lunedì 26 marzo 2012

Coscmicizzare l'esperienza

Editoriale: cosmicizzare l’esperienza
(in Antarès, N. II/2012)

L’esperienza o è cosmica o non è. Gian Franco Lami usava ripetere spesso queste parole, come recentemente ricordatoci da un amico romano che fu suo allievo. Il professore era solito accompagnarle con un ampio gesto circolare, come a voler chiudere uno spazio, rendendolo compiuto in se stesso, cosmico, appunto. Il ricordo della figura di questo filosofo non è episodico. Il presente numero di Antarès, dedicato al pensiero degli intellettuali cosiddetti “antimoderni”, venne originariamente dato alle stampe – in una versione ridotta con quattro articoli e tre recensioni, in una tiratura di centodieci copie numerate – presso l’Università degli Studi di Milano nel mese di gennaio del 2011. Mentre era in fase di stampa, ci raggiunse la tragica notizia della scomparsa del professore, che avemmo la fortuna di incontrare in più occasioni e che, peraltro, lesse ed apprezzò Antarès. Non essendovi tempo sufficiente a comporre un suo ricordo, stampammo una fascetta che allegammo ai centodieci esemplari, contenente un suo breve profilo, accompagnato da queste parole, composte da Ernst Jünger: "Ognuno è immortale, ma certo non come individuo. Egli non tramonta, ma viene innalzato. Mi appassiona piuttosto il problema del trapasso: un calice di terracotta è trasformato in oro e poi in luce. Solo una domanda, in tale questione, mi preoccupa: se questo innalzamento sia ancora percepito dalla conoscenza, se penetri ancora nella coscienza. Ciò dovrebbe avvenire per metà nel tempo, per metà fuori dal tempo. Il sole è tramontato, ma i suoi riflessi splendono ancora. La luce non si spegne, viene riassorbita dalla luce primordiale. I fenomeni ritornano alla loro patria d'origine". Si tratta di una circostanza che ci sembra doveroso ricordare, all’interno di un numero che ricalca, in molte sue sfaccettature, gli innumerevoli interessi di una personalità assai complessa come quella di Lami. E ciò, a partire dalla sua massima citata, la quale può farci pervenire al nucleo di ciò che intendiamo parlando di “antimodernismo”.
L’esperienza o è cosmica o non è. L’esistenza del singolo deve farsi cosmica, analogica e anagogica: se non è in grado, durante il suo svolgimento, di ripetere, nel suo piccolo, meccanismi più ampi, facendosi specchio riflettente la totalità, nemmeno è degna di questo nome. O l’azione dispone di un baricentro spirituale che sia in grado di accordarla ai grandi ritmi del cosmo oppure è semplice convulsione, agitazione fine a se stessa. E ciò vale anche in contesti più ampi. O la vita è orientata metafisicamente, secondo tracciati di natura archetipica, oppure si riduce alla mera sussistenza vegetativa. Bestie, uomini o dèi: spetta a noi scegliere. Non vi è altra soluzione, non vi è una terza possibilità.
La missione più autentica dell’uomo consiste nel farsi carico del peso del cosmo intero, assumendosene la responsabilità. Facendosi carico di questo gravoso compito, l’uomo realizza la sua antica funzione di copula mundi, coniugando superiore ed inferiore, facendo di se stesso un medium, una giuntura. A questo è chiamato, per forgiarsi come tale: può rispondere a questo appello oppure abdicare. Solo la prima opzione lo condurrà ad una realizzazione integrale.
Ciò riguarda l’uomo ma anche i domini della sua esistenza; primo fra tutti, il tempo, antichissima ossessione. Fulcro dell’esperienza cosmica è l’istante della decisione, kairos. O l’istante viene caricato dell’eterno oppure si perde nell’indifferenziato, assieme a milioni di altri attimi, tutti equivalenti nella loro indifferenza. Ecco che accade quando la temporalità non è legata alla metatemporalità, quando la storia non è subordinata alla metastoria, quando, insomma, l’azione cessa di essere cosmica. L’uomo, allora, rimesso alle sue mere possibilità materiali, cerca la ragione del suo agire non in una dimensione altra ma nell’azione stessa, giungendo al cieco attivismo che imperversa presso i cosiddetti moderni, i quali agiscono in una assoluta assenza di fini, solo per perpetuare un meccanismo di cui essi stessi ignorano tanto l’origine quanto la ragion d’essere. Il marchingegno deve essere reso perpetuum mobile, non importa a quale prezzo. Esso deve realizzare le sue possibilità, sempre più velocemente. Incipit della modernità – l’uomo si emancipa, si “libera” dal suo cosmo: hybris suprema. La nemesi che lo attende è terribile: svincolatosi dalla “metafisica”, apprenderà a sue spese che il proprio “io”, suo nuovo padrone, è assai più crudele di quegli “dèi” di cui si è “liberato”. Questa la modernità, in senso vero e proprio – acosmìa dell’azione, progressiva materializzazione dell’uomo, schiavitù dell’uomo innanzi a se stesso. Ora gli uomini innalzano altari a se medesimi – i sacrifici richiesti saranno sempre più ingenti.
L’universo antimoderno è dotato di numerosi accessi. Ne abbiamo scelto uno in particolare, non perché sia più importante di altri ma in quanto più si accorda allo spirito che anima la presente rivista. La critica alla modernità perpetuata dai cosiddetti “antimoderni” si riduce in fondo alla constatazione che questa ultima fonda se stessa negando all’uomo qualsiasi parentela, qualsiasi origine, qualsiasi essenza che non siano materiali. Mentre questi viene così depauperato del suo corredo sovrasensibile e metafisico, subentrano i misfatti di certa sociologia, che vede la massa quale luogo genetico dell’individuo, di certa psicologia, secondo la quale la radice dell’uomo si ritrova in una serie di impulsi inferiori e animali, e di una certa politica, che si esaurisce nella mera amministrazione di popoli ammaestrati dal demagogo – o dal banchiere – di turno. L’uomo viene ridotto ad unità di produzione, animale lavorativo e nulla di più. Scienza e tecnica, in misura sempre maggiore, divorano i simboli. Subentrano nuove metafisiche: nemico del fideismo, il mondo moderno dispone di suoi dogmi peculiari, quali l’uguaglianza, il progresso, il mito della scienza – nessuno sconto di pena a chi osa metterli in questione.
Ancora una volta, è proprio l’assenza di una ragion d’essere esterna a determinare lo sdegno di questi intellettuali. Il che ci riporta alla massima di Lami: per i moderni, dicono i nostri eroi, l’azione è ragion sufficiente di se medesima; essa non deve cioè riferirsi ad un piano che la trascenda. Una autoreferenzialità che non passò inosservata agli occhi di autori come Pessoa, Goethe, Pound, Mishima, Céline, Spengler, Jünger, Massis, de Giorgio, Guénon, Evola e numerosi altri – personaggi le cui opere possono essere considerate quali lettere aperte contro la modernità, la quale, nella loro ottica, nasce proprio dalla rinuncia ad accordare l’esperienza su ritmi più elevati. Prima di essere una fase storica, essa è anzitutto, come ebbe a scrivere Julius Evola nella sua Rivolta contro il mondo moderno (1934), una Weltanschauung, un modo di intendere l’uomo, la sua storia e la sua realtà circostante. La modernità è una categoria mentale, potremmo dire, non senza una certa forzatura. Ragion per cui, sostiene l’autore appena citato, vi possono essere fenomeni moderni anche in realtà pre-moderne e fenomeni antimoderni in seno alla stessa modernità. Non si tratta dunque di epoche quanto piuttosto di modi di inquadrare la stessa storia.
Analogamente, Antoin Compagnon, nel suo Les antimodernes. De Joseph de Maistre a Roland Barthes (Gallimard, Parigi 2005), sottolinea l’intima parentela di modernismo e antimodernismo. Altro che antagonismo! Gli antimoderni, loro malgrado, sono modernissimi, anzi, i più moderni tra i moderni. Tuttavia, sebbene ciò sia difficilmente contestabile, l’analisi del professore francese non coglie l’essenziale. Questo legame, infatti, è ben lungi dal costituire una contraddizione in seno all’antimodernismo: la schizofrenia che Compagnon delinea non riguarda gli antimoderni ma la stessa Modernità, che d'altra parte li ha generati.
Tuttavia, a parte questa puntualizzazione, è bene indugiare su detta apparente antinomia. Moderno e antimoderno non sarebbero, in questa analisi, che sfaccettature della medesima realtà. E ciò a partire dagli stessi “antimoderni”. Nonostante molti di essi dichiarino che una azione contro la modernità non possa dirsi efficace senza il ricorso ad un modus vivendi alieno da essa, ciò non farebbe che riconfermare quanto forte sia il radicamento all’interno della loro realtà – moderna. Ma questo accade – e ciò è fondamentale – in quanto il loro interesse non è distruggere il mondo moderno, quanto piuttosto correggerlo, rettificando quanto in esso vi è di errato, cioè di moderno. Questa duplicità è solo apparente, come ricorda René Guénon – il quale, non casualmente, non è citato nel libro di Compagnon, nonostante la sua assoluta centralità nella polemica in questione – ne La crisi del mondo moderno (trad. di J. Evola, Mediterranee, Roma 2003, p. 53): «Essere risolutamente antimoderni non vuol dire per nulla essere antioccidentali, ma è, invece, l’unica attitudine che deve prendere chi cerchi di salvare l’Occidente superando il suo disordine». È antimoderno, pertanto, chi ritiene sia doverosa una correzione dei presupposti che hanno condotto l’Occidente alla barbarie della Modernità; ma questo, anzitutto, poiché lo stesso mondo moderno nasce con profondi deficit congeniti, con delle falle strutturali in un certo senso ineliminabili – ecco perché gli antimoderni sono e non possono che essere moderni. L’irruzione del mondo moderno genera, insomma, il pensiero antimoderno come sua polarità correlativa, esattamente come – secondo quanto già scritto da altri – all’ingresso di Socrate nelle piazze ateniesi seguì immediatamente il nichilismo di Gorgia e le figure di Robespierre e del conte de Maistre calcarono il palcoscenico della storia assieme. Il sofista e il filosofo, il rivoluzionario e il controrivoluzionario, stanno tra loro come l’antimoderno sta al moderno. Certo, ancora una volta, la frattura non pertiene agli intellettuali in questione ma al periodo storico che ne ospita gli anatemi. Pretendere di riscontrare la frattura della modernità in coloro che la denunciarono equivale a mettere sotto processo un medico per aver diagnosticato una malattia.
Moderno e antimoderno sono modi di interpretare la stessa realtà ma anche figure della temporalità, modi differenti di abitare il tempo. L’una – moderna – dona un senso al presente in relazione ad un futuro sempre più lontano, nel quale proietta i bisogni – insoddisfatti – dell’oggi. L’altra – antimoderna, appunto – descrive il tempo come un regresso inevitabile e continuo generato dalla rottura di un equilibrio originario, ormai irrimediabilmente perduto. Il tempo moderno, progressivo e millenarista, precorre l’utopia: parafrasando le parole di Giorgio Gaber, si potrebbe dire che “qualcuno era moderno perché oggi no, domani forse ma dopodomani sicuramente”. Per assicurarsi credibilità innanzi agli insuccessi del presente, scienza e tecnica devono saper promettere una perfezione futura, ancora da realizzarsi. Da qui l’utopismo peculiare della modernità progressista. Il tempo degli antimoderni, invece, nell’avvicendarsi delle epoche rincorre il mito. L’uno, moderno, si rivolge alla fine della storia, l’altro, antimoderno, alla sua origine. L’uno considera la storia alla stregua di un lungo – e quanto mai astratto – processo di istanti, indifferenti e indifferenziati, l’altro la intende come una figura cosmica e analogica.
Prima di volgerci alla conclusione e lasciare spazio ai contributi, occorre fare qualche rettificazione in merito a ciò che certa vulgata concepisce come “antimodernismo”. Il quale non è passatismo, romanticismo, culto di forme morte, appartenenti ad un passato lontano. Gli antimoderni non sono infatuati dai “bei tempi andati”. Se questo è il loro capo d’accusa, ciò vale anzitutto per gli accusatori, i quali sovente hanno un rapporto con il passato che definire schizofrenico è forse riduttivo, secondo quanto un autore come Nietzsche ebbe a denunciare nel suo scritto dedicato all’utilità e inutilità della storia per la vita. Il culto del passato paralizza il presente, è vero. Ma ciò non vale anzitutto per il mondo moderno, dilacerato da un’ossessione passatista incapacitante e da un culto futurista spesso acritico e miope? Le forme del nostro tempo sono il museo e l’officina, ebbe a scrivere Ernst Jünger già negli anni Trenta. Le cose non sono poi così cambiate.
I nostri antimoderni, invece, si muovono in una prospettiva del tutto differente. Essi anelano alla formazione di un tipo d’uomo che sia in grado di abitare il futuro, un futuro sempre meno decifrabile tramite i consueti strumenti antropologici. Ecco il paradosso della modernità, che questo tipo di pensiero tenta di risolvere: il mondo moderno dispone di un ordinamento che in qualche modo si è già realizzato ma che l’uomo non riesce ad interpretare. Il nostro tempo segue ritmi sempre più accelerati non più decifrabili dall’uomo, il quale, secondo la felice formula di Gunther Anders, è antiquato rispetto ad essi. Gli ordinamenti sotto il segno dei quali si compie l’attuale formazione del mondo tendono a scavalcare l’umanità, i popoli, che ne subiscono gli effetti passivamente. Ciò è sotto gli occhi di tutti e gli eventi di questo ultimo periodo hanno reso sempre più palese questo scarto. La modernità sorge con un dislivello inaudito tra il progresso e la capacità dell’uomo di farsi protagonista di esso. Ciò ben comprese il già citato Jünger, allorché, negli anni Novanta, ebbe a dichiarare, ad Antonio Gnoli e Franco Volpi (I prossimi titani. Conversazioni con Ernst Jünger, Adelphi, Milano 1997, p. 67): “la tecnica, in quanto fenomeno universale, cosmopolitico, che spinge inesorabilmente alla globalizzazione, prepara lo Stato Mondiale e, anzi, in una certa misura, lo ha già realizzato. Lo Stato Mondiale ne è il corrispettivo politico”. Tuttavia, questa forma storica non si è ancora realizzata. O meglio, come lo scrittore tedesco confidava a Julien Hervier, “tecnicamente, è già realizzato, ma la politica segue l'evoluzione tecnica zoppicando” (J. Hervier, Conversazioni con Ernst Jünger, Guanda, Parma 1988, p. 111). La tecnica, insomma, ha già realizzato lo Stato Globale ma la politica, che non riesce ad essere al suo livello, non lo concepisce ancora: “tutto è planetario, il telegrafo come i collegamenti aerei, ma non abbiamo l'ordine planetario […]. È un fenomeno generale: i pensieri vanno con un'andatura diversa da quella degli eventi reali” (Ivi, p. 108). Ecco il dislivello in questione. Obiettivo del pensiero antimoderno è la creazione di un tipo di uomo che sia in grado di intendere la portata delle conquiste della scienza e della tecnica, per tornare ad essere protagonista del proprio destino.
Un ulteriore esempio potrà chiarire la faccenda. Se pensiamo allo sviluppo di Internet, ecco che le profezie jüngeriane acquisiscono una attualità sconcertante. Si parla tanto di globalizzazione, di Stato globale, spesso in maniera poco competente e approfondita. Ebbene, potremmo dire, riprendendo le tesi appena citate, che la Rete ha già realizzato la globalizzazione, nella misura in cui è possibile, in tempo reale, vedere e parlare con qualcuno che si trova dall’altra parte del globo, nella misura in cui il fruitore della Rete accede ad un gran numero di informazioni a proposito del mondo nella sua totalità. Internet, aprendo uno spazio che scavalca le frontiere statali e permettendo ad ognuno di abitare questo interregno tecnico, realizza una percezione totale del mondo.
Ebbene, l’uomo è riuscito ad accogliere, a fare propria questa percezione? No, o meglio, non ancora, la sua prospettiva permanendo, tutto sommato, in una parzialità che mal si accorda all’apertura dei grandi spazi realizzata da Internet. Questo il dislivello: l’unificazione del mondo è accaduta, certo, ma su base tecnica e non antropologica. Per poi non parlare della politica: laddove essa tenta di adeguarsi a questa nuova percezione del mondo – con organizzazioni quali la Società delle Nazioni di ieri o l’ONU di oggi – essa non fa che rivelare la potenza totalitaria di poche nazioni. La globalizzazione odierna, ben lungi dal creare uno stile globale, valorizzante le naturali diseguaglianze e specificità dei popoli nell’ottica di un progetto di macrointegrazione più ampio, in fondo non è che l’imposizione su scala planetaria di una forma politica, di un modus vivendi tra gli altri, reso preponderante semplicemente dalla violenza dei mezzi utilizzati a che la sua propaganda sia massiva. Manca, insomma, un linguaggio globale di tipo politico – quello tecnico, è diffuso già da tempo.
Se consideriamo poi il legame che la globalizzazione attuale intrattiene con l’economia, la situazione si semplifica ulteriormente. Il dollaro è la madrelingua dello Stato globale – è la dèmonia dell’economia, acerrima nemica degli apparati politici e della partecipazione dei popoli alla politica, come ebbero a denunciare in molti, da Werner Sombart e Carl Schmitt ad Oswald Spengler e Ernst Jünger, da Julius Evola a Ezra Pound e Giano Accame. Anche qui, il dislivello è palese: lo Stato Globale è percepibile in termini finanziari ma non politici ed antropologici.
Queste sono diverse sfaccettature della mancata partecipazione dell’uomo al suo proprio destino, dovuta alla mutilazione che la modernità gli impone. Spogliato delle sue possibilità superiori, non rimane di esso che un'entità atomizzata, costretta ad oscillare passivamente tra gli eventi. La vittoria dell’“ultimo uomo” annunciato da Nietzsche, preda delle convulsioni terminali di un sistema la cui graduale cancrena è ormai sotto gli occhi di tutti. Gli esiti di questa deriva sono dovuti, come già accennato, alla modernizzazione dell'Occidente che pare non abbia provveduto a che un uomo davvero moderno fosse creato.
Di fronte a questo smarrimento, forse aveva ragione Gian Franco Lami – il quale non fece in tempo a leggere questo numero, che la redazione oggi offre ai lettori. L’esperienza o è cosmica o non è. E quella moderna, decisamente, non è.

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