare la tigre (Milano 1961). Le idee contenute in detti studi ricalcano appieno le vedute del Waldgänger e dell'Anarca.
(17) C. Resta, Mondializzazione e tecnica nell'epoca del nichilismo, in Ernst Jünger e il pensiero del nichilismo, a cura di L. Bonesio, Herrenhaus, Milano 2002, p. 101.
(18) Eumeswil, cit., p. 183.
(19) Ivi, p. 119. Corsivo nostro.
(20) Ivi, pp. 116-117. Il fondo comune di ordinamenti apparentemente contrastanti fu oggetto d'indagine dell'intera produzione jüngeriana. Già negli anni Trenta, ne la Mobilitazione totale, il nostro ebbe a dichiarare che le differenti bandiere sono come vessilli atti ad attirare la selvaggina verso le bocche da fuoco. Sebbene rette da parole d'ordine apparentemente contrapposte, “fanno venire in mente i teli colorati con cui, durante la battuta di caccia, si istrada la selvaggina verso il campo di tiro dei fucili”. E. Jünger, La mobilitazione totale, trad. di G. Galli, ne Il Mulino, a. XXXIV, n. 5, settembre-ottobre 1985, p. 760. Consapevolezza che si declinò, successivamente, nell'analisi dei tratti accomunanti i due blocchi mondiali, durante la Guerra Fredda: “si è portati a supporre che il colore bianco o rosso della stella dipenda solo dal suo vacillare, come quello dell'astro che compare al di sopra dell'orizzonte. L'unità appare evidente allo zenith.” E. Jünger, Lo Stato Mondiale, Organismo e Organizzazione, trad. di A. Iadicco, prefazione di Q. Principe, Guanda, Parma 1998, p. 31.
(21) Eumeswil, cit., p. 140.
(22) Cfr. G. de Turris, Come sopravvivere alla modernità. Evola Jünger Mishima, Terziaria, Milano 2000.
(23) Eumeswil, cit., p. 193.
(24) “Il deserto cresce: guai a chi cela deserti dentro di sè”. Cfr. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, a cura di M. Montinari, Adelphi, Milano 1976, p. 356.
(25) Lo Stato Mondiale, cit., pp. 73-74.
(26) Eumeswil, cit., p. 233.
(27) Ivi, p. 181.
(28) Ivi, pp. 81-82.
(29) Irradiazioni, cit., p. 104.
(30) Eumeswil, cit., p. 140.
(31) Ivi, p. 130.
(32) G. M. Chiodi, Forza elementare e forma in Ernst Jünger, in Ernst Jünger e il pensiero del nichilismo, cit., p. 55.

mercoledì 21 marzo 2012

PESSOANA






Cattedra di Storia della Filosofia I

Edizioni dell'Urogallo

Antarès - percorsi antimoderni

Presentazione della collana "Pessoana" delle Edizioni dell'Urogallo

Interverranno:
Davide Bigalli
Marco Bucaioni
Rita Catania Marrone
Carlo Arrigo Pedretti
Vincenzo Russo

Coordina:
Andrea Scarabelli

MARTEDI' 27 MARZO 2012  h. 16.15

UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI MILANO

VIA SANT'ANTONIO 5, AULA 3