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“Voi, tutti voi, siete folli non perché
quello che sapete sia sbagliato ma perché pensate che, per il solo fatto
che non conoscete altro, questo che conoscete esaurisca la sapienza
dell’universo [...]. In realtà esistono esseri che se solo riusciste ad
intravedere vi toglierebbero ogni fiducia nell’esistenza di un qualunque
ordine del mondo e vi getterebbero nel terrore più folle perché
capireste che l’unica vostra possibilità rimane la speranza che questi
esseri non abbiano interesse ad occuparsi di voi (1)”.
In
questo breve contributo, finalizzato ad onorare una delle figure
intellettuali più interessanti – seppure, tuttora, ampiamente ignorata
da una critica non meramente letteraria – del secolo sul quale si è
appena chiuso il sipario, considereremo alcuni aspetti, filosofi ci e
non, emergenti dalla ampissima corrispondenza che Howard Phillips
Lovecraft
teneva, quotidianamente, con amici, scrittori e giornalisti –
corrispondenza il cui ammontare sfiora le centomila lettere, alcune,
peraltro, di una lunghezza spaventosa. E ciò, a partire da una antologia
epistolare curata da
Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco, uscita con il titolo di
H. P. Lovecraft. L’orrore della realtà. La visione del mondo del rinnovatore della narrativa fantastica (Mediterranee, Roma 2007).
Lovecraft
fu uno degli ultimi compositori massivi di lettere – pratica, oggi,
ormai superata dalla messaggistica istantanea che annichilisce il gusto
di comporre una comunicazione stilisticamente gradevole e curata.
Dall’epistolario lovecraftiano, ora come ora analizzato sino ad un assai
scarso quindici per cento, emergono tutte quelle direttrici spirituali
che assumono connotazione letteraria nei racconti del nostro autore. Ne
analizzeremo, in questa sede, alcune, per mostrare quanto
Lovecraft possa inserirsi a tutti gli effetti in un filone culturale e letterario denominato usualmente
letteratura
della crisi. Una delle sfaccettature che discuteremo nel presente
saggio – tra le più incisive, a parer nostro – è la decostruzione totale
di un antropocentrismo permeante ampie porzioni della cultura
continentale illuminista e positivista (2). È quanto, ora, occorre porre
in questione, a partire dall’antologia sopracitata.
Nell’opera
lovecraftiana, il netto rifiuto di un uomo inteso quale misura di tutte
le cose e di un universo modellato intorno ad un entità caratterizzata
in siffatto modo va a coniugarsi con una
Weltanschauung nella
quale l’umanità non è che un fragile stato intermedio, sospeso tra
istanze più antiche e per nulla amichevoli verso di essa. Il processo di
cosmicizzazione perpetuato dal razionalismo occidentale non è che mera
fantasia, innanzi alla constatazione che vi sono forze che abitano tanto
i freddi spazi siderali quanto le viscere della terra che non hanno la
minima cura delle concezioni universalistiche antropocentriche. Le
pretese umane, troppo umane, di porre l’uomo come causa, al contempo
efficiente e finale, del cosmo intero vanno a scontrarsi e a naufragare
innanzi alla certezza glaciale che, come il nostro autore ebbe a
scrivere a Rheinhart Kleiner nel 1921, “la vita non ha un significato o
un principio guida – l’uomo non è altro che un microscopico frammento in
quel cosmico ammasso di materia che è il luogo d’elezione di
capricciose, incontrollabili forze naturali” (3). Se la scienza moderna
assume la regolarità dei fenomeni quale suo momento costitutivo, al fine
di garantirsi capacità predittive, questa velleità viene messa al bando
da
Lovecraft,
secondo il quale se “talvolta ci è possibile prevedere, a partire dal
nostro stato presente, ciò che presumibilmente sarà di noi” (4), il
successo di siffatta profezia non può che essere casuale ed episodico,
in quanto “le vere cause all’opera sono nelle mani di forze che non
conosciamo” (5). La regolarizzazione del corso naturale e cosmico in
schemi creati
ad hoc – nobile menzogna, comunque e in ogni caso
necessaria all’esistenza di un uomo che non potrebbe nemmeno tollerare
l’apertura di una prospettiva più ampia – si estingue, laddove lo
sguardo si sposti ad un
milieu più vasto.
I cieli di
Lovecraft
si popolano, allora, di quegli esseri “cosmicamente indifferenti” (6)
che, nella migliore delle ipotesi, non hanno la minima considerazione
dell’uomo e dei suoi aneliti di controllo e misurazione di tutti gli
enti. A partire da ciò, il netto rifiuto di aderire ai dettami
mitologici di un Cristianesimo il quale non farebbe che edulcorare,
attraverso la fondazione teologica di un Dio benevolo ed attento alle
preoccupazioni umanoidi, il carattere ignoto e
uneimlich,
perturbante, connaturato all’esistenza in quanto tale. Ciò non
significa, ben inteso, che il Cristianesimo debba venire messo al bando
dalle società: esso è pur sempre necessario all’ordinamento vigente, al
fine di proteggere le illusioni delle masse – le quali, come direbbe un
Filippo Burzio, hanno “sete di miracoli” (7) – dalla percezione della
loro assoluta insignificanza, in un contesto più esteso.
All’interno di queste considerazioni
emerge ampiamente, come diremo più avanti, la critica di colui che si
definì “uno scrittore horror amante del passato e della
tradizione” (8) ad un sistema democratico che affonda le sue radici
negli strati più bassi della società e della mera quantità, al fine di
garantirsi e perpetuarsi; si domandava, il nostro: “Perché individui
dotati di buon senso dovrebbero auto-ingannarsi raccontandosi
dell’esistenza di privati e benevoli dèi, spiriti e dèmoni? Queste
fandonie vanno bene per la feccia della società: ma perché persone
razionali dovrebbero tormentarsi con tali stupidaggini?” (9).
L’uomo, insomma, non può che indagare le
regioni circostanti la sua minuta ed insignificante individualità,
senza giungere anche solo ad intendere la portata abissale delle cause
prime, le quali, se esistono, di sicuro non usano un linguaggio
afferrabile dall’umana comprensione (10). Se le categorie
dell’intendimento umano possono – seppur con ampissime riserve –
giungere a catturare i tratti della posizione dell’uomo nel cosmo che
questi si è inventato di sana pianta, “allorquando si attraversa il
confine dell’immenso e terribile Ignoto – l’Altrove abitato dalle ombre –
dobbiamo ricordarci di lasciare sulla soglia la nostra umanità ed
essenza terrestri” (11). E proprio su questo frangente è bene
soffermarsi: nella misura in cui l’uomo consista nella sua volontà
di porsi come ordinatore del cosmo intero, e nella misura in cui
quest’ultimo lo trascenda, allora non solo l’ordinamento cosmico sarà,
per così dire, antiumano, ma l’uomo in quanto tale non potrà consistere
che in un errore, in una fisima della natura. Laddove l’uomo voglia
porsi quale detentore di quei segreti che la volta stellata cela, il
corso della natura diviene, in luogo della storia di un progresso
trionfante, la cronologia della riappropriazione, da parte delle forze
elementari, degli spazi profanati dalla hybris umanoide.
L’esito di questa riflessione è evidente. Se così stanno le cose, non
potrebbe consistere l’uomo in “un errore, una malattia della natura,
un’escrescenza sul corpo infinito dell’evoluzione, come una verruca su
una mano? Non potrebbe la completa distruzione dell’umanità essere di
beneficio alla Natura nel suo complesso?” (12). Il bilancio è glaciale.
E tutto ciò, si badi bene, senza riferimento alcuno ad elementi di ordine sovrannaturale.
Lovecraft
ebbe a dichiararsi ripetutamente un convinto meccanicista (13). Le
forze che vide dispiegarsi all’interno degli scenari abitati dall’uomo
furono di ordine eminentemente fisico – tentacoli di una
Ananke,
di una necessità, che rifiuta di rendersi comprensibile all’umano
intendimento: “Io nutro sempre il più profondo riguardo per l’intelletto
puro: sono un assoluto materialista e meccanicista, credo che il cosmo
non abbia né scopo né significato, sia un groviglio di cicli alterni di
condensazione e dispersione elettronica: una cosa senza principio né
direzione permanente né fine, fatta soltanto di forze cieche che
agiscono secondo schemi fissi ed eterni, inerenti alla loro essenza”
(14). Forze cieche che diverranno, successivamente, gli oscuri Dei di un
pantheon alla rovescia, dove le realtà più elevate sono quelle più
idiote ed insensate – solo, ovviamente, laddove l’uomo voglia, con la
sua esile ed impotente razionalità, scioglierne gli arcani. L’uomo,
insomma, volendo decifrare la gerarchia di forze sovrastanti la sua
esistenza, non vi troverebbe che una crescente inintelligibilità.
Come ben argomentò Michel Houellebecq nel suo appassionato studio dedicato allo scrittore, “il terrore di
Lovecraft
è rigorosamente materiale” (15); se il grande Cthulhu si risolve in
“una combinazione di elettroni, proprio come noi” (16), è pure assai
probabile che esso, “grazie al libero gioco delle forze cosmiche [...],
disponga di un potere e di una potenza d’azione di gran lunga superiori
ai nostri. Cosa che non ha, a priori, nulla di rassicurante” (17).
Ebbene, proprio in ciò risiede il tratto
antirazionalista dell’eccentrico di Providence (18): ogni produzione
della ragione si risolve, secondo lo scrittore, in un vano tentativo di
rendere catturabile quella dimensione ignota che fa da sfondo ad ogni
evento, tanto umano quanto cosmico. Dove, continua il nostro autore, una
siffatta ragione venga intesa quale quintessenza dell’essere umano,
nella misura in cui quest’ultimo si definisca quale animale razionale,
insomma, il rifiuto del culto della ragione diviene, inevitabilmente e
congenitamente, antiumanesimo, rifiuto dell’umano in quanto tale. Gli
Dei del pantheon lovecraftiano, incarnanti le cieche forze di una natura
che assai malvolentieri si rende disponibile alla comprensione, si
prendono letteralmente gioco degli umani che li evocano e che
intrattengono rapporti con loro. La morte, per chi osa rompere i sigilli
che trattengono forze di questa caratura, è forse l’esito meno
doloroso. La tecnica narrativa lovecraftiana, conformemente a ciò, si
stacca dalla mera indagine psicologica, che fu propria di
Edgar Allan Poe, per giungere agli abissi siderali, ove gli Antichi attendono. L’orrore di
Lovecraft
non abita l’inconscio dei personaggi ma le stelle sovrastanti, non
appartiene alla loro interiorità ma si manifesta come irruzione di
un’alterità pulsante e spaesante. È assai significativo, a questo
proposito, che lo scrittore americano abbia giudicato il suo
The Call of Cthulhu – in merito all’impatto che il testo avrebbe avuto con il pubblico abituale dei racconti di fantascienza e
horror
– “un po’ troppo bizzarro per una clientela che ricerca il fantastico soltanto in apparenza, ma che preferisce tenere i piedi
solidamente ancorati sul terreno del noto e del familiare” (19).
In righe che potrebbero venire considerate come un manifesto programmatico del suo
modus operandi,
l’autore dichiarò: “Tutti i miei racconti si basano sulla fondamentale
premessa che le leggi, gli interessi e le emozioni comuni agli esseri
umani non abbiano validità né significato nella vastità del cosmo.
Ritengo non vi sia altro che puerilità in un racconto in cui la forma
umana – e le ben definite e limitate passioni umane e le condizioni e le
valutazioni – sono descritte come proprie anche di altri mondi o di
altri universi. Per raggiungere l’essenza della vera alterità, sia nel
tempo che nello spazio che nelle dimensioni, occorre dimenticare che
concetti quali la vita organica, il bene e il male, l’amore e l’odio, e
tutti gli analoghi attributi locali di una razza trascurabile e effimera
chiamata umanità, abbiano un’importanza di qualsiasi genere” (20).
Parole che sembrano ricalcare i contenuti di uno dei più celebri saggi
lovecraftiani dedicati all’argomento: “Il vero racconto sovrannaturale
possiede qualcosa di più del delitto misterioso, delle ossa
insanguinate, o di una apparizione avvolta in un lenzuolo che trascina
rumorose catene secondo copione. Deve esservi presente una certa
atmosfera di terrore inesplicabile e mozzafiato di forze estranee,
sconosciute; e deve esserci un’allusione, espressa con una gravità e un
tono sinistro adeguati all’argomento, alla più terribile concezione del
cervello umano: una maligna e peculiare sospensione o sconfitta di
quelle immutabili leggi di Natura che costituiscono la nostra sola
difesa contro gli assalti del caos e i demoni dello spazio insondabile”
(21). Laddove, ribadiamolo, il fulcro dell’intendimento ordinario si
distacchi dalla superficie terrestre per giungere oltre il cielo
stellato, la pretesa onnisciente ed onnipotente dell’umanità appare alla
stregua di un mero errore, di una anomalia, tanto curiosa quanto
inaudita.
Tuttavia, è bene sottolinearlo, siffatta
alterità non esclude, metodologicamente, il riferimento a luoghi fisici
ben definiti. Se la fantasia lovecraftiana attinge le proprie risorse
in spazi nemmeno visibili all’uomo, è pur da enti reali che muove il suo
sentiero narrativo. Luoghi geograficamente delimitati e determinati
vengono utilizzati dallo scrittore per smuovere forze senza tempo e
luogo: “Nonostante si spingano a descrivere abissi sconosciuti, i miei
racconti prendono sempre avvio da un’ambientazione realistica. I reami
spettrali di Poe erano anonimi, popolati da creature misteriose
dall’ignoto passato – invece io mi sforzo di dare alle cose che scrivo
l’ambientazione tipica dell’antico New England e ai miei personaggi
[...] il tipico lignaggio di queste terre. Le mie fantasie oniriche non
nascono dal nulla [...] ma hanno bisogno, per mettersi in moto, dello
stimolo rappresentato da una scena, da un oggetto o un evento reali.
[...] Il mondo che mi circonda è il mio teatro d’azione, il libro da cui
traggo la mia ispirazione” (22). Ogni luogo, delineato spazialmente e
temporalmente, diviene il supporto per l’intrusione di forze atopiche ed
acroniche.
Occorre ora soffermarsi su un altro aspetto della critica di
Lovecraft.
Abbiamo detto che il fatto che l’uomo non possa guardare oltre la volta
stellata rappresenta la sua limitazione e, al contempo, la sua
salvezza, in quanto nemmeno potrebbe sopportare di intuire ciò che
risiede al di là. Ebbene, la stessa limitazione accade anche sul suolo
del pianeta che egli abita. I Moderni, per giungere a proclamarsi quali
punto d’arrivo di una linea progressiva da essi stessi immaginata, non
possono che escludere
a priori tutto quel che esula dalle loro
categorie – e ciò, anche a livello temporale, non considerando che una
piccolissima porzione della storia del pianeta in cui si trovano a
proliferare. Similmente a quanto scrisse Oswald Spengler, ne
Il tramonto dell’Occidente – studio morfologico sulle ciclicità della storia mondiale che
Lovecraft
lesse attentamente, e dalle cui tesi fu molto attratto, arrivando ad
affermare di averle addirittura anticipate (23) – il Mondo Moderno,
dominio del razionalismo trionfante, per giungere a dichiararsi giudice
incondizionato di tutto l’esistente, non può che ridurre e delimitare
radicalmente il suo oggetto di interesse. Spazialmente, limitandosi ad
indagare solo quella piccola regione all’interno della quale le sue
leggi possono valere. Temporalmente, giungendo a considerare solo quelle
epoche che, in un modo o nell’altro, anticiparono le istanze promosse
dalla Modernità stessa: “La storia della vita sulla Terra non viene
studiata in relazione ad un arco di tempo infinito” (24).
Tutte
le epoche antecedenti, inaccessibili agli strumenti della storiografi a
moderna, positiva ed esatta, vengono (s)qualificate come mitologiche ed
escluse così dall’interesse degli studiosi. Interpretando in questo
modo il corso intero della storia, il razionalismo proietta in modo
totalitario le sue istanze, riscrivendo gli albori planetari. Per
estendere la sua signoria in maniera incondizionata, l’Io cartesiano
elide tutto ciò che esula dalla propria comprensione. Tuttavia, uno
sguardo che sappia oltrepassare le barriere costruite dal razionalismo
non potrà che trovarsi a rilevare che “la cosmica futilità dell’uomo lo
riduce a una porzione trascurabile perfino della microscopica frazione
di infinito che egli può concepire. Egli sa di essere irrilevante ed
effimero, perché è possibile dimostrare la validità delle leggi in
vigore localmente nel suo
milieu solo entro il loro limitato raggio di applicazione” (25).
Lo scacco alla presunta onnipotenza dei
moderni è perpetuato. L’uomo, persino sul pianeta che lo accoglie, non è
che uno dei suoi ospiti. Egli non è di certo il primo a calcarne il
suolo: altri, prima di lui, colonizzarono il globo. E non è da
escludersi che, dopo un temporaneo ritiro tra gli abissi celesti e
terrestri, essi possano farvi ritorno.
Da queste considerazioni prendono avvio
tutte le riserve mosse dallo scrittore a quelle mitologie religiose che
assumono, in qualche modo, l’umanità come stadio privilegiato. Pur non
apprezzando l’ateismo spiccio e grossolano – il quale condivide appieno
con la
religione che vorrebbe mettere al bando la fiducia nelle possibilità dell’uomo come elemento discriminante il divenire del globo –
Lovecraft
non può che dichiararsi agnostico. Il suo, tuttavia, non è
l’agnosticismo di chi decapita una divinità – nella fattispecie, il Dio
dei cristiani – per porne un’altra – l’uomo, nella sua
imago moderna – sul trono dell’universo. L’agnostico, secondo
Lovecraft
– e queste considerazioni sembrano ripercorrere le tesi relativiste di
un Simmel, di un Rensi, di uno Spengler o di un Nietzsche (26) – “è il
solo che si propone di studiare il futuro del pianeta in modo imparziale
[...]. Nel suo studio, constata che non c’è alcuna probabilità che
l’universo sia mosso da qualche forma di predilezione per la specie
umana” (27). Anche laddove questa predilezione vi fosse, essa non
potrebbe, in alcun modo, risultare accessibile e comprensibile da parte
dell’uomo, appartenendo quest’ultimo allo stesso sistema del quale
vorrebbe indagare le cause prime. Trovandosi l’umanità all’interno della
corrente di un divenire caotico – il cui muoversi uniforme non sarebbe
che la permanente tregua di quelle forze sovraumane che si danno contesa
dall’inizio dei tempi – risulterebbe evidente, agli occhi dello
scrittore, l’impossibilità di uno sguardo esterno che possa coglierlo
nella sua interezza, “più di quanto possa farlo un pidocchio femmina
sentendosi orgogliosa parte del corredo pedicolare di un gatto, di un
cane, di un uomo, di una capra o dei parassiti della sabbia” (28).
L’unica prospettiva autenticamente aliena dalle vicende umane è, al
limite, quella degli Dèi – che, non a caso, nella
Weltanschauung lovecraftiana, sono tutt’altro che benevoli verso l’uomo e la sua sanità mentale…
Il relativismo, che enorme rilevanza culturale e filosofica assunse agli inizi del secolo scorso, diviene, in
Lovecraft,
iperbolico: nelle sue pagine, non viene questionata la supremazia della
Modernità ma il primato fisico e metafisico dell’uomo in quanto tale,
il quale viene relativizzato dopo la scoperta di infiniti abissi
cosmici.
La legge morale dentro di me e il cielo stellato sopra di me non sono che ricordi.
Edgar Allan Poe adombrò la legge morale interna di Kant – a
Lovecraft,
non rimase che popolare il suo cielo stellato di creature mostruose. Il
culto dell’individuo di stampo razionalista, illuminista e positivista
vien posto in questione dalla naturale constatazione che “la vita
organica costituisce un fenomeno assolutamente secondario e transitorio
nell’universo a noi prossimo” (29). E così tutte le sue pretese
assolutiste. Rimane da sottolineare la misura in cui il rifiuto, da
parte di
Lovecraft,
di un Mondo Moderno in mano a “una nuova aristocrazia, senza l’animo
degli aristocratici” (30) vada a coniugarsi al recupero di un passato
che è, al contempo, un attingere a quelle fonti che, retrostanti le
singole manifestazioni fenomeniche, permangono immobili (31) – di modo
che la garanzia alla effettività di una rivoluzione possa e debba
risolversi nel suo essere conservatrice (32). Proprio il ricorso ad un
patrimonio tradizionale acquisito, secondo il pensiero lovecraftiano, si
rivela essere in grado di mettere tra parentesi, seppur per un istante,
l’amara consapevolezza di un divenire cieco e assolutamente
inaccessibile alle categorizzazioni antropologiche: “Questo sfondo di
tradizioni su cui vanno misurati gli enti e gli eventi dell’esperienza è
l’unica cosa che conferisca a tali enti ed eventi l’illusione di un
significato, un valore, un interesse drammatico in un cosmo che alla
radice è tutto privo di scopo: per questo io pratico e prèdico un
conservatorismo estremo nell’arte, nella società e nella politica, come
unico modo per sfuggire [...] alla disperazione e alla confusione di una
lotta senza guida né regole in un caos non celato da veli” (33).
Il ricorso alla Tradizione permette,
insomma, all’eccentrico di Providence, di districare i corsi e ricorsi
della storia mondiale, riscattando i fatti storici dalla tirannia della
materia inerte per consegnarli ad una dimensione simbolica e metafisica,
in senso superiore.
All’interno
di una costellazione metastorica di questo tipo, tanto il suo interesse
per la civiltà romana – manifestatosi assai precocemente – quanto la
sua infatuazione per un modello di civiltà pre-industriale – che
investirà, in America, pensatori del calibro di Ezra Pound –
acquisiscono un’adeguata collocazione. Il Paradiso perduto di
Lovecraft,
innanzi alla crescente industrializzazione e massificazione
tecnocratica, diviene un New England “immaginario, fatto di scene
familiari con certe luci e ombre trasfi gurate (per lo meno, quello è
l’intento) quanto basta per sovrapporlo a elementi oltremondani. [...]
Secondo me l’arte più sincera è quella locale, legata alla terra in cui
si è nati, perché anche quando un artista canta di meravigliose terre
lontane non fa altro che celebrare la propria terra, occultandola sotto
uno sgargiante esotico mantello” (34). Fedeltà ad una cultura
pre-industriale che rivela, al contempo, un deciso rifiuto delle
metropoli moderne, atomi impazziti nei quali ogni peculiarità
qualitativa viene ridotta drasticamente e piegata ai dettami di una
accelerazione sempre più intensa e delirante.
Simbolo e sintomo di un futuro tecnico e sradicato diviene, agli occhi di
Lovecraft, “New York [...], questo ibrido ammasso di arricchiti che fanno la bella vita, senza radici né tradizioni” (35).
Il netto rifiuto di una civiltà, la quale proietta i suoi
simboli in metropoli che sorgono, come funghi, sulla terra dei padri, acquisisce in
Lovecraft
una rilevanza tale da permettere al già citato Houellebecq di affermare
che “una delle figure fondamentali della sua opera – l’idea di una
città titanica e grandiosa, nelle fondamenta della quale pullulano
ripugnanti creature da incubo – deriva direttamente dalla sua esperienza
a New York” (36).
Laddove la Modernità abbia esaurito le
proprie risorse spirituali, è all’eternità del Mito e della Tradizione
che occorre gettare uno sguardo. Come il Waldgänger jüngeriano, lo scrittore di Providence, in periodi di decadenza, attinge a fonti non avvelenate, superiori ai topoi attanagliati dalla crisi spirituale e metafisica che infesta le Abendlanden;
egli “è molto determinato a difendersi non soltanto usando tecniche ed
idee del suo tempo, ma anche mantenendo vivo il contatto con quei poteri
che, superiori alle forze temporali, non si esauriscono mai in puro
movimento” (37).
La narrazione, lungi dall’essere mera
dichiarazione privata o cronaca, acquisisce qui i tratti del profetismo
mitopoietico: “Non mi piegherò ad alcun canone tipico moderno, ma
scivolerò apertamente indietro nei secoli per diventare un creatore di
miti [...]. Scrivendo, uscirò fuori dal mondo, con la mente fissa non
all’uso letterario, ma ai sogni che sognavo quando avevo sei anni o
meno” (38). Emerge, in queste righe, quel patrimonio tradizionale che,
messo al bando da un Occidente che ha già decretato il suo suicidio
spirituale, emerge nei sogni – non a caso, luoghi nei quali i racconti
di
Lovecraft hanno i natali.
La
science fiction non si
rivela come fuga mistico-ascetica dalla realtà, ma come un rifiuto di
questa ultima a partire da imperativi metafisico-spirituali di tipo
eroico ed aristocratico. Sfaccettature, queste ultime, di quel
conservatorismo integrale che condurrà
Lovecraft
a rivelare le falle ben celate tanto del democratismo imperante quanto
del capitalismo e della quantitativa civiltà delle macchine, che con il
marxismo ebbero in comune il livellamento dell’uomo a mera unità di
produzione e di consumo. Queste le diagnosi dello scrittore di
Providence che ricordiamo abbondantemente in quanto di una portata
formidabile: “La democrazia nasce dalla deificazione del concetto
astratto di «giustizia» e dalla volgare moderna devozione alla quantità
in opposizione alla qualità. Una volta che la democrazia diverrà il
principio guida, non potrà fare altro che danni alla civiltà. [...] Ora,
l’esaltazione umanistica della specificità di ogni individuo
rappresenta il solo vero nemico mortale della democrazia, in quanto
sistema, e ne pregiudicherebbe la realizzabilità, anche nel breve
periodo, se solo questo individualismo venisse pienamente condiviso da
un numero suffi ciente di persone. [...] Fino a che l’insistenza
umanistica sull’io-individuale rimarrà una forza dominante, la
democrazia non potrà esistere. Quello che rende oggi la democrazia non
solo possibile ma dolorosamente inevitabile è il declino dell’ideale
umanistico dell’io-individuale: la meccanizzazione distrugge l’uomo e
riduce la vita degli esseri umani a quella di automi meccanici e di
semplici animali. Umanesimo e democrazia non possono coesistere.
Democrazia significa decadenza: il trionfo della macchina
sull’individuo” (39).
Considerazioni, queste ultime, che ci
portano ad accostare il pensiero di uno scrittore americano ancora
troppo ignorato dalla critica ad intellettuali del rango del
Guénon de
Il regno della quantità e i segni dei tempi e de
La crisi del mondo moderno, dell’
Evola di
Rivolta contro il mondo moderno o del Burzio de
Il demiurgo e la crisi dell’Occidente, dello Spengler de
Il Tramonto dell’Occidente e di
Anni decisivi, dello
Jünger de
L’operaio,
solo per citarne alcuni. Novero culturale per il quale sistemi politici
quali democratismo, bolscevismo e capitalismo esigono, secondo le
medesime modalità, che l’uomo si riduca al suo mero aspetto quantitativo
– solo sotto il segno di quest’ultimo, infatti, il singolo potrà essere
smembrato dalle sue doti specifiche per essere accorpato ad una massa
inorganica, passiva e femminea.
Angolatura prospettica che, in conclusione, indurrà
Lovecraft ad un
amor fati che deve condurre ad una lotta strenua per la difesa della propria
Kultur,
anche laddove questa si approssimi ad un inesorabile tramonto, sempre
più accelerato: “Penso che la cultura antica, con la sua difesa dei
valori qualitativi in contrapposizione a quelli quantitativi,
rappresenti un bene che va difeso – forse la sola cosa al mondo per cui
valga la pena lottare – ma non credo che questa lotta avrà successo”
(40). È da notarsi quanto queste parole si approssimino a quanto
scriveva Oswald Spengler, in conclusione al suo studio morfologico sui
rapporti tra uomo e tecnica, domandandosi quale tipo di azione potesse
condurre l’uomo faustiano/occidentale, durante le ultime convulsioni del
suo sistema. L’unica azione possibile, con l’indicazione della quale
chiudiamo il presente scritto, sarà il mantenimento delle proprie
posizioni, nonostante l’approssimarsi di catastrofi di dimensioni
titaniche, il tenere fermo innanzi alla tragedia sopraggiungente,
esattamente come “quel soldato romano le cui ossa furono trovate a
Pompei davanti a una porta: egli morì, poiché al momento dell’eruzione
del Vesuvio ci si dimenticò di scioglierlo dalla sua consegna. Questa è
grandezza, questo significa avere razza. Una fine onorevole è l’unica
cosa che all’uomo non può essere tolta” (41).
Sic transit gloria mundi.
NOTE
(1) P. Pizzari,
Necronomicon. Magia nera in un manoscritto della biblioteca vaticana, Atanòr, Roma 1993, p. 98.
(2) E ciò, anzitutto, da un punto di vista letterario, come ben sostengono de Turris e Fusco nella loro
Introduzione
al volume citato: “Il centro dell’originalità lovecraftiana è il
passaggio dal punto di vista strettamente antropocentrico, che connotava
il classico racconto ottocentesco del sovrannaturale, a una visione
cosmica del terrore. Questo passaggio è ciò che lo fece definire un
«Copernico letterario» da Fritz Leiber e un «Poe cosmico» da Jacques
Bergier”. G. de Turris, S. Fusco,
Le miniere di H. P. Lovecraft, in H. P.
Lovecraft,
L’orrore della realtà. La visione del mondo del rinnovatore della narrativa fantastica, a cura di G. de Turris e S. Fusco, Mediterranee, Roma 2007, p. 86.
(3)
Ivi, p. 63.
(4)
Ibidem.
(5)
Ibidem.
(6) G. de Turris, S. Fusco, op. cit., p. 10.
(7) F. Burzio,
Il demiurgo e la crisi dell’Occidente, Bompiani, Torino 1943, p. 23.
(8)
L’orrore della realtà, cit., p. 96.
(9)
Ivi, p. 32.
(10) Ecco quanto
Lovecraft
scriveva a Frank Belknap Long nel 1929, in proposito: “Se esistesse
veramente un principio organizzatore, un insieme di norme o uno scopo fi
nale, non potremmo mai sperare di comprenderne nemmeno una minima
parte, poiché la natura più profonda del cosmo è costituita da un
complesso di energia ribollente di cui la mente umana non potrà mai
formarsi un’idea nemmeno approssimata e che può sfiorarci solo
attraverso il velo di quelle apparenti, locali manifestazioni che
chiamiamo l’universo materiale e visibile”.
Ivi, pp. 102-103.
(11)
Ivi, p. 100.
(12)
Ivi, p. 30.
(13) Ebbe a dichiarare, peraltro, in merito all’assenza, nel suo animo,
di infatuazioni di ordine fideistico: “Apparve chiaro che la mia giovane
mente non era incline alla
religione, perché non nacque mai in me la tanto invocata fede cieca nei miracoli e in altre cose simili”.
Ivi,
p. 24. E, ancora: “Non ho mai avuto la minima ombra di fede nel
sovrannaturale, ma fingevo di credere, poiché era ritenuta la cosa
giusta da fare in una famiglia di fede battista”.
Ivi, p. 41.
(14)
Ivi, p. 84. Corsivo nostro.
(15) M. Houellebecq,
H. P. Lovecraft. Contro il mondo, contro la vita, traduzione di C. Perroni, con una postfazione di S. King, Bompiani, Milano 2001, p. 19.
(16)
Ibidem.
(17)
Ivi, pp. 19-20.
(18) Eccentrico, come sostiene
Gianfranco de Turris,
“nel senso etimologico del termine: fuori centro, lontano dal centro,
intendendo per quest’ultimo il modo comune e banale di vivere e di
pensare, i comuni e banali interessi, la comune e banale letteratura”.
G. de Turris,
L’eccentrico di Providence. Ritratto minimo di H. P. Lovecraft, in Futuro Presente, numero 8, inverno 1996, p. 61.
(19)
L’orrore della realtà, cit., p. 99.
(20) Ivi, p. 100. Corsivo nostro.
(21) H. P.
Lovecraft,
L’orrore sovrannaturale nella letteratura, ne
La teoria dell’orrore, a cura di G. de Turris, Bietti, Milano 2011, p. 317.
(22)
L’orrore della realtà, cit., p. 229.
(23)
Ivi, pp. 82-83; 155.
(24)
Ivi, p. 104.
(25)
Ibidem.
(26) La parentela tra le idee qui esposte e la cosiddetta favola cosmologica nietzschiana, posta come
incipit in
Su verità e menzogna in senso extramorale, è decisamente evidente. Queste le parole di Nietzsche, che potrebbero, a tutti gli eff etti, essere attribuite anche a
Lovecraft:
“In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso
infiniti sistemi solari c’era una volta un astro, su cui animali
intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più
menzognero della «storia del mondo»: ma tutto ciò durò soltanto un
minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli
animali intelligenti dovettero morire. Qualcuno potrebbe inventare una
favola di questo genere, ma non riuscirebbe tuttavia a illustrare
sufficientemente quanto misero, spettrale, fugace, privo di scopo e
arbitrario sia il comportamento dell’intelletto umano dentro la natura.
Vi furono eternità in cui esso non esisteva: quando per lui tutto sarà
nuovamente finito, non sarà avvenuto nulla di notevole.” Ne
La filosofia nell’epoca tragica dei Greci,
a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 2006, p. 227. Andrea
Marini, nel saggio che segue, mette appieno a fuoco l’intima parentela
tra la nietzschiana
Wille zur Macht e la ricostruzione lovecraftiana dell’universo.
(27)
L’orrore della realtà, cit., pp. 149-150.
(28)
Ivi, p. 154.
(29)
Ivi, p. 202.
(30)
Ivi, p. 188.
(31) Le parole di
Lovecraft,
a tal proposito, sono assai suggestive: “È la bellezza che amo, la
bellezza del meraviglioso, dell’antichità, del paesaggio,
dell’architettura, della paura, della luce e del buio, della linea e del
contorno, della memoria sacra e della tradizione illustre”.
Ivi, p. 81.
(32) De Turris, nel suo già citato articolo, mette in luce la parentela
spirituale che accomuna l’eccentrico di Providence e la cosiddetta
rivoluzione conservatrice:
“HPL era quel che oggi si definisce un «rivoluzionario conservatore»,
come ve ne furono in Germania fra il 1918 e il 1933, e come ve ne furono
anche in Italia”. G. de Turris,
L’eccentrico di Providence, cit., p. 63. Sul movimento ideologico in questione, cfr. A. Mohler,
La rivoluzione conservatrice. Una guida, traduzione a cura di L. Arcella, Akropolis\La Roccia di Erec, Napoli-Firenze 1998.
(33)
Ivi, p. 85. Fedeltà ad una tradizione che può, secondo
Lovecraft,
declinarsi in un duplice modo, in base alle condizioni materiali di
vita del singolo individuo che decide di attingere al proprio retaggio
spirituale e metafisico e alle sue disposizioni personali: essa “può
presentarsi in forma sia materiale sia spirituale, come nel caso di chi
dimora ancora fisicamente in mezzo ad antiche colline, foreste e case
coloniche; oppure può essere solo di natura spirituale, nel caso di una
persona che risiede in città ma che rimane devota alle consuetudini e ai
ricordi della vecchia, semplice, vita di campagna, e si immerge nel
loro spirito e nelle loro reminiscenze anche quando non può viverle
direttamente”.
Ivi, p. 89.
(34)
Ivi, p. 87.
(35)
Ibidem. Non fu l’unica volta, quella appena citata, in cui
lo scrittore di Providence ebbe a scagliarsi contro la virulenta
civiltà tecnocratica. Scriveva, a Woodburn Harris, il 1 marzo 1929:
“Riesco a sopportare la vita solo perché non mi lascio coinvolgere dalla
civiltà delle macchine e rimango legato alle tradizioni del New England
che l’hanno preceduta. È impossibile trovare qualcosa di positivo in
questa età delle macchine, che ci corrode come un cancro. [...] Nasce da
una mentalità squallida, ristretta e si nutre del veleno della
schiavitù industriale e del lusso materiale. È una cultura che dà peso
soltanto ai beni materiali; i suoi
simboli sono i bagni piastrellati e i termosifoni, anziché il colonnato dorico e la scuola di filosofia”.
Ivi,
p. 130. Sempre all’amico, il 9 novembre 1929, aggiungeva: “La civiltà
delle macchine è inferiore alla nostra perché tramuta in virtù un
insieme di valori assolutamente sterili – la velocità, la quantità, il
lavoro fine a se stesso, la ricchezza materiale, l’ostentazione, ecc.;
perché questa civiltà disprezza le relazioni che normalmente la memoria
instaura con l’ambiente e le tradizioni, perché promuove l’omologazione a
scapito dell’individualismo e perché ha come effetto il circolo vizioso
di un lavoro che non porta a niente se non al costante indebolimento
dei naturali principi di qualità, intraprendenza, personalità e del
pieno sviluppo dello spirito umano verso una prospettiva di complessità e
realtà che lo allontani dall’istintualità animalesca”.
Ivi, p. 172.
(36) M. Houellebecq, op. cit., p. 129.
(37) E. Jünger,
Il trattato del ribelle, a cura di F. Bovoli, Adelphi, Milano 2009, p. 55.
(38)
L’orrore della realtà, cit., p. 67.
(39)
Ivi, p. 186-188.
(40)
Ivi, p. 185.