lunedì 5 agosto 2013

Lisbona 2012

Lisbona 2012. Pessoa o del re interiore dell'europa
di Andrea Scarabelli

(in Aa. Vv., Per quale motivo Israele può avere 400 testate atomiche e l'Iran nessuna? L'impero interiore, Edizioni La Carmelina, Ferrara 2013)
http://www.edizionilacarmelina.it/?page_id=613


LISBONA, NOVEMBRE 2012. Ultimo atto: in capo all'Occidente – oltre ultra – il Portogallo attende ancora il suo re perduto, disperso in guerra contro i mori e mai più ritrovato, almeno nelle sue spoglie mortali. Quella di Ksar El Kebir fu una missione suicida, a tutti gli effetti. Poche divisioni di europei innanzi a schiere sterminate di musulmani. Ma Dom Sebastiao seppe che ciò era necessario. Il suo sacrificio avrebbe fecondato la terra. L'esercito decimato, il corpo del Re mai rinvenuto. Perito? Nessuno volle crederlo. Dipartito nelle Isole Fortunate – declinazione lusitana di Avallon Unterberg Gudenberg Kiffhäuser – tuttora se ne attende il ritorno.
Lisbona, novembre. “Guai a te Lusitania, che dominerai su tutte le nazioni, poiché verrà il tempo in cui la tua luce si spegnerà; ti troverai sotto i piedi degli altri, che ti romperanno, come se fossi un vaso di coccio, e porteranno via le tue ricchezze e i tuoi tesori; allora sarai tributaria, gemerai, e di tutti coloro che ti amavano nessuno ti consolerà. Il tuo onore sarà diventato diverso, la tua gente distrutta, le tue città conquistate dagli infedeli”, scriveva Pessoa, profeticamente. La antica potenza imperiale – l'odierna colonia finanziaria. Ecco gli infedeli di cui sopra. Finis terrae. “In principio era la parola e la parola veniva tradita” (E. P.). Leggendo la filigrana del passato s'intravvede la miseria del presente. È la nostra disgrazia – ma forse anche il principio della salvezza.
Lisbona, oggetto di queste pagine, assurge a simbolo dell'Europa intera, in bilico tra il ricordo di un re scomparso e la speranza in uno che si attarda a risorgere, dal cuore della montagna o nell'isola nella quale giace, assopito, sognando il suo Impero. Il suo sogno è l'Europa, destino millenario ceduto a grigi burocrati tecnocrati plutocrati. Il Re dorme ancora.
Ma valle a spiegare queste cose ai banchieri, alle Fraulein e ai professori, ai detentori dell'Euro, unica madrelingua di un Occidente che ha abdicato al compito di darsi una forma, di assegnarsi un compito, di regalarsi un'identità. Valle a spiegare a codesti signori – trova, se ti riesce, qualcuno disposto a processarli; quale corte potrebbe giudicarli, quale tribunale inchiodarli ai loro misfatti (E. P.)?
Certo, la posta in gioco è abissale: si tratta di rinunciare alla possibilità di stabilire una linea di continuità tra un glorioso passato, un presente incerto e un futuro quanto mai incombente, indovinabile solo tramite diagrammi ed istogrammi, vaticini dell'oggi. Il Portogallo. L'Europa.
Entrambi attendono il Re. E c'è ancora chi, in mattinate di nebbia, memore dell'antica profezia, si azzarda: “Ora torna D. Sebastiao”. Ma il sovrano si fa desiderare. E invano ci si attarda a cercarne i lineamenti nel demagogo di turno, quand'anche nel professionista sportivo o televisivo. Translatio imperii modernissima.
Eppure, lo stesso Pessoa chiarì, in modo non passibile di fraintendimento alcuno, i termini di questo auspicio. Il Portogallo – ma qui potremmo estendere il discorso all'Europa intera – ha sempre atteso il ritorno fisico del sovrano. Mancando questa figura, è avvolto da una cappa di passatismo incapacitante – saudade crepuscolare che paralizza l'azione. Coltiviamo il sogno del re nei nostri cuori ed esso risorgerà, calcherà nuovamente la scena della storia continentale. Sarà un nuovo inizio, di certo – ma tutto il resto dovrà prima colare a picco. Questa la Via della Mano Sinistra pessoana: “Iniziamo a inebriarci di questo sogno, ad integrarlo in noi, a incarnarlo. Fatto questo, ciascuno di noi in indipendenza e da solo a solo con sé, il sogno si propagherà senza sforzo in tutto quello che diremo e scriveremo, e l'atmosfera sarà creata (…). Allora si formerà nella Nazione il fenomeno imprevedibile da cui nasceranno le Nuove Scoperte, la creazione del Mondo Nuovo, il Quinto Impero. Sarà ritornato il Re Don Sebastiano”.
Forse occorre ripensare la venuta del desejado, dell'encoberto, del sovrano, da intendersi in modo affatto diverso da quanto accaduto sinora? Forse che l'oro a cui anelare non sia quello volgare (così detto dalla sapienza ermetica) con il quale oggi si ricattano i popoli, ipotecandone il futuro, ma quello celeste – solare – da realizzarsi sub specie interioritatis? E invece no: noialtri si attende il Re dalle Isole Fortunate. E la deriva continua.
Il nascondimento del Re – questo il messaggio di cui l'attuale dramma lusitano può farsi latore – non è altro che un modo d'essere nostro. La sovranità di cui sopra non deve palesarsi fisicamente ma fare capolino come disposizione essenziale ad accoglierla e ridestarla al nostro interno, appunto. Abdicando al compito di assegnarci un destino, abbiamo cacciato il Re presso Avallon, le Isole beate, chiamiamolo come ci pare. Questi luoghi non sono fisici ma prima di tutto esistenziali. Non si giunge ad Avallon tramite navi o aeroplani ma attraverso una metanoia. Questo il bivio che attende l'Europa.
Insomma, vi è ritorno e ritorno. L'uno esterno, per così dire, materiale, e l'altro interiore, spirituale. Il primo dà come risultato la nostalgia per un paradiso che nasce già in quanto perduto, il secondo si configura invece come esperienza immortalante, come destino.
Ebbene, il Re di cui parla Pessoa è del tutto interiore – non che si risolva nel subconscio, beninteso, come certuni vangeli moderni pretendono di assumere – e ha da essere raffigurato come un compito, un anelito, uno stato da conseguirsi. E la sovranità è il destino dell'Europa. Nazionalismo mistico: così Pessoa definì questa Grundstimmung, variazione modernissima di una disposizione assai antica.
Il re esige una metanoia, prima di comparire, o chi lo riconoscerà? La venuta del sovrano è dapprima interiore: è sufficiente ridestare il monarca in sé per poi – alchemicamente – proiettarlo fuori di sé. Questa l'unica via moderna alla sovranità, del tutto europea. Un'ascesi solare, regale, che veda nel monarca fisico un simbolo – e nulla di più – di un iter da realizzarsi a livello individuale, qualsiasi altra possibilità essendo relegata alla maledizione della saudade, per l'appunto. Al pari del nichilismo europeo, naturale esito di un dio cercato fuori di sé e eteroconseguito, e non sorpreso nella propria interiorità.
Una soluzione moderna ad un problema insolubile, laddove nella modernità ci si radichi. È una risposta tradizionale alla crisi. Non si guarisce dalla malattia utilizzando i suoi stessi strumenti – persino la Via della Mano Sinistra richiedendo, in effetti, un orientamento superiore. Monito dirimente, al fine di superare l'impasse del capitale che la modernità esibisce quale suo tratto preponderante: quando la partita è organizzata e diretta da bari, occorre essere risoluti e rovesciare la scacchiera, come scrisse Jünger – solo così il Re interiore dell'Europa risorgerà.
Lisbona. Alla stazione del Rossio, una raffigurazione di Lima de Freitas mostra Fernando Pessoa, tra le mani una copia de La via del serpente, incoronato di gloria. Due serpi si rincorrono per tutta l'estensione del dipinto, srotolandosi da Christian Rosenkreutz alle stelle. Pessoa va a costituire l'asse di un caduceo ermetico, di quel caduceo che è il Portogallo – ma forse l'Europa intera, che ha da riconoscersi come realtà assiale, verticale, prima che aggregato socio-economico (secondo una tale ottica, la presente crisi potrebbe essere addirittura un'occasione, non avendo intaccato che l'Europa “orizzontale” e forse favorendo persino il ricordo di un'altra Europa).
Incoronandosi e scegliendosi come destino, insomma. Il re sarebbe tornato, in un giorno di nebbia, dicevano i vaticini, restaurando l'antico splendore portoghese e instaurando il Quinto Impero, somma e sintesi dei precedenti quattro, elencati dalla profezia di Daniele. Ecco la variazione pessoana sul tema, che chiude Messaggio, canto del Portogallo ma dell'Occidente intero:

Tutto è disperso, niente è intero.
Portogallo, oggi sei nebbia.
È l'Ora!
                                                         Valete, Fratres.

È l'ora. Che il Re venga disvelato, che i frammenti di un sogno – lungo svariati secoli – possano costituire una compagine organica, atta a farci transitare oltre il declino, oltre la catabasi dell'ortodossia economica, oltre la storia, oltre l'Occidente.
L'Europa è (ancora) una missione.
Pessoa ne è il cantore.

Andrea Scarabelli

Recensione di "Antarès" firmata da Luigi Iannone

Su «Antarès» i giovani si scoprono antimoderni

Quando sulla scena editoriale fa il suo ingresso una nuova iniziativa, viene aprioristicamente salutata con favore e investita di un senso per il solo fatto di essere in circolazione. Occorre però riconoscere che la pubblicazione della rivista Antarès. Prospettive antimoderne che fa, appunto, della critica alla modernità il proprio oggetto di studio, appare insolita e potrebbe sin da subito suscitare un più che naturale scetticismo. Eppure è una ventata di aria fresca e di anticonformismo laddove appare evidente la sua alterità rispetto al panorama generale.

Innanzitutto perché i redattori non sono canuti reazionari o nostalgici depressi - come sarebbe logico aspettarsi - ma giovani universitari di Milano partiti con l'autofinanziamento e ora, grazie all'editrice Bietti (e sotto la sapiente guida di Gianfranco de Turris), capaci di pubblicare a cadenza trimestrale un'ottima rivista; in secondo luogo perché corroborati da una nutrita schiera di collaboratori da tutta Italia; infine perché non si tratta di un arcaico richiamo a un antimodernismo di maniera. Sono infatti presenti articoli dedicati ai classici come Jünger, Mishima, Pound, Tolkien, Pessoa, Benjamin, Huizinga, Kafka, Eliot, Huxley, Borges, Anders, ma sempre inseriti in un contesto in cui viene superata la pars destruens delle loro opere. E su questi due aspetti, antiaccademismo e antimodernismo, i quali non possono essere tenuti rigorosamente disgiunti, si configurano le nuove prospettive culturali su cui si muove Antarès.

Allora, se è vero, come ribadito dal direttore editoriale Andrea Scarabelli, che l'intenzione è approfondire tematiche che il paludoso e asfittico panorama universitario pare ignorare, d'altra parte c'è la necessità di conferire al proprio tempo una dimensione simbolica e spirituale. Quindi si lascia da parte l'ossequio acritico nei confronti della modernità tecnologica e si va oltre, alla ricerca di una «nuova metafisica e di un progresso più umano». E questo lo si può fare con il ricorso al mito inteso come qualcosa di più di una semplice metafora ma soprattutto con un pensiero in cammino che «malvolentieri accetta la prigionia museale, analitica o da catalogo». Non a caso in uno dei primi numeri si affronta la pratica del camminare da un punto di vista filosofico in cui risuonano paradossalmente echi futuristici («il movimento in luogo della quiete, il sentiero di montagna in luogo della pianura che tutto livella») e che si segnala come paradigma di una visione antimoderna ma non passatista.

Cinquant'anni di Cavalcare la tigre

Julius Evola Cinquant'anni di Cavalcare la Tigre
Julius Evola Cinquant'anni di Cavalcare la Tigre
1961-2011
di Giandomenico Casalino, Gennaro Malgieri, Andrea Scarabelli, Marcello Veneziani
a cura di Gianfranco de Turris
Pubblicato nel 1961, ma scritto dieci anni prima, Cavalcare la tigre è uno dei più famosi e diffusi libri di Julius Evola.
Un libro frainteso da chi credeva di leggervi un appello alla diserzione dalla militanza politica ma anche da quanti ritennero necessarie scorciatoie velleitarie-rivoluzionarie. Era semplicemente l’opera ispiratrice di una autentica e duratura rivolta contro il mondo moderno.
Cavalcare la tigre, dunque, si porta dietro la fama di «libro proibito». Sicché per i cinquant’anni della sua prima edizione lo hanno esaminato da diversi punti di vista Giandomenico Casalino, Gennaro Malgieri, Andrea Scarabelli e Marcello Veneziani, mettendone in risalto le diverse valenze e il suo impatto su tre generazioni, la sua attualità dopo mezzo secolo.
Fu scritto in una Italia alle prese con l’eredità del dopoguerra e ostaggio della polizia del pensiero catto-comunista. Erano ancora da venire gli anni della riscoperta degli intellettuali della Crisi, da Carl Schmitt a Julius Evola, da Oswald Spengler a Ernst Jünger a Gottfried Benn. In quel tempo l’intellighenzia di sinistra inneggiava all’invasione dell’Ungheria da parte dei carri armati sovietici.
Cavalcare la tigre era anticipatore della crisi di coscienza del tempo ed evocatore di una Cultura che confliggeva con il conformismo dominante. Julius Evola era un maestro della tradizione che imponeva disciplina, cultura e capacità meta-storica.
La tigre corre ancora senza freni. L’«epoca della dissoluzione» non si è conclusa. La lezione di Julius Evola indica una scelta di vita ancora valida. Ma la tigre non si lascia cavalcare da tutti…

GIANDOMENICO CASALINO è studioso del mondo classico greco-romano, nelle sue dimensioni giuridico-religiose e filosofico-politiche. Ha pubblicato vari libri, tra gli ultimi: L’Origine (2009), Lo specchio del mondo (2010), La Conoscenza Suprema (2012).
GENNARO MALGIERI è autore di studi su Costamagna, Evola, Schmitt, Rocco. Analista politico, ha pubblicato: Su Schmitt (1988), Ideario italiano. Il pensiero del Novecento (2001) Alfredo Rocco e le idee del suo tempo (2004). Ha diretto i quotidiani Secolo d’Italia e L’Indipendente. Ha fondato e diretto la rivista Percorsi.
MARCELLO VENEZIANI filosofo, giornalista, si è occupato di Evola sin dalla tesi di laurea dedicata al suo pensiero filosofico (1979) e poi ripubblicata col titolo Evola tra filosofia e tradizione (1984). Tra le sue opere, La rivoluzione conservatrice in Italia (1994), Di padre in figlio Elogio della Tradizione (2001) e Dio, patria e famiglia (2012).
ANDREA SCARABELLI collabora con la cattedra di Storia della Filosofia dell’Università degli Studi di Milano, con la Scuola Romana di Filosofia Politica e la Fondazione Julius Evola. Direttore della rivista Antarès.

Editore: Controcorrente.
Numero di pagine: 80.
ISBN: 9788898000012.

Recensione di Stefano Giuliano, "J. R. R. Tolkien", Edizioni Bietti, Milano 2013

Fortunato il paese che ha bisogno di eroi e (soprattutto) che ha Tolkien

di Roberto Alfatti Appetiti
(Il Secolo d'Italia, 5 giugno 2013)


In principio fu Franco Cardini. Sua, l’intuizione. Giusto trent’anni fa, mentre la critica strabuzzava gli occhi  – tra lo stupore e il fastidio – davanti all’accoglienza entusiastica del pubblico per Il Signore degli anelli, lo studioso fiorentino azzardò l’analisi più acuta: il viaggio della Compagnia dell’Anello, come gruppo e in termini di singoli, altro non è che un viaggio nell’Oltretomba, nell’Aldilà, e in quanto tale un iter iniziatico, a conclusione del quale tutti raggiungono un mutamento di status, un cambiamento interiore, attraverso una serie di prove materiali e spitituali da superare. Più di qualcuno saltò sulla sedia. L’ambito in cui i critici avevano già pensato di circoscrivere l’opera tolkieniana era quello inoffensivo del racconto d’avventure, per quanto riuscito potesse dimostrarsi. Un confine che non giustificherebbe, però, i cento milioni di copie vendute in ogni angolo del mondo, le ristampe a cadenza annuale, la consacrazione cinematografica, le nuove generazioni di fans. Non soltanto l’opera tolkieniana ha resistito alle mode, ma ne ha generata una delle più fortunate: l’heroic fantasy, con tanto di case editrici specializzate, riviste, giochi da tavolo e relative app. Un successo inarrestabile che conferma, piuttosto, come le opere dello scrittore inglese abbiano saputo dare una risposta a bisogni universali. «Tolkien offre a una società scettica e demitizzata, sotto forma di una grande saga fantastica ed eroica, quasi un’epopea, un mito positivo, fondante, completo e verosimile in cui credere, anche se ci si rende conto che è la favola più lunga del mondo». Così Gianfranco de Turris introduce “J. R. R. Tradizione e modernità nel Signore degli anelli”, il prezioso e aggiornato volume di Stefano Giuliano (Bietti, pp. 345, € 22) appena tornato in libreria che, nella sterminata produzione di libri sull’opera tolkieniana, va a colmare un vuoto siderale. E lo fa proprio raccogliendo e approfondendo lo spunto offerto a suo tempo da Franco Cardini. «In Italia scarseggiano studi che analizzano specificatamente il retroterra culturale tolkieniano in funzione della simbologia mitologica, ossia quali siano i fondamenti di certi suoi personaggi, luoghi ed episodi – scrive ancora de Turris – e Stefano Giuliano analizza le influenze e le suggestioni che stanno al fondo di tale narrativa mettendo il Signore degli anelli a confronto con la storia delle religioni, l’antropologia culturale, la mitologia indoeuropea, l’epica medioevale, i romanzi arturiani, le chansons de geste e le saghe norrene, ricostruendo il senso simbolico di personaggi e azioni». Nell’attuale società “liquida”, con la perdita di “consenso” di fedi e credenze, nell’era del precariato globale, la fantasia mito-poietica di Tolkien, con la sua portata esemplare, le valenze morali collegate alle vicende dei protagonisti e le foreste di simboli attraversate dal lettore, hanno avuto successo non tanto e non solo perché narrano storie avventurose ma perché, in un’epoca segnata dal disincanto, hanno restituito significato al mito, dato nuovo vigore a idee e valori antichi, offerto un antidoto al materialismo e al cinismo odierno. «Il Signore degli anelli si fonda sul dispositivo narrativo della discesa agli inferi e sul simbolismo di morte e rinascita come racconto fondante del cammino dei protagonisti», sottolinea Giuliano, classe 1964, talmente a proprio agio tra immaginario religioso, agiografia medievale e letteratura cavalleresca da ricostruire passo passo le fonti letterarie, folkloristiche e mitiche dell’opera tolkieniana. Nella ricerca, nata come tesi di laurea e pubblicata per la prima volta nel 2001 da Ripostes di Salerno col titolo “Le radici profonde non gelano”, Giuliano si sofferma su ogni “indizio” utile: il nome di un personaggio o di un luogo, le citazioni, i riferimenti celati tra le righe e, non ultimi, gli “stratagemmi” letterari con cui il professore coniugava sapientemente quanto efficaciamente mito e realtà. Ecco che il percorso iniziatico di Frodo, il portatore dell’Anello, verso Mordor, può essere letto anche come la migliore metafora possibile della condizione dell’uomo di oggi in un mondo che sembra affacciarsi sull’orlo del baratro. Una missione così difficile, la sua, da risultare quasi “insostenibile”. Eppure Tolkien (non a caso) la affida a un mezzouomo, un hobbit, la figura più “fragile” nel ricco parterre di eroi classici, elfi e guerrieri valorosi a sua disposizione. Con buona pace di Bertolt Brecht, è fortunato il paese che ha bisogno di eroi. Meglio ancora: il paese che coltiva una sana cultura dell’eroismo. Tolkien ambiva a restituire all’Inghilterra quelle storie di dèi e degli eroi dell’epoca pre-cristiana (sul genere dell’Edda norrena, del Kalevala finnico e del Nibelungenlied tedesco) che la conquista normanna e la prima rivoluzione industriale avevano finito per disperdere. Ma, nello stesso tempo, non trascurava il mondo che aveva intorno. Mordor, oltre a essere una rappresentazione dell’inferno, lascia intravedere un’inquietante “somiglianza” con la realtà moderna: «inquinamento atmosferico e idrogeologico, impoverimento del territorio, rovina del paesaggio, accumulo di scorie e residui, mentre Sauron pare offrirsi come rappresentazione del potere assoluto e tirannico». Meglio di chiunque altro, era stato Elémire Zolla a “inquadrare” Tolkien, sin dalla prima introduzione all’edizione del 1970: «Autore o amatore di fiabe è colui che non si fa servo delle cose presenti». Tolkien, uno di noi.

http://www.ilgiornale.it/news/interni/cultura-destra-viva-e-vegeta-nonostante-pdl-908312.html

Cultura a destra? Viva e vegeta nonostante il Pdl

Il Popolo della libertà vuole ripartire dalle idee. Giustissimo: le ha trascurate troppo a lungo...


Sul Giornale, nei giorni scorsi, esponenti di spicco del Popolo della libertà quali Fabrizio Cicchitto e Mariastella Gelmini hanno avviato una discussione interessante: il centrodestra, per ripartire, avrebbe bisogno di una iniezione di cultura. È un auspicio tanto giusto quanto sorprendente perché il partito non ha dato l'impressione, nell'azione politica degli ultimi anni, di fare tesoro delle energie sprigionate da aree culturali non riconducibili alla sinistra. Senza troppi giri di parole: la cultura di destra, dal 1994 a oggi, ha offerto tanto ma i politici di destra, con le dovute eccezioni, non parevano sempre interessati. Nella gestione della Rai, dei ministeri chiave in campo culturale, delle istituzioni cittadine, s'è visto assai poco ispirato alla «cultura di destra». Spesso le buone intenzioni di partenza sono rimaste lettera morta, in questa sede non conta dire perché. Anche gli intellettuali sbarcati a Roma, dal compianto Piero Melograni a Marcello Pera, non sembrano nel complesso aver ricoperto un ruolo decisivo.
Liberali, cattolici, post-missini: fuori dal Parlamento c'è una enorme concentrazione di forze con proposte forti ma chi le sta a sentire? Sono senza interlocutori politici al punto che c'è gente (di destra) che sostiene che tutto sommato, quando c'è qualche progetto concreto in ballo, sia meglio cercarsi interlocutori istituzionali di sinistra. Almeno c'è qualcuno con cui parlare anche se poi ti dirà di «no». Dall'altra parte, la nostra, invece ti attende il nulla.
Il Pdl avrebbe un bacino inesauribile di idee a cui attingere, se lo volesse. Salvo rare eccezioni, nessuna delle persone che qui saranno nominate è etichettabile come «di partito»; qualcuna non si definisce neppure di centrodestra; tutte attribuiscono un valore fondamentale alla propria autonomia. Non vogliamo certo arruolare nessuno. Vogliamo piuttosto segnalare intellettuali accomunati da un lavoro serio che va in una direzione diversa (se non propria opposta) rispetto alla sinistra. Intellettuali che quindi dovrebbero «interessare» al Popolo della libertà all'improvviso affamato di cultura.
L'Istituto Bruno Leoni è un punto di riferimento imprescindibile per chiunque, sia pure con sfumature diverse, appartenga all'universo liberale e libertario. Produce paper, convegni, corsi di studio, libri e seminari. Dalla cultura, all'economia, passando per l'ambiente e l'urbanistica: non c'è settore che sia scoperto. Nel suo organico ci sono fuoriclasse come Carlo Lottieri, Alberto Mingardi, Carlo Stagnaro, Filippo Cavazzoni, Serena Sileoni. Il «padre spirituale», oltre a Leoni, è Sergio Ricossa.
Dopo decenni di silenzio, ora vi sono due editori coraggiosi che hanno portato i classici del liberalismo austriaco e non solo dalle nostre parti: Liberilibri di Aldo Canovari e Rubbettino di Florindo Rubbettino sono colonne portanti della cultura liberale italiana. A cui di recente si è aggiunta, con titoli inattesi e fortissimi, la Marsilio di Cesare De Michelis. Il «giro» di autori, collaboratori, curatori, prefatori di questi «piccoli» (in realtà grandissimi) editori è di per sé una mappa del pensiero storico-filosofico non dogmatico: Giuseppe Bedeschi, Lorenzo Infantino, Raimondo Cubeddu, Dario Antiseri, Luigi Marco Bassani, Eugenio Di Rienzo, Giovanni Orsina, Fabio Grassi Orsini, Alessandro Orsini... Un po' più a destra, l'editore Bietti propone una delle migliori riviste italiane, Antarès, fucina di talenti coltivati da Gianfranco De Turris, ove si può leggere di letteratura, economia, polemiche culturali fuori dagli schemi.
Le associazioni cattoliche sono sempre state ben organizzate: svolgono un lavoro incredibile sull'istruzione paritaria dal punto di vista legale, divulgativo, economico, culturale offrendo una mole di dati impressionante e proposte concretissime per incentivare la libertà di scelta delle famiglie. Che dire poi di editorialisti e scrittori come Antonio Socci, Camillo Langone, Luca Doninelli, Davide Rondoni, Luca Negri e tutte le altre penne affilate che guardano alla Chiesa come punto di riferimento; del gruppo combattivo che fa capo a Riccardo Cascioli e al rinato quotidiano on line La bussola; del lavoro sempre coerente di editori come Lindau, Cantagalli, San Paolo, Ares?
Quotidiani. Il Foglio di Giuliano Ferrara è nato per offrire un solido retroterra culturale al neonato centrodestra, e ha fatto un lavoro esemplare. Ha fatto conoscere i valori di un partito liberale di massa, ha dialogato col mondo cattolico, ha lanciato talenti in grande numero, ha valorizzato e fatto esplodere geniacci inclassificabili come Pietrangelo Buttafuoco. Del Giornale non tocca a me dire. Però voglio ricordare chi combatte o ha combattuto, di recente e con posizioni variegate, la sua battaglia culturale sulle nostre colonne: Luca Beatrice, Beatrice Buscaroli, Giampietro Berti, Roberto Chiarini, Dino Cofrancesco, Francesco Forte, Giordano Bruno Guerri, Giorgio Israel, Luca Nannipieri, Fiamma Nirenstein, Massimiliano Parente, Francesco Perfetti, Claudio Risé, Vittorio Sgarbi, Stenio Solinas, Marcello Veneziani, Stefano Zecchi.
Internet? Social Network? Il mondo dei blogger «di destra» è da sempre all'avanguardia grazie a pionieri come Andrea Mancia fondatore, fra le altre cose, di Tocqueville.it. Mancia, Bressan, Missiroli e altri hanno saputo aggregare nella rete le forze conservatrici-liberali, prima della sinistra, ricavandone una miniera di sapere sul web.
Questo elenco è parzialissimo, chiedo scusa ai moltissimi che nell'impeto ho certamente dimenticato e ai tanti «cani sciolti» che dell'assoluto individualismo hanno fatto una religione. D'altronde non serve un elenco completo: questo è solo un piccolo esempio di cosa si agita fuori dai palazzi romani. La cultura c'è. Il partito può dire altrettanto?

domenica 21 aprile 2013

Recensione di G. Lonardoni, Vibenna. Una saga etrusca

Gerardo Lonardoni, Vibenna. Una saga etrusca, 
                                        Edizioni Bietti, Milano 2012, pp. 402, euro 20,00.

In un'epoca che si illudeva di procedere a grandi
passi verso un eterno futuro, lui veniva a ridare
vita a un remoto passato che altri credevano
morto e sepolto (Vibenna, p. 377).

Il mito, scriveva Ernst Jünger negli anni Cinquanta, “non è storia remota; è realtà senza tempo che si ripete nella storia”. Aggiungendo, subito dopo: “È un buon segno che il nostro secolo ritrovi un senso nei miti”. Secondo Mircea Eliade, “la storia della «riscoperta» del mito nel XX secolo costituisce un capitolo della storia del pensiero moderno”, intendendo il mito come quel medium che “reintegra l'uomo in un'epoca atemporale che è, di fatto, un illud tempus, cioè un tempo aurorale, «paradisiaco», oltre la storia”. Accanto alla storia progressiva e lineare, sbilanciata verso il futuro, verso la dimensione escatologica dell'utopia, ecco dunque riaffiorare il mito, narrazione delle origini, a testimonianza di un paradigma che non si lascia estirpare dai tempi ma che accompagna la prima, in maniera per così dire carsica. Ciò accade in quanto esso non appartiene ad un passato concluso una volta per tutte ma ad un'origine contemporanea a tutte le epoche, deflagrando nell'hic et nunc per denotarlo come esperienza immortalante. Riconoscere questa compresenza è compito di una filosofia e di una letteratura che vogliano dirsi ad un tempo moderne e tradizionali.
Questi auspici costituiscono, a parere di chi scrive, i presupposti teorici di un romanzo appena dato alle stampe per i tipi della casa editrice milanese Bietti, firmato da Gerardo Lonardoni. Stiamo parlando di Vibenna. Una saga etrusca, che affronta, da un punto di vista narrativo, una delle tappe cruciali dell'aurora della civiltà occidentale, a dimostrazione che quanto scritto da Eliade riguardo al XX secolo può ben dirsi valido anche per il XXI. Nel territorio in cui Lonardoni conduce il lettore il mito si accompagna alla storia, anzi, più precisamente, la storia non acquisisce senso che per il tramite della trasfigurazione mitogenetica. O il divenire è ierofanico oppure non è affatto, insomma. Ce lo dice l'autore stesso, nel Prologo. Il mito è quel tratto che fa da collante tra il mondo materiale e la dimensione metafisica dell'esistenza: mentre i miti del mondo moderno “sono solo favole senza morale, il cui unico scopo è di estraniarci dal mondo reale, quando ne siamo annoiati o spaventati”, al contrario, per i popoli dell'antichità, “erano punti di riferimento essenziali, il fondamento stesso del loro mondo interiore ed esteriore” (p. 12). Questa dimensione esperienziale ed immanente del mythos è l'unica in grado di condurci nei domini etruschi di cui si narra in Vibenna, nei quali ha luogo una vicenda assai singolare.
Il compito dei fratelli Auleos e Caelos Vibenna è condurre MacStarna, mercenario etrusco, a conseguire lo stato di regalità che gli spetta, divenendo il futuro Servo Tullio, Re di Roma. Strappato in tenera età dalla sua condizione di figlio legittimo della Città Divina da un misterioso rapimento, avvenuto con il tacito consenso della regia romana, il cui senso andrà palesandosi nel corso della narrazione, la sua è una Queste che mira a realizzare uno stato superiore – condizione già contenuta embrionalmente nelle premesse ma che va disvelata e realizzata. La vicenda si principia in una taverna, nella quale il guerriero etrusco viene avvicinato dai due fratelli che, apparsi dal nulla, gli parlano di progetti, missioni, destini e via dicendo. Stupefatto, obbedendo ad un fato che non gli si rivelerà che gradualmente, partecipa a battaglie, smaschera intrighi, prendendo parte alle vicende storiche di un'Italia ancora aurorale. La sua ascesa alla funzione regale passerà per una serie di tappe paradigmatiche, all'interno delle quali il mercenario dovrà dimostrare il proprio coraggio ma anche capacità logistiche e tatticostrategiche.
Il suo è un autentico percorso di formazione, che si tinge di tonalità iniziatiche a partire dalla comunione che istituisce con due figure sacerdotali, le quali gli faranno intendere la suprema verità, che lo condurrà da una condizione mercenaria al potere solare romano: il suo iter non è – e non sarà – ascrivibile al mero percorso individuale ma risponde ad un disegno più alto. Certo, si tratta di una vocazione che lascia del tutto interdetto – se non addirittura irritato – il nostro MacStarna, mercenario abituato a fare affidamento sulle proprie forze e incapace di comprendere le ragioni dei Vibenna, orientate non da logica umana ma da augurio divino. Perché l'hanno cercato? Perché, tra tutti, proprio a lui è destinata questa missione? Presto detto, spiegano Auleos e Caelos: è il dio che, parlando per bocca di Cacu, l'oscuro indovino che si accompagna loro, ha fatto il suo nome. Ma, di questo, il protagonista non riesce ancora a capacitarsi. O meglio, non ancora.
MacStarna non accetta sudditanza o schiavitù, ma agisce esclusivamente per sua diretta iniziativa. Ma può vedersi in questo suo daimon una mancanza di libertà? Null'affatto, e saranno le vicende cui prenderà parte ad insegnarglielo: libertà non è l'avocarsi il diritto di corrispondere ai propri istinti più bassi ma accordare il proprio volere, il proprio sentire, il proprio essere, insomma, al volere degli dèi. Libertà e destino non solo non si contraddicono ma sono due figure complementari, il cui fondo comune è inalienabile.
Una congiunzione cruciale, all'interno di Vibenna. Certo, perché se è della libertà di MacStarna che si parla, viceversa il disegno all'interno del quale essa si staglia altro non è che il destino dell'Occidente stesso, il cui sviluppo avviene nel nome della Città Eterna, che, al tempo dei Vibenna,

era soltanto il capoluogo di un piccolo stato di pastori guerrieri e nulla ancora lasciava presagire il suo futuro destino di capitale dell'Occidente (p. 13).

La funzione di MacStarna, in qualità di Servius Tullius, patrocinata dai due Vibenna, sarà di innestare i segni della civiltà etrusca nella nascente civiltà romana, facendosi raccordo vivente tra il crepuscolo di una cultura e la nascita di un'altra. Egli si fa testimone della Tradizione e della sua continuità, garantendo il passaggio dei momenti sacri dell'universo etrusco all'interno di quello romano, tassello vivente della sempiterna sacra filosofia che di Roma e dell'Occidente è la quintessenza. Sarà la stessa madre di MacStarna, Thànaquil, a rivelargli, dopo il ritorno di quest'ultimo a Roma:

Tu sei l'uomo migliore del nostro popolo, l'incarnazione stessa del genio tirrenico. Roma invece è la più forte delle città italiche e avrà un grande avvenire […]. Me l'ha rivelato il dio (p. 236).

A che tuttavia la Città Eterna possa espletare la sua funzione, occorre che essa affronti e superi le numerose sfide che il destino le porrà. Come tutte le società tradizionali, la sua esistenza non è statica ma dinamica, basandosi su una continua lotta tra ciò che è superiore e ciò che è inferiore, come tematizzato da numerosi studiosi e intellettuali, tra cui l'Evola di Rivolta contro il mondo moderno. Ora, questo superamento continuo è possibile ad una sola condizione:

Potrà riuscire in questa sua impresa solo se alla sua forza unirà la saggezza degli Etruschi […]. Roma diventerà una città non più soltanto latina, ma anche etrusca; e quando il nostro popolo declinerà e il Nome Etrusco scomparirà per sempre dal novero delle genti, la sua essenza più profonda continuerà a vivere in Roma (Ibidem).

Inizialmente scettico e, potremmo dire, non senza un certo anacronismo, materialista – il guerriero difatti pare non curarsi degli dèi e dei vaticini degli auguri – gli eventi cui parteciperà gli mostreranno il suo percorso essere voluto da quelle stesse divinità che suggellarono di eternità il nome di Roma.
Ennesimo elemento di grande interesse sono le due figure sacerdotali che lo accompagnano durante la sua formazione, vale a dire Cacu, legato ai fratelli Vibenna, e il druido Dunecan, padre di uno degli eroi dei Celti con il quale il mercenario etrusco si confronta, all'inizio del romanzo. Da dette figure il protagonista verrà edotto sull'importanza della sua azione, non solo da un punto di vista storico ma pure cosmico. Da Dunecan, capirà che vana è ogni libertà che alieni l'uomo dal proprio destino. E ai vagheggiatori di una libertà anarchica intesa come mera assenza di limite, il druido potrebbe rispondere come fece a MacStarna:

Quanti uomini davvero liberi hai conosciuto finora? Servire la volontà del dio non significa essere dei servi. Gli uomini sono succubi delle loro debolezze e vivono tutta la loro vita al servizio di quelle. È meglio obbedire al dio, credimi: è un padrone migliore rispetto alla natura umana! (p. 374).

Ciò che l'etrusco dovrà apprendere a conclusione del suo iter è che questo rapporto con quelle sfere superiori alla storia non implica affatto un obnubilamento della propria individualità. Nell'ottica che fa da sfondo alle vicende di Macstarna e dei Vibenna, gli dèi non sono entità aliene dalle vicende del mondo, a cui certa speculazione cristiana ci ha reso avvezzi, quanto dei simboli di una potenza che ha da essere realizzata a livello anzitutto individuale:

L'uomo comune ha bisogno di dei e di signori, per sapere sempre qual è il suo compito; l'uomo superiore ne fa a meno ed è legge a se stesso (p. 375).

Da qui la sentenza definitiva del druido, che inizia MacStarna alla sua funzione regale, che sembra riprendere la tematica dell'infrazione volontaria del disegno cosmico, non per incorrere nelle punizioni destinate a chi infrange questo equilibrio quanto piuttosto per porsi al di sopra di esso (tematica presente in numerose tradizioni delle più svariate estrazioni):

Chi non obbedisce agli dei, significa che li ha al proprio servizio (Ibidem).

Il libro di Lonardoni, in conclusione, può essere letto da un duplice punto di vista. Come romanzo, nella sua forma narrativa, ben scritto e avvincente, ma anche come documento storico, atto ad illuminare una vicenda adombrata dalla Storia con la “S” maiuscola. Storia, precisa l'Autore, scritta dai vincenti, anche se, scrive per bocca del professore protagonista dell'Antefatto successivo che chiude il volumetto, “i vinti a volte si prendono delle rivincite postume, facendo trapelare in qualche modo la loro visione dei fatti” (p. 378). Un ritorno del rimosso, dunque, secondo il quale il Servo Tullio della tradizione romana viene ora inquadrato a partire dall'iter che lo condurrà dalla sua origine etrusca fino alla Città Eterna.
Laddove si voglia invece analizzarlo da un punto di vista simbolico, poi, la soddisfazione della lettura sarà ulteriore – e questo, a dimostrazione delle straordinarie possibilità offerte da questo tipo di narrativa, che molti vogliono confinare nell'ambito della mera fiction, svago da tempo libero.
Questa triplice possibilità di lettura è, a parere di chi scrive, tratto fondamentale del romanzo. Come MacStarna, anello di una catena che – dall'Etruria a Roma – ancora anima il nostro Occidente, la narrativa entro il cui alveo può collocarsi Vibenna può dirsi una felice sintesi tra temi di certo antichi ma trattati con lo stile moderno del romanzo, rispondendo all'esigenza mitopoietica dei tempi di cui sopra. Calandosi di volta in volta nella storia, con il linguaggio proprio al susseguirsi delle epoche, Lonardoni rianima un mondo, ne rievoca lo spirito dalle sue ultime vestigia. Ed ecco Cacu, Macstarna Auleos e Caelos, insieme a tutti gli altri, tornare dall'oblio e accompagnare il lettore, iniziarlo ai misteri di un'Italia di certo scomparsa ma resa contemporanea a tutte le epoche dal medium mitopoietico della fiction.

Andrea Scarabelli
(PoliticaMente anno VIII n. 78 - febbraio 2013)
http://www.politicamente.net/recensioni.html

Recensione di A. Henriet, L'uomo che cavalcava la tigre

Alberto Henriet, L'uomo che cavalcava la tigre. Il viaggio esoterico del barone Julius, presentazione di G. de Turris, Gruppo Editoriale Tabula Fati, Chieti 2012, pp. 80, € 8,00.

L'uomo che cavalcava la tigreQuello che presentiamo è un autentico viaggio, realizzato attraverso le opere pittoriche evoliane, che ripercorre le tappe fondamentali della vita di quello che è uno dei protagonisti della cultura novecentesca. Un viaggio nel quale Evola non è una semplice comparsa ma autentico medium delle sue opere, trascinando il lettore all'interno del suo mondo, biografico ma soprattutto metabiografico.
Un passo per volta, però. Lo sfondo di queste pagine è il vernissage di un'ipotetica esposizione: “Ea, Jagla, Julius Evola (1898-1974), poeta, pittore, filosofo. Il barone magico. Attraverso questa Mostra, promossa dalla Fondazione Julius Evola, conosceremo l'Evola pittore futurista e dadaista. È questa la prima retrospettiva a lui dedicata nel XXI secolo” (p. 13). Henriet ci invita a questa esposizione immaginaria, all'interno della quale ogni dipinto prende vita, inaugura una dimensione metatemporale e ci conduce attraverso le sillabe alchemiche dell'universo pittorico evoliano. Senza però fermarsi alle tele, a futurismo e dadaismo ma estendendosi all'interezza della “tavolozza dai molti colori dell'Irrazionalismo evoliano” (p. 13), momento altresì fondamentale per accedere alla cultura continentale novecentesca. E chi conosce il pensiero di Evola sa bene che tipo di valenza conferire al termine “irrazionale”...
Ad accompagnare il lettore altri non è che Evola stesso, a volte sostituito dal suo doppio Ea (uno degli pseudonimi con cui questi firmava taluni dei suoi contributi su Ur e Krur, alla fine degli anni Venti). Ogni dipinto “esposto” in quella che può considerarsi una galleria anzitutto interiore ridesta nel filosofo ricordi, universi, dimensioni – realtà. In ognuno dei ventisei capitoli che costituiscono il volumetto – molti dei quali recano, non casualmente, i titoli di opere evoliane, come Five o' clock tea, Nel bosco e Truppe di rincalzo sotto la pioggia – il lettore percorre i labirinti di Evola, ognuno dei quali avente una via d'accesso differente ma tutti diretti verso il cuore della sua Weltanschauung.
In questa dimensione, a metà tra la realtà fisica ed una onirico-allucinatoria, personaggi reali interagiscono con figure fantastiche – questo l'intreccio, abilmente restituito dalle pagine di Henriet. Non è difficile così scorgere un Evola intento a leggere recensioni dei suoi dipinti sulle colonne di riviste intemporali, intrattenere conversazioni con personaggi fantastici, percorrere dimensioni ontologiche ultraterrene. Ma, al contempo, a questi itinerari sono accostati momenti storici ben precisi, con il loro corollario umano - appaiono allora Arturo Reghini, Sibilla Aleramo, Arturo Onofri, Giulio Parise e gli iniziati del Gruppo di Ur.
Ed ecco evocati, come d'incanto, gli anni Venti, delle avanguardie e dei cenacoli esoterici. Ecco le feste organizzate dagli aristocratici, frequentate dal giovane Evola, nella fattispecie una, tenutasi per festeggiare la fine della Prima Guerra Mondiale: “Julius è vestito di nero, ed ha il volto coperto da una maschera aurea, provvista di un lungo naso conico” (p. 16). È l'unico, in Italia, tra i futuristi, ad apprezzare l'arte astratta. Il futurismo non è che una maschera, gli rivela la duchessa de Andri, organizzatrice della festa, liberatevene. E, tra le boutade di Marinetti e gli abiti disegnati da Depero, “egli andò oltre” (p. 22).
Non è che l'inizio: la realtà onirica diviene visione “vera” e simboli percorrono le trame dei vari capitoli, rendendoli interdipendenti tra loro: l'ape austriaca che, muovendosi a scatti con un ritmo metallico, si posa sulla tela appena conclusa di Truppe di rincalzo sotto la pioggia è la stessa che accompagna il giovane poeta Arturo Onofri tra i colpi delle granate della Grande Guerra, nella quale “la voce di Evola è a favore degli Imperi Centrali: l'Austria e la Germania” (p. 26).
Attraversati gli scandalismi e i manifesti futuristi, percorso il nichilismo dadaistico, il cammino del cinabro evoliano procede: “In un dorato pomeriggio autunnale, in Roma, nel 1921, alle ore 17, infine Evola capì. Aveva da poco smesso di dipingere. Quell'esperienza artistica era giunta alla fine, nel senso che le sue potenzialità creative si erano esaurite: tutto quel che poteva fare attraverso i quadri per procedere nella sua ricerca interiore, ebbene, lo aveva fatto” (p. 28). Alle 17.15, Evola si libera del suo doppio dadaista per procedere oltre, dopo l'abisso delle avanguardie per poi risalire, senza incappare nell'impasse dell'inconscio freudiano surrealista e della scrittura automatica. Via, verso Ur e Krur, La Torre e la sua rivolta contro la tirannia della modernità.
Come già detto, il percorso tracciato da Henriet non si arresta all'esaurimento della fase artistica, ma procede, percorrendo tutte le sue fasi fondamentali. Un altro frammento di realtà, trasfigurato e sublimato nelle serpentine dell'ermetismo pittorico del futuro filosofo: il XXI aprile 1927, dies natalis Romae, coglie il Nostro affacciato alla finestra di una torre – non d'avorio ma “di nera ossidiana” – mentre assiste da lontano ad una parata. “Tutta l'Urbe è in festa, ma Ea preferisce restarsene da solo, nel proprio salone. Per lui, in fondo, il fascismo è troppo plebeo” (p. 41). Ed ecco comparire, a cavallo di farfalle che sorvolano la Città Eterna, gli altri membri del Gruppo di Ur, quasi a formare una delle loro catene nei cieli liberi sopra la città, sopra il mondo intero, al di sopra della storia. Henriet rievoca qui le vicende legate alla celebre Grande Orma (episodio con retroscena ancora da scoprire, come testimonia il recente ottimo libro di Fabrizio Giorgio, Roma Renovata Resurgat, Settimo Sigillo, Roma 2012): “Nel 1923 hanno donato al capo del Governo un fascio formato da un'ascia di bronzo che proviene da una misteriosa e antica tomba etrusca, e dodici verghe di betulla, legate con strisce di cuoio rosso” (p. 42). La Tradizione porge la mano alla Storia, aspettando una risposta. Sono anni cruciali, questi, nei quali in poche ore possono decidersi non solo i destini di un decennio ma le sorti di un'intera civiltà. Riuscirà il fascismo a farsi depositario del proprio destino romano? Sono in molti a chiederselo. Attonito, Evola assiste al Concordato, al vanificarsi di un sogno, “ancora una volta è solo”, “uno spirito libero e aristocratico, fuori tempo e fuori luogo” (p. 42): in una parola, inattuale, in senso nietzschiano. Così, mentre le piazze gorgogliano dei singhiozzi gioiosi di quegli stessi che all'indomani del fallimento del fascismo prepareranno le forche e accenderanno i roghi, Evola se ne rimane in disparte. Alla fine della scena, una camicia nera emerge dal buio della notte, gli si avvicina, pronunciando, con una voce d'acciaio, queste parole: Il Natale romano è finito, barone. Da ora in poi, il destino degli eventi a venire è già scritto.
Ed ecco la Seconda Guerra Mondiale, la guerra civile europea, l'inizio di un nuovo ciclo, sul quale già pesa il presagio dell'ipoteca. Il viaggio nella prima mostra evoliana del XXI secolo continua, tra anticipazioni e retrospettive. Nella camera magica, Evola vede quello che sarà il suo destino: “In piedi, tra le rovine fumanti d'Europa, al termine della Seconda Guerra Mondiale, si aggira per Vienna. 1945. Una visione di morte. La tigre diventa metallo: la carne si solidifica” (p. 47). Sbalzato contro un muro dallo spostamento d'aria causato da una bomba, trascorrerà il resto della sua esistenza affetto da una semiparalisi degli arti inferiori.
Il Barone è costretto su una carrozzella, novella tigre d'acciaio. Il secondo dopoguerra. Con una certa ironia (che non sarebbe dispiaciuta al Barone ma che forse non piacerà a certi “evolomani”, come scrive Gianfranco de Turris nella sua Introduzione) l'autore immagina che proprio a cavallo di questa nuova tigre il Nostro continui la sua battaglia. Inizia a dipingere copie dei suoi dipinti degli anni Venti, dispersi (ossia venduti) durante la celebre retrospettiva del 1963. Eppure, anche in questa nuova situazione, si profilano nuovi attacchi, nuove situazioni da superare, come i Rivoluzionari del Sesso (evidente richiamo alle dottrine di Wilhelm Reich). Ed ecco gli Anti-Veglianti, Signori dell'Occhio, che tentano di impiantare un Occhio televisivo al posto di quelli biologici, teso ad uniformare Evola al mondo moderno, alla tirannia dell'homo oeconomicus e dei Mezzi di Comunicazione di Massa, che al terzo occhio ne sostituiscono uno artefatto e anestetizzante, che riduce l'uomo a Uomo Banale e Mediocre. Ma Evola riesce a fuggire.
Ennesima anticipazione: questa volta in alta montagna, molti passi sul mare, ancora di più sull'uomo, come aveva scritto Nietzsche. Eccolo assistere in anteprima alla deposizione delle sue ceneri sul ghiacciaio del Lys. Allucinato da uno dei suoi quadri, Evola ha una visione di quel che sarà: “Il vento spira freddo, la luce del sole è netta, brillante. Il silenzio domina tutto. I ghiacci eterni scintillano. V'è una gran quiete, tesa, nervosamente carica di energia in potenza” (p. 36). Per disposizione testamentaria, il suo corpo viene cremato, le ceneri disperse sulle Alpi. Così vive la propria morte Ea, Jagla, il Barone – nel libro non la conoscerà mai più, fisicamente. Si addormenterà, sognando un'intervista realizzata per la televisione svizzera nei primi anni Ottanta. Il “diamante pazzo” che scaglia bagliori qua e là, illuminando ora l'uno ora l'altro frammento del firmamento occidentale, è seduto “sulla sua tigre a dondolo, in legno aromatico e dai colori smaltati in vernice brillante” (p. 67). Certo, pensa Evola beffardamente, parlare di certe cose nel mondo moderno, servendosi dei media (chissà che avrebbe pensato oggi, nell'epoca della Rete...), non è certo ottimale. Comincia a dubitare della sua decisione di concedere l'intervista. Questa posizione a cavallo della tigre comincia ad apparirgli un po' scomoda. Risponde alle domande, ribadendo le proprie posizioni di fronte al neospiritualismo, alle censure di certe cricche intellettuali e via dicendo. Ma la realtà del suo sogno inizia a sfaldarsi. Il suo pellegrinaggio nel kali-yuga lo ha prosciugato: “Evola non immaginava che sarebbe stato così difficile. Il sogno della realtà è diventato un caos indistinto di colori acidi” (p. 71). Abbandonandosi al disfacimento dell'architettura onirica nella quale si vive morente, si spegne, “gli occhi accecati da una radianza aurea intensissima” (Ibid.). Il confine tra sogno e realtà è disciolto per sempre: Evola, che aveva visto la propria fine vivente in uno dei suoi quadri, ora vive la propria morte in un sogno.
Scritto con un registro stilistico iperbolico ed evocativo, il libro di Henriet, come messo a fuoco da de Turris nella già citata introduzione, non è però solo una rassegna di queste esperienze, quanto piuttosto una ricognizione sul senso dell'interezza del sentiero del cinabro, portato a stadio mercuriale durante il corso della vita del Nostro. Come è noto, a partire peraltro dalla sua biografia spirituale, il Cammino del cinabro, Evola diede pochissimo spazio a dettagli di ordine personale, preferendo ad essi un'impersonalità attiva fatta di testimonianze ed opere. In uno degli ultimi capitoli, Henriet scrive: “Della vita privata di Ea si sapeva poco, era come se non gli fosse accaduto nulla di personale. Egli era semplicemente il mezzo, uno dei possibili, attraverso i quali l'Io originario – la Genitrice dell'Universo, una delle Madri di Goethe – operava su quel piano della realtà, governato dalle regole del tempo e dello spazio” (p. 62). In questo può risolversi l'esercizio della prassi tradizionale, per come interpretata dal filosofo romano. Una azione nella quale l'essere un mezzo di istanze sovraindididuali non annichilisce l'Io, come vorrebbero invece talune spiritualità fideistiche sempre avversate da Evola, ma lo potenzia, finanche a realizzarlo in tutti i suoi molteplici stati. Un monito, questo, quanto mai attuale, tanto per accedere all'universo evoliano quanto per attraversare illesi il mondo moderno, sopravvivendo alle sue chimere e fascinazioni.


Andrea Scarabelli

Pubblicato sul sito della Fondazione Julius Evola (http://www.fondazionejuliusevola.it/Contributi.htm) e su Studi Evoliani 2010 (Fondazione Julius Evola, Roma 2013)

Andrea Scarabelli: Razionalismo e antiumanesimo nell’epistolario lovecraftiano

http://www.centrostudilaruna.it/razionalismo-e-antiumanesimo-nellepistolario-lovecraftiano.html?wpmp_switcher=mobile


“Voi, tutti voi, siete folli non perché quello che sapete sia sbagliato ma perché pensate che, per il solo fatto che non conoscete altro, questo che conoscete esaurisca la sapienza dell’universo [...]. In realtà esistono esseri che se solo riusciste ad intravedere vi toglierebbero ogni fiducia nell’esistenza di un qualunque ordine del mondo e vi getterebbero nel terrore più folle perché capireste che l’unica vostra possibilità rimane la speranza che questi esseri non abbiano interesse ad occuparsi di voi (1)”.
lovecraftIn questo breve contributo, finalizzato ad onorare una delle figure intellettuali più interessanti – seppure, tuttora, ampiamente ignorata da una critica non meramente letteraria – del secolo sul quale si è appena chiuso il sipario, considereremo alcuni aspetti, filosofi ci e non, emergenti dalla ampissima corrispondenza che Howard Phillips Lovecraft teneva, quotidianamente, con amici, scrittori e giornalisti – corrispondenza il cui ammontare sfiora le centomila lettere, alcune, peraltro, di una lunghezza spaventosa. E ciò, a partire da una antologia epistolare curata da Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco, uscita con il titolo di H. P. Lovecraft. L’orrore della realtà. La visione del mondo del rinnovatore della narrativa fantastica (Mediterranee, Roma 2007).
Lovecraft fu uno degli ultimi compositori massivi di lettere – pratica, oggi, ormai superata dalla messaggistica istantanea che annichilisce il gusto di comporre una comunicazione stilisticamente gradevole e curata. Dall’epistolario lovecraftiano, ora come ora analizzato sino ad un assai scarso quindici per cento, emergono tutte quelle direttrici spirituali che assumono connotazione letteraria nei racconti del nostro autore. Ne analizzeremo, in questa sede, alcune, per mostrare quanto Lovecraft possa inserirsi a tutti gli effetti in un filone culturale e letterario denominato usualmente letteratura della crisi. Una delle sfaccettature che discuteremo nel presente saggio – tra le più incisive, a parer nostro – è la decostruzione totale di un antropocentrismo permeante ampie porzioni della cultura continentale illuminista e positivista (2). È quanto, ora, occorre porre in questione, a partire dall’antologia sopracitata.
orrore-della-realtàNell’opera lovecraftiana, il netto rifiuto di un uomo inteso quale misura di tutte le cose e di un universo modellato intorno ad un entità caratterizzata in siffatto modo va a coniugarsi con una Weltanschauung nella quale l’umanità non è che un fragile stato intermedio, sospeso tra istanze più antiche e per nulla amichevoli verso di essa. Il processo di cosmicizzazione perpetuato dal razionalismo occidentale non è che mera fantasia, innanzi alla constatazione che vi sono forze che abitano tanto i freddi spazi siderali quanto le viscere della terra che non hanno la minima cura delle concezioni universalistiche antropocentriche. Le pretese umane, troppo umane, di porre l’uomo come causa, al contempo efficiente e finale, del cosmo intero vanno a scontrarsi e a naufragare innanzi alla certezza glaciale che, come il nostro autore ebbe a scrivere a Rheinhart Kleiner nel 1921, “la vita non ha un significato o un principio guida – l’uomo non è altro che un microscopico frammento in quel cosmico ammasso di materia che è il luogo d’elezione di capricciose, incontrollabili forze naturali” (3). Se la scienza moderna assume la regolarità dei fenomeni quale suo momento costitutivo, al fine di garantirsi capacità predittive, questa velleità viene messa al bando da Lovecraft, secondo il quale se “talvolta ci è possibile prevedere, a partire dal nostro stato presente, ciò che presumibilmente sarà di noi” (4), il successo di siffatta profezia non può che essere casuale ed episodico, in quanto “le vere cause all’opera sono nelle mani di forze che non conosciamo” (5). La regolarizzazione del corso naturale e cosmico in schemi creati ad hoc – nobile menzogna, comunque e in ogni caso necessaria all’esistenza di un uomo che non potrebbe nemmeno tollerare l’apertura di una prospettiva più ampia – si estingue, laddove lo sguardo si sposti ad un milieu più vasto.
I cieli di Lovecraft si popolano, allora, di quegli esseri “cosmicamente indifferenti” (6) che, nella migliore delle ipotesi, non hanno la minima considerazione dell’uomo e dei suoi aneliti di controllo e misurazione di tutti gli enti. A partire da ciò, il netto rifiuto di aderire ai dettami mitologici di un Cristianesimo il quale non farebbe che edulcorare, attraverso la fondazione teologica di un Dio benevolo ed attento alle preoccupazioni umanoidi, il carattere ignoto e uneimlich, perturbante, connaturato all’esistenza in quanto tale. Ciò non significa, ben inteso, che il Cristianesimo debba venire messo al bando dalle società: esso è pur sempre necessario all’ordinamento vigente, al fine di proteggere le illusioni delle masse – le quali, come direbbe un Filippo Burzio, hanno “sete di miracoli” (7) – dalla percezione della loro assoluta insignificanza, in un contesto più esteso.
All’interno di queste considerazioni emerge ampiamente, come diremo più avanti, la critica di colui che si definì “uno scrittore horror amante del passato e della tradizione” (8) ad un sistema democratico che affonda le sue radici negli strati più bassi della società e della mera quantità, al fine di garantirsi e perpetuarsi; si domandava, il nostro: “Perché individui dotati di buon senso dovrebbero auto-ingannarsi raccontandosi dell’esistenza di privati e benevoli dèi, spiriti e dèmoni? Queste fandonie vanno bene per la feccia della società: ma perché persone razionali dovrebbero tormentarsi con tali stupidaggini?” (9).
L’uomo, insomma, non può che indagare le regioni circostanti la sua minuta ed insignificante individualità, senza giungere anche solo ad intendere la portata abissale delle cause prime, le quali, se esistono, di sicuro non usano un linguaggio afferrabile dall’umana comprensione (10). Se le categorie dell’intendimento umano possono – seppur con ampissime riserve – giungere a catturare i tratti della posizione dell’uomo nel cosmo che questi si è inventato di sana pianta, “allorquando si attraversa il confine dell’immenso e terribile Ignoto – l’Altrove abitato dalle ombre – dobbiamo ricordarci di lasciare sulla soglia la nostra umanità ed essenza terrestri” (11). E proprio su questo frangente è bene soffermarsi: nella misura in cui l’uomo consista nella sua volontà di porsi come ordinatore del cosmo intero, e nella misura in cui quest’ultimo lo trascenda, allora non solo l’ordinamento cosmico sarà, per così dire, antiumano, ma l’uomo in quanto tale non potrà consistere che in un errore, in una fisima della natura. Laddove l’uomo voglia porsi quale detentore di quei segreti che la volta stellata cela, il corso della natura diviene, in luogo della storia di un progresso trionfante, la cronologia della riappropriazione, da parte delle forze elementari, degli spazi profanati dalla hybris umanoide. L’esito di questa riflessione è evidente. Se così stanno le cose, non potrebbe consistere l’uomo in “un errore, una malattia della natura, un’escrescenza sul corpo infinito dell’evoluzione, come una verruca su una mano? Non potrebbe la completa distruzione dell’umanità essere di beneficio alla Natura nel suo complesso?” (12). Il bilancio è glaciale.
E tutto ciò, si badi bene, senza riferimento alcuno ad elementi di ordine sovrannaturale. Lovecraft ebbe a dichiararsi ripetutamente un convinto meccanicista (13). Le forze che vide dispiegarsi all’interno degli scenari abitati dall’uomo furono di ordine eminentemente fisico – tentacoli di una Ananke, di una necessità, che rifiuta di rendersi comprensibile all’umano intendimento: “Io nutro sempre il più profondo riguardo per l’intelletto puro: sono un assoluto materialista e meccanicista, credo che il cosmo non abbia né scopo né significato, sia un groviglio di cicli alterni di condensazione e dispersione elettronica: una cosa senza principio né direzione permanente né fine, fatta soltanto di forze cieche che agiscono secondo schemi fissi ed eterni, inerenti alla loro essenza” (14). Forze cieche che diverranno, successivamente, gli oscuri Dei di un pantheon alla rovescia, dove le realtà più elevate sono quelle più idiote ed insensate – solo, ovviamente, laddove l’uomo voglia, con la sua esile ed impotente razionalità, scioglierne gli arcani. L’uomo, insomma, volendo decifrare la gerarchia di forze sovrastanti la sua esistenza, non vi troverebbe che una crescente inintelligibilità.
Come ben argomentò Michel Houellebecq nel suo appassionato studio dedicato allo scrittore, “il terrore di Lovecraft è rigorosamente materiale” (15); se il grande Cthulhu si risolve in “una combinazione di elettroni, proprio come noi” (16), è pure assai probabile che esso, “grazie al libero gioco delle forze cosmiche [...], disponga di un potere e di una potenza d’azione di gran lunga superiori ai nostri. Cosa che non ha, a priori, nulla di rassicurante” (17).
Ebbene, proprio in ciò risiede il tratto antirazionalista dell’eccentrico di Providence (18): ogni produzione della ragione si risolve, secondo lo scrittore, in un vano tentativo di rendere catturabile quella dimensione ignota che fa da sfondo ad ogni evento, tanto umano quanto cosmico. Dove, continua il nostro autore, una siffatta ragione venga intesa quale quintessenza dell’essere umano, nella misura in cui quest’ultimo si definisca quale animale razionale, insomma, il rifiuto del culto della ragione diviene, inevitabilmente e congenitamente, antiumanesimo, rifiuto dell’umano in quanto tale. Gli Dei del pantheon lovecraftiano, incarnanti le cieche forze di una natura che assai malvolentieri si rende disponibile alla comprensione, si prendono letteralmente gioco degli umani che li evocano e che intrattengono rapporti con loro. La morte, per chi osa rompere i sigilli che trattengono forze di questa caratura, è forse l’esito meno doloroso. La tecnica narrativa lovecraftiana, conformemente a ciò, si stacca dalla mera indagine psicologica, che fu propria di Edgar Allan Poe, per giungere agli abissi siderali, ove gli Antichi attendono. L’orrore di Lovecraft non abita l’inconscio dei personaggi ma le stelle sovrastanti, non appartiene alla loro interiorità ma si manifesta come irruzione di un’alterità pulsante e spaesante. È assai significativo, a questo proposito, che lo scrittore americano abbia giudicato il suo The Call of Cthulhu – in merito all’impatto che il testo avrebbe avuto con il pubblico abituale dei racconti di fantascienza e horror
– “un po’ troppo bizzarro per una clientela che ricerca il fantastico soltanto in apparenza, ma che preferisce tenere i piedi
solidamente ancorati sul terreno del noto e del familiare” (19).
teoria-dell-orroreIn righe che potrebbero venire considerate come un manifesto programmatico del suo modus operandi, l’autore dichiarò: “Tutti i miei racconti si basano sulla fondamentale premessa che le leggi, gli interessi e le emozioni comuni agli esseri umani non abbiano validità né significato nella vastità del cosmo. Ritengo non vi sia altro che puerilità in un racconto in cui la forma umana – e le ben definite e limitate passioni umane e le condizioni e le valutazioni – sono descritte come proprie anche di altri mondi o di altri universi. Per raggiungere l’essenza della vera alterità, sia nel tempo che nello spazio che nelle dimensioni, occorre dimenticare che concetti quali la vita organica, il bene e il male, l’amore e l’odio, e tutti gli analoghi attributi locali di una razza trascurabile e effimera chiamata umanità, abbiano un’importanza di qualsiasi genere” (20). Parole che sembrano ricalcare i contenuti di uno dei più celebri saggi lovecraftiani dedicati all’argomento: “Il vero racconto sovrannaturale possiede qualcosa di più del delitto misterioso, delle ossa insanguinate, o di una apparizione avvolta in un lenzuolo che trascina rumorose catene secondo copione. Deve esservi presente una certa atmosfera di terrore inesplicabile e mozzafiato di forze estranee, sconosciute; e deve esserci un’allusione, espressa con una gravità e un tono sinistro adeguati all’argomento, alla più terribile concezione del cervello umano: una maligna e peculiare sospensione o sconfitta di quelle immutabili leggi di Natura che costituiscono la nostra sola difesa contro gli assalti del caos e i demoni dello spazio insondabile” (21). Laddove, ribadiamolo, il fulcro dell’intendimento ordinario si distacchi dalla superficie terrestre per giungere oltre il cielo stellato, la pretesa onnisciente ed onnipotente dell’umanità appare alla stregua di un mero errore, di una anomalia, tanto curiosa quanto inaudita.
Tuttavia, è bene sottolinearlo, siffatta alterità non esclude, metodologicamente, il riferimento a luoghi fisici ben definiti. Se la fantasia lovecraftiana attinge le proprie risorse in spazi nemmeno visibili all’uomo, è pur da enti reali che muove il suo sentiero narrativo. Luoghi geograficamente delimitati e determinati vengono utilizzati dallo scrittore per smuovere forze senza tempo e luogo: “Nonostante si spingano a descrivere abissi sconosciuti, i miei racconti prendono sempre avvio da un’ambientazione realistica. I reami spettrali di Poe erano anonimi, popolati da creature misteriose dall’ignoto passato – invece io mi sforzo di dare alle cose che scrivo l’ambientazione tipica dell’antico New England e ai miei personaggi [...] il tipico lignaggio di queste terre. Le mie fantasie oniriche non nascono dal nulla [...] ma hanno bisogno, per mettersi in moto, dello stimolo rappresentato da una scena, da un oggetto o un evento reali. [...] Il mondo che mi circonda è il mio teatro d’azione, il libro da cui traggo la mia ispirazione” (22). Ogni luogo, delineato spazialmente e temporalmente, diviene il supporto per l’intrusione di forze atopiche ed acroniche.
Occorre ora soffermarsi su un altro aspetto della critica di Lovecraft. Abbiamo detto che il fatto che l’uomo non possa guardare oltre la volta stellata rappresenta la sua limitazione e, al contempo, la sua salvezza, in quanto nemmeno potrebbe sopportare di intuire ciò che risiede al di là. Ebbene, la stessa limitazione accade anche sul suolo del pianeta che egli abita. I Moderni, per giungere a proclamarsi quali punto d’arrivo di una linea progressiva da essi stessi immaginata, non possono che escludere a priori tutto quel che esula dalle loro categorie – e ciò, anche a livello temporale, non considerando che una piccolissima porzione della storia del pianeta in cui si trovano a proliferare. Similmente a quanto scrisse Oswald Spengler, ne Il tramonto dell’Occidente – studio morfologico sulle ciclicità della storia mondiale che Lovecraft lesse attentamente, e dalle cui tesi fu molto attratto, arrivando ad affermare di averle addirittura anticipate (23) – il Mondo Moderno, dominio del razionalismo trionfante, per giungere a dichiararsi giudice incondizionato di tutto l’esistente, non può che ridurre e delimitare radicalmente il suo oggetto di interesse. Spazialmente, limitandosi ad indagare solo quella piccola regione all’interno della quale le sue leggi possono valere. Temporalmente, giungendo a considerare solo quelle epoche che, in un modo o nell’altro, anticiparono le istanze promosse dalla Modernità stessa: “La storia della vita sulla Terra non viene studiata in relazione ad un arco di tempo infinito” (24).
lovecraftTutte le epoche antecedenti, inaccessibili agli strumenti della storiografi a moderna, positiva ed esatta, vengono (s)qualificate come mitologiche ed escluse così dall’interesse degli studiosi. Interpretando in questo modo il corso intero della storia, il razionalismo proietta in modo totalitario le sue istanze, riscrivendo gli albori planetari. Per estendere la sua signoria in maniera incondizionata, l’Io cartesiano elide tutto ciò che esula dalla propria comprensione. Tuttavia, uno sguardo che sappia oltrepassare le barriere costruite dal razionalismo non potrà che trovarsi a rilevare che “la cosmica futilità dell’uomo lo riduce a una porzione trascurabile perfino della microscopica frazione di infinito che egli può concepire. Egli sa di essere irrilevante ed effimero, perché è possibile dimostrare la validità delle leggi in vigore localmente nel suo milieu solo entro il loro limitato raggio di applicazione” (25).
Lo scacco alla presunta onnipotenza dei moderni è perpetuato. L’uomo, persino sul pianeta che lo accoglie, non è che uno dei suoi ospiti. Egli non è di certo il primo a calcarne il suolo: altri, prima di lui, colonizzarono il globo. E non è da escludersi che, dopo un temporaneo ritiro tra gli abissi celesti e terrestri, essi possano farvi ritorno.
Da queste considerazioni prendono avvio tutte le riserve mosse dallo scrittore a quelle mitologie religiose che assumono, in qualche modo, l’umanità come stadio privilegiato. Pur non apprezzando l’ateismo spiccio e grossolano – il quale condivide appieno con la religione che vorrebbe mettere al bando la fiducia nelle possibilità dell’uomo come elemento discriminante il divenire del globo – Lovecraft non può che dichiararsi agnostico. Il suo, tuttavia, non è l’agnosticismo di chi decapita una divinità – nella fattispecie, il Dio dei cristiani – per porne un’altra – l’uomo, nella sua imago moderna – sul trono dell’universo. L’agnostico, secondo Lovecraft – e queste considerazioni sembrano ripercorrere le tesi relativiste di un Simmel, di un Rensi, di uno Spengler o di un Nietzsche (26) – “è il solo che si propone di studiare il futuro del pianeta in modo imparziale [...]. Nel suo studio, constata che non c’è alcuna probabilità che l’universo sia mosso da qualche forma di predilezione per la specie umana” (27). Anche laddove questa predilezione vi fosse, essa non potrebbe, in alcun modo, risultare accessibile e comprensibile da parte dell’uomo, appartenendo quest’ultimo allo stesso sistema del quale vorrebbe indagare le cause prime. Trovandosi l’umanità all’interno della corrente di un divenire caotico – il cui muoversi uniforme non sarebbe che la permanente tregua di quelle forze sovraumane che si danno contesa dall’inizio dei tempi – risulterebbe evidente, agli occhi dello scrittore, l’impossibilità di uno sguardo esterno che possa coglierlo nella sua interezza, “più di quanto possa farlo un pidocchio femmina sentendosi orgogliosa parte del corredo pedicolare di un gatto, di un cane, di un uomo, di una capra o dei parassiti della sabbia” (28). L’unica prospettiva autenticamente aliena dalle vicende umane è, al limite, quella degli Dèi – che, non a caso, nella Weltanschauung lovecraftiana, sono tutt’altro che benevoli verso l’uomo e la sua sanità mentale…
i-mostri-all-angolo-della-stradaIl relativismo, che enorme rilevanza culturale e filosofica assunse agli inizi del secolo scorso, diviene, in Lovecraft, iperbolico: nelle sue pagine, non viene questionata la supremazia della Modernità ma il primato fisico e metafisico dell’uomo in quanto tale, il quale viene relativizzato dopo la scoperta di infiniti abissi cosmici.
La legge morale dentro di me e il cielo stellato sopra di me non sono che ricordi. Edgar Allan Poe adombrò la legge morale interna di Kant – a Lovecraft, non rimase che popolare il suo cielo stellato di creature mostruose. Il culto dell’individuo di stampo razionalista, illuminista e positivista vien posto in questione dalla naturale constatazione che “la vita organica costituisce un fenomeno assolutamente secondario e transitorio nell’universo a noi prossimo” (29). E così tutte le sue pretese assolutiste. Rimane da sottolineare la misura in cui il rifiuto, da parte di Lovecraft, di un Mondo Moderno in mano a “una nuova aristocrazia, senza l’animo degli aristocratici” (30) vada a coniugarsi al recupero di un passato che è, al contempo, un attingere a quelle fonti che, retrostanti le singole manifestazioni fenomeniche, permangono immobili (31) – di modo che la garanzia alla effettività di una rivoluzione possa e debba risolversi nel suo essere conservatrice (32). Proprio il ricorso ad un patrimonio tradizionale acquisito, secondo il pensiero lovecraftiano, si rivela essere in grado di mettere tra parentesi, seppur per un istante, l’amara consapevolezza di un divenire cieco e assolutamente inaccessibile alle categorizzazioni antropologiche: “Questo sfondo di tradizioni su cui vanno misurati gli enti e gli eventi dell’esperienza è l’unica cosa che conferisca a tali enti ed eventi l’illusione di un significato, un valore, un interesse drammatico in un cosmo che alla radice è tutto privo di scopo: per questo io pratico e prèdico un conservatorismo estremo nell’arte, nella società e nella politica, come unico modo per sfuggire [...] alla disperazione e alla confusione di una lotta senza guida né regole in un caos non celato da veli” (33).
Il ricorso alla Tradizione permette, insomma, all’eccentrico di Providence, di districare i corsi e ricorsi della storia mondiale, riscattando i fatti storici dalla tirannia della materia inerte per consegnarli ad una dimensione simbolica e metafisica, in senso superiore.
lovecraftAll’interno di una costellazione metastorica di questo tipo, tanto il suo interesse per la civiltà romana – manifestatosi assai precocemente – quanto la sua infatuazione per un modello di civiltà pre-industriale – che investirà, in America, pensatori del calibro di Ezra Pound – acquisiscono un’adeguata collocazione. Il Paradiso perduto di Lovecraft, innanzi alla crescente industrializzazione e massificazione tecnocratica, diviene un New England “immaginario, fatto di scene familiari con certe luci e ombre trasfi gurate (per lo meno, quello è l’intento) quanto basta per sovrapporlo a elementi oltremondani. [...] Secondo me l’arte più sincera è quella locale, legata alla terra in cui si è nati, perché anche quando un artista canta di meravigliose terre lontane non fa altro che celebrare la propria terra, occultandola sotto uno sgargiante esotico mantello” (34). Fedeltà ad una cultura pre-industriale che rivela, al contempo, un deciso rifiuto delle metropoli moderne, atomi impazziti nei quali ogni peculiarità qualitativa viene ridotta drasticamente e piegata ai dettami di una accelerazione sempre più intensa e delirante. Simbolo e sintomo di un futuro tecnico e sradicato diviene, agli occhi di Lovecraft, “New York [...], questo ibrido ammasso di arricchiti che fanno la bella vita, senza radici né tradizioni” (35).
Il netto rifiuto di una civiltà, la quale proietta i suoi simboli in metropoli che sorgono, come funghi, sulla terra dei padri, acquisisce in Lovecraft una rilevanza tale da permettere al già citato Houellebecq di affermare che “una delle figure fondamentali della sua opera – l’idea di una città titanica e grandiosa, nelle fondamenta della quale pullulano ripugnanti creature da incubo – deriva direttamente dalla sua esperienza a New York” (36).
Laddove la Modernità abbia esaurito le proprie risorse spirituali, è all’eternità del Mito e della Tradizione che occorre gettare uno sguardo. Come il Waldgänger jüngeriano, lo scrittore di Providence, in periodi di decadenza, attinge a fonti non avvelenate, superiori ai topoi attanagliati dalla crisi spirituale e metafisica che infesta le Abendlanden; egli “è molto determinato a difendersi non soltanto usando tecniche ed idee del suo tempo, ma anche mantenendo vivo il contatto con quei poteri che, superiori alle forze temporali, non si esauriscono mai in puro movimento” (37).
La narrazione, lungi dall’essere mera dichiarazione privata o cronaca, acquisisce qui i tratti del profetismo mitopoietico: “Non mi piegherò ad alcun canone tipico moderno, ma scivolerò apertamente indietro nei secoli per diventare un creatore di miti [...]. Scrivendo, uscirò fuori dal mondo, con la mente fissa non all’uso letterario, ma ai sogni che sognavo quando avevo sei anni o meno” (38). Emerge, in queste righe, quel patrimonio tradizionale che, messo al bando da un Occidente che ha già decretato il suo suicidio spirituale, emerge nei sogni – non a caso, luoghi nei quali i racconti di Lovecraft hanno i natali.
La science fiction non si rivela come fuga mistico-ascetica dalla realtà, ma come un rifiuto di questa ultima a partire da imperativi metafisico-spirituali di tipo eroico ed aristocratico. Sfaccettature, queste ultime, di quel conservatorismo integrale che condurrà Lovecraft a rivelare le falle ben celate tanto del democratismo imperante quanto del capitalismo e della quantitativa civiltà delle macchine, che con il marxismo ebbero in comune il livellamento dell’uomo a mera unità di produzione e di consumo. Queste le diagnosi dello scrittore di Providence che ricordiamo abbondantemente in quanto di una portata formidabile: “La democrazia nasce dalla deificazione del concetto astratto di «giustizia» e dalla volgare moderna devozione alla quantità in opposizione alla qualità. Una volta che la democrazia diverrà il principio guida, non potrà fare altro che danni alla civiltà. [...] Ora, l’esaltazione umanistica della specificità di ogni individuo rappresenta il solo vero nemico mortale della democrazia, in quanto sistema, e ne pregiudicherebbe la realizzabilità, anche nel breve periodo, se solo questo individualismo venisse pienamente condiviso da un numero suffi ciente di persone. [...] Fino a che l’insistenza umanistica sull’io-individuale rimarrà una forza dominante, la democrazia non potrà esistere. Quello che rende oggi la democrazia non solo possibile ma dolorosamente inevitabile è il declino dell’ideale umanistico dell’io-individuale: la meccanizzazione distrugge l’uomo e riduce la vita degli esseri umani a quella di automi meccanici e di semplici animali. Umanesimo e democrazia non possono coesistere. Democrazia significa decadenza: il trionfo della macchina sull’individuo” (39).
Considerazioni, queste ultime, che ci portano ad accostare il pensiero di uno scrittore americano ancora troppo ignorato dalla critica ad intellettuali del rango del Guénon de Il regno della quantità e i segni dei tempi e de La crisi del mondo moderno, dell’Evola di Rivolta contro il mondo moderno o del Burzio de Il demiurgo e la crisi dell’Occidente, dello Spengler de Il Tramonto dell’Occidente e di Anni decisivi, dello Jünger de L’operaio, solo per citarne alcuni. Novero culturale per il quale sistemi politici quali democratismo, bolscevismo e capitalismo esigono, secondo le medesime modalità, che l’uomo si riduca al suo mero aspetto quantitativo – solo sotto il segno di quest’ultimo, infatti, il singolo potrà essere smembrato dalle sue doti specifiche per essere accorpato ad una massa inorganica, passiva e femminea.
Angolatura prospettica che, in conclusione, indurrà Lovecraft ad un amor fati che deve condurre ad una lotta strenua per la difesa della propria Kultur, anche laddove questa si approssimi ad un inesorabile tramonto, sempre più accelerato: “Penso che la cultura antica, con la sua difesa dei valori qualitativi in contrapposizione a quelli quantitativi, rappresenti un bene che va difeso – forse la sola cosa al mondo per cui valga la pena lottare – ma non credo che questa lotta avrà successo” (40). È da notarsi quanto queste parole si approssimino a quanto scriveva Oswald Spengler, in conclusione al suo studio morfologico sui rapporti tra uomo e tecnica, domandandosi quale tipo di azione potesse condurre l’uomo faustiano/occidentale, durante le ultime convulsioni del suo sistema. L’unica azione possibile, con l’indicazione della quale chiudiamo il presente scritto, sarà il mantenimento delle proprie posizioni, nonostante l’approssimarsi di catastrofi di dimensioni titaniche, il tenere fermo innanzi alla tragedia sopraggiungente, esattamente come “quel soldato romano le cui ossa furono trovate a Pompei davanti a una porta: egli morì, poiché al momento dell’eruzione del Vesuvio ci si dimenticò di scioglierlo dalla sua consegna. Questa è grandezza, questo significa avere razza. Una fine onorevole è l’unica cosa che all’uomo non può essere tolta” (41). Sic transit gloria mundi.
NOTE
(1) P. Pizzari, Necronomicon. Magia nera in un manoscritto della biblioteca vaticana, Atanòr, Roma 1993, p. 98.
(2) E ciò, anzitutto, da un punto di vista letterario, come ben sostengono de Turris e Fusco nella loro Introduzione al volume citato: “Il centro dell’originalità lovecraftiana è il passaggio dal punto di vista strettamente antropocentrico, che connotava il classico racconto ottocentesco del sovrannaturale, a una visione cosmica del terrore. Questo passaggio è ciò che lo fece definire un «Copernico letterario» da Fritz Leiber e un «Poe cosmico» da Jacques Bergier”. G. de Turris, S. Fusco, Le miniere di H. P. Lovecraft, in H. P. Lovecraft, L’orrore della realtà. La visione del mondo del rinnovatore della narrativa fantastica, a cura di G. de Turris e S. Fusco, Mediterranee, Roma 2007, p. 86.
(3) Ivi, p. 63.
(4) Ibidem.
(5) Ibidem.
(6) G. de Turris, S. Fusco, op. cit., p. 10.
(7) F. Burzio, Il demiurgo e la crisi dell’Occidente, Bompiani, Torino 1943, p. 23.
(8) L’orrore della realtà, cit., p. 96.
(9) Ivi, p. 32.
(10) Ecco quanto Lovecraft scriveva a Frank Belknap Long nel 1929, in proposito: “Se esistesse veramente un principio organizzatore, un insieme di norme o uno scopo fi nale, non potremmo mai sperare di comprenderne nemmeno una minima parte, poiché la natura più profonda del cosmo è costituita da un complesso di energia ribollente di cui la mente umana non potrà mai formarsi un’idea nemmeno approssimata e che può sfiorarci solo attraverso il velo di quelle apparenti, locali manifestazioni che chiamiamo l’universo materiale e visibile”. Ivi, pp. 102-103.
(11) Ivi, p. 100.
(12) Ivi, p. 30.
(13) Ebbe a dichiarare, peraltro, in merito all’assenza, nel suo animo, di infatuazioni di ordine fideistico: “Apparve chiaro che la mia giovane mente non era incline alla religione, perché non nacque mai in me la tanto invocata fede cieca nei miracoli e in altre cose simili”. Ivi, p. 24. E, ancora: “Non ho mai avuto la minima ombra di fede nel sovrannaturale, ma fingevo di credere, poiché era ritenuta la cosa giusta da fare in una famiglia di fede battista”. Ivi, p. 41.
(14) Ivi, p. 84. Corsivo nostro.
(15) M. Houellebecq, H. P. Lovecraft. Contro il mondo, contro la vita, traduzione di C. Perroni, con una postfazione di S. King, Bompiani, Milano 2001, p. 19.
(16) Ibidem.
(17) Ivi, pp. 19-20.
(18) Eccentrico, come sostiene Gianfranco de Turris, “nel senso etimologico del termine: fuori centro, lontano dal centro, intendendo per quest’ultimo il modo comune e banale di vivere e di pensare, i comuni e banali interessi, la comune e banale letteratura”. G. de Turris, L’eccentrico di Providence. Ritratto minimo di H. P. Lovecraft, in Futuro Presente, numero 8, inverno 1996, p. 61.
(19) L’orrore della realtà, cit., p. 99.
(20) Ivi, p. 100. Corsivo nostro.
(21) H. P. Lovecraft, L’orrore sovrannaturale nella letteratura, ne La teoria dell’orrore, a cura di G. de Turris, Bietti, Milano 2011, p. 317.
(22) L’orrore della realtà, cit., p. 229.
(23) Ivi, pp. 82-83; 155.
(24) Ivi, p. 104.
(25) Ibidem.
(26) La parentela tra le idee qui esposte e la cosiddetta favola cosmologica nietzschiana, posta come incipit in Su verità e menzogna in senso extramorale, è decisamente evidente. Queste le parole di Nietzsche, che potrebbero, a tutti gli eff etti, essere attribuite anche a Lovecraft: “In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più menzognero della «storia del mondo»: ma tutto ciò durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire. Qualcuno potrebbe inventare una favola di questo genere, ma non riuscirebbe tuttavia a illustrare sufficientemente quanto misero, spettrale, fugace, privo di scopo e arbitrario sia il comportamento dell’intelletto umano dentro la natura. Vi furono eternità in cui esso non esisteva: quando per lui tutto sarà nuovamente finito, non sarà avvenuto nulla di notevole.” Ne La filosofia nell’epoca tragica dei Greci, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 2006, p. 227. Andrea Marini, nel saggio che segue, mette appieno a fuoco l’intima parentela tra la nietzschiana Wille zur Macht e la ricostruzione lovecraftiana dell’universo.
(27) L’orrore della realtà, cit., pp. 149-150.
(28) Ivi, p. 154.
(29) Ivi, p. 202.
(30) Ivi, p. 188.
(31) Le parole di Lovecraft, a tal proposito, sono assai suggestive: “È la bellezza che amo, la bellezza del meraviglioso, dell’antichità, del paesaggio, dell’architettura, della paura, della luce e del buio, della linea e del contorno, della memoria sacra e della tradizione illustre”. Ivi, p. 81.
(32) De Turris, nel suo già citato articolo, mette in luce la parentela spirituale che accomuna l’eccentrico di Providence e la cosiddetta rivoluzione conservatrice: “HPL era quel che oggi si definisce un «rivoluzionario conservatore», come ve ne furono in Germania fra il 1918 e il 1933, e come ve ne furono anche in Italia”. G. de Turris, L’eccentrico di Providence, cit., p. 63. Sul movimento ideologico in questione, cfr. A. Mohler, La rivoluzione conservatrice. Una guida, traduzione a cura di L. Arcella, Akropolis\La Roccia di Erec, Napoli-Firenze 1998.
(33) Ivi, p. 85. Fedeltà ad una tradizione che può, secondo Lovecraft, declinarsi in un duplice modo, in base alle condizioni materiali di vita del singolo individuo che decide di attingere al proprio retaggio spirituale e metafisico e alle sue disposizioni personali: essa “può presentarsi in forma sia materiale sia spirituale, come nel caso di chi dimora ancora fisicamente in mezzo ad antiche colline, foreste e case coloniche; oppure può essere solo di natura spirituale, nel caso di una persona che risiede in città ma che rimane devota alle consuetudini e ai ricordi della vecchia, semplice, vita di campagna, e si immerge nel loro spirito e nelle loro reminiscenze anche quando non può viverle direttamente”. Ivi, p. 89.
(34) Ivi, p. 87.
(35) Ibidem. Non fu l’unica volta, quella appena citata, in cui lo scrittore di Providence ebbe a scagliarsi contro la virulenta civiltà tecnocratica. Scriveva, a Woodburn Harris, il 1 marzo 1929: “Riesco a sopportare la vita solo perché non mi lascio coinvolgere dalla civiltà delle macchine e rimango legato alle tradizioni del New England che l’hanno preceduta. È impossibile trovare qualcosa di positivo in questa età delle macchine, che ci corrode come un cancro. [...] Nasce da una mentalità squallida, ristretta e si nutre del veleno della schiavitù industriale e del lusso materiale. È una cultura che dà peso soltanto ai beni materiali; i suoi simboli sono i bagni piastrellati e i termosifoni, anziché il colonnato dorico e la scuola di filosofia”. Ivi, p. 130. Sempre all’amico, il 9 novembre 1929, aggiungeva: “La civiltà delle macchine è inferiore alla nostra perché tramuta in virtù un insieme di valori assolutamente sterili – la velocità, la quantità, il lavoro fine a se stesso, la ricchezza materiale, l’ostentazione, ecc.; perché questa civiltà disprezza le relazioni che normalmente la memoria instaura con l’ambiente e le tradizioni, perché promuove l’omologazione a scapito dell’individualismo e perché ha come effetto il circolo vizioso di un lavoro che non porta a niente se non al costante indebolimento dei naturali principi di qualità, intraprendenza, personalità e del pieno sviluppo dello spirito umano verso una prospettiva di complessità e realtà che lo allontani dall’istintualità animalesca”. Ivi, p. 172.
(36) M. Houellebecq, op. cit., p. 129.
(37) E. Jünger, Il trattato del ribelle, a cura di F. Bovoli, Adelphi, Milano 2009, p. 55.
(38) L’orrore della realtà, cit., p. 67.
(39) Ivi, p. 186-188.
(40) Ivi, p. 185.